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I grandi assedi che hanno cambiato la storia
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E-book1.214 pagine14 ore

I grandi assedi che hanno cambiato la storia

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Info su questo ebook

Dalla caduta di Troia alla conquista di Leningrado nella Seconda guerra mondiale: le grandi roccaforti espugnate

La storia della guerra si accompagna da sempre a quella delle tecniche di assedio. Espugnare una città o un forte significa molto spesso volgere a proprio favore le sorti di un conflitto, e per questo gli eserciti di ogni epoca hanno posto particolare impegno nel trovare il modo più efficace di attaccare (o difendere) luoghi del genere. Questo libro esplora la storia delle tecniche di assedio attraverso l’analisi di più di settanta assedi divenuti celebri per la loro importanza o per l’asprezza delle battaglie che li coinvolsero. Da eventi mitici come l’assedio di Troia ai sanguinosi combattimenti per Gerusalemme durante le Crociate, fino ai terribili scontri della Seconda guerra mondiale, Alberto Peruffo illustra l’evoluzione degli strumenti e delle tattiche volti alla conquista di postazioni e insediamenti fortificati. Un excursus dettagliato e affascinante all’interno della storia militare.

Il racconto dei più feroci assedi della storia

Tra le battaglie analizzate:

Troia (XIII-XII secolo a.C.)
Lo stratagemma del cavallo

Siracusa (214/212 a.C.)
Il genio di Archimede contro la potenza di Roma

Cartagine (149/146 a.C.)
La città ridotta in cenere dall’ira di Roma

Alesia (52 a.C.)
Il più grande trionfo di Giulio Cesare e l’annientamento della Gallia

Gerusalemme (70 d.C.)
La distruzione della Città Santa e l’inizio della diaspora ebraica

Acri (1191)
Riccardo Cuor di Leone contro il Saladino

Costantinopoli (1453)
La fine dell’impero romano d’Oriente e la nascita della potenza ottomana

Malta (1565)
Quando i cavalieri di Malta salvarono la cristianità e l’Occidente dalla marea turca

Gibilterra (1779/83)
La resistenza della rocca inglese contro francesi e spagnoli

Dien Bien Phu (1953)
La fine del predominio coloniale europeo nel mondo
Alberto Peruffo
è nato a Seregno nel 1968 e si è laureato all’Università degli Studi di Milano. Ha cooperato con la Sovrintendenza archeologica di Milano. Collabora con alcune riviste di storia e insegna. Ha pubblicato diversi saggi storici, tra cui: I corsari del Kaiser; La battaglia di Carcano; La supremazia di Roma, battaglie dei Cimbri e dei Teutoni; Le guerre dei popoli del mare; La guerra civile longobarda e la battaglia di Cornate e L’età dell’oro dei cacciatori. Con la Newton Compton ha pubblicato Le battaglie più sanguinose della storia, I grandi eserciti della storia e I grandi assedi che hanno cambiato la storia.
LinguaItaliano
Data di uscita22 ott 2020
ISBN9788822743879
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    Anteprima del libro

    I grandi assedi che hanno cambiato la storia - Alberto Peruffo

    Troia (xiii-xii secolo a.C.)

    La guerra di Troia tra mito e realtà

    L’assedio della città di Troia, raccontato da Omero nell’Iliade e nell’Odissea, riveste il carattere di archetipo di tutti gli assedi futuri nel mondo occidentale: proprio per questo merita di essere trattato, sebbene l’aspetto leggendario di tutta la vicenda sia predominante sulla storia reale. Di certo si sa che la città troiana era calata nella cultura micenea dell’Età del Bronzo e che fu distrutta da un esercito invasore tra il 1200 e il 1250 a.C. Quali fossero le forze devastatrici è incerto, così come le motivazioni della guerra e le modalità dell’assedio.

    Omero nell’Iliade ricostruisce in dettaglio una fase dell’assedio legata alle vicende dell’eroe acheo Achille, descrivendo l’epico scontro con il suo rivale Ettore, figlio di Priamo, re della città. La distruzione di Troia viene invece raccontata nell’Odissea, in cui si narrano le avventure di Ulisse. Odisseo, appunto, svelando la sua identità alla corte dei Feaci, ricorda la notte della conquista della città tramite lo stratagemma del cavallo di legno, al cui interno si era nascosto con alcuni guerrieri achei che poterono così sfruttare la leggerezza commessa dai troiani nel portare il cavallo stesso all’interno delle mura cittadine.

    In realtà, il dato archeologico ottenuto dalle ricerche nel bacino del Mediterraneo della fine dell’Età del Bronzo ci rimanda a una situazione generalizzata in cui molte città appartenenti a diverse civiltà – da quella achea a quelle del Medio Oriente – furono distrutte.

    Tra i luoghi devastati vi fu anche la città di Troia, la cui collocazione strategica controllava l’ingresso dello stretto dei Dardanelli. Nell’area dell’Egeo fu la località colpita da distruzioni posta più a nord.

    Molti gli autori dell’età classica che datano la distruzione della mitica città di Priamo all’inizio del xii secolo a.C., da Dionisio di Alicarnasso a Eratostene di Cirene, fino a Tucidide, mentre solo Erodoto nelle sue Storie anticipa la guerra alla metà del xiii secolo a.C. Queste datazioni, compiute sulla base di tradizioni orali, solo in parte sono legate alla distruzione di Troia quanto piuttosto a eventi collegati come la migrazione dei dori o all’arrivo di Enea in Italia. Al contrario, il filosofo Democrito di Abdera, vissuto nel v secolo a.C., affermò che la sua opera Piccola Cosmologia fu scritta 730 anni dopo la distruzione di Troia, convalidando la data dell’inizio del xii secolo a.C. relativa alla distruzione della Troia omerica.

    Questa data viene confermata dagli studi archeologici i quali indicano come lo strato corrispondente alla città detta di Troia viia risulta essere distrutto dalla mano dell’uomo intorno alla fine del xiii o all’inizio del xii secolo a.C.: anche se è difficile indicare una cronologia esatta, proprio questo strato venne considerata da molti storici attinente con quello della città cantata da Omero.

    Nel corso della sua lunga storia, Troia presenta in totale nove strati separati da un livello di distruzione dovuto a cause naturali, a guerre o a semplici abbandoni fino alla fine dell’epoca romana. La città precedente a quella di Troia viia, Troia vi, venne edificata intorno al 1800 a.C. sopra una cittadella precedente. I suoi abitanti, di origine indoeuropea, portarono il sito sui Dardanelli alla massima dimensione e, forse, anche alla massima potenza della sua storia: una vera città reale con una cittadella di tipo miceneo. La Troia vi, del livello archeologico chiamato h, venne distrutta da un forte terremoto datato dall’archeologo americano Blegen intorno al 1270 a.C., in base alle ceramiche micenee ritrovate nel livello di distruzione della città. La successiva ricostruzione non raggiunse le dimensioni dell’insediamento urbano precedente risultando più modesto, pur appoggiandosi alle mura ciclopiche preesistenti. Tra i due insediamenti non vi furono mutamenti culturali che possano indicare un cambiamento della popolazione stanziata in quella regione, tanto che recentemente Troia viia viene classificata come Troia vii non risultando una netta discontinuità con il livello precedente.

    La datazione indicativa della distruzione di Troia vii a viene posta tra il 1220 e il 1180 a.C. corrispondente al te (Tardo Elladico) iii B2¹; in questo livello si trovano vaste tracce d’incendi e resti umani contornati da punte di freccia e di lancia.

    La città era divisa in due settori: una cittadella posta sulla cima della collina di Hissarlik, la prima area scavata dall’archeologo Heinrich Schliemann, e una città bassa, molto più ampia ai piedi della cittadella, circa 13 volte più grande dell’acropoli, anch’essa fortificata da mura in pietra e mattoni cotti al sole nelle parti superiori delle mura che erano rinforzate con travi in legno. Entrambe le cerchia murarie erano intervallate da torri che sporgevano leggermente verso l’esterno delle mura, in modo da colpire d’infilata eventuali tentativi di scalata degli assalitori. Il numero di abitanti di questa città, alla fine dell’Età del Bronzo, doveva essere intorno alle 10.000 persone o forse più, divenendo una delle più grandi città del Mediterraneo della sua epoca.

    Troia nel contesto anatolico dell’Età del Bronzo

    La regione dei Dardanelli era da tempo conosciuta dagli ittiti, maggiore potenza regionale del tempo nell’area anatolica. Intorno alla fine del xv secolo a.C. il re ittita Tudhaliya i portò gran parte dell’Anatolia occidentale sotto il controllo del suo regno: nei documenti ittiti compaiono per la prima volta la regione di Wilusa, associabile foneticamente al nome di Ilio, e la città di Taruwisa, presumibilmente la città di Troia. Da quel momento la regione di Wilusa rimase un fedele alleato degli ittiti, tanto da partecipare con un forte contingente di carri da battaglia e fanteria alla campagna che portò allo scontro di Qadesh. Solo pochi anni prima gli ittiti avevano sventato la minaccia portata da un capo mercenario di nome Piyama-Radu, alleato agli Ahhiyawa, gli achei, contro Troia. Egli aveva cacciato un certo Kukkunni, definito nei documenti ittiti come governatore di Wilusa, con l’aiuto del regno alleato del paese del fiume Seha, confinante a sud con la Troade. Gli ittiti ristabilirono il loro dominio sull’area a spese degli achei della città di Millawanda, la Mileto dei greci, saccheggiata dall’esercito di Muršili ii. L’importante città degli Ahhiyawa verrà devastata una seconda volta sotto il regno di Hattusili ii, infine posta sotto il controllo ittita da Tudhaliya iv. A quel tempo il re ittita impartiva l’ordine al re di Amurru di non commerciare più con la nemica Ahhiyawa.

    Nella seconda metà del secolo xiii a.C., una violenta guerra mise di nuovo in discussione la sovranità ittita su tutta la regione occidentale dell’Anatolia. La lega detta di Aššuwa, dal nome della regione che capeggiava la rivolta al regno di Hatti, raccolse nella coalizione diversi paesi, tra i quali: Lukka (Licia), Ta-ru-i-sa (Troia), la stessa Wilusa (Ilio), Karkija (Caria), alleanza poi sconfitta dal re ittita Tudhaliya iv.

    L’ultimo documento ittita su Wilusa risale all’ultimo sovrano ittita, Šuppiluliuma ii, che coinvolgeva il re del vicino paese di Mira in una disputa di potere nella città sui Dardanelli.

    Tutto questo indica come l’influenza ittita si sia prolungata fino alla fine del xiii secolo a.C. in tutta l’Anatolia occidentale e come la città di Wilusa possa essere ricollegabile alla Troia omerica per la sua posizione geografica tradizionalmente collocata in quell’area. Inoltre, nelle tavolette ittite, emergono i nomi dei sovrani di quella regione occidentale i cui nomi di origine greca e luvitica rimandano all’epopea omerica: tra essi Alaksandu, cioè Alessandro, altro nome di Paride e Priya, il re Priamo del racconto di Omero.

    Gli storici sono convinti che le relazioni ittite con gli Ahhiyawa non si limitavano alle isole dell’Egeo orientale ma si estendevano anche presso le città micenee della Grecia continentale, in particolare con il regno di Tebe quando aveva ancora l’egemonia sugli Achei, come dimostrano i documenti diplomatici ittiti nei quali il re di Ahhiyawa si definisce Kadmos, considerato dalla tradizione micenea come il fondatore di Tebe. Dopo la caduta di Tebe, probabilmente per mano di altri achei, come tramandato dal mito degli Epigoni, la nuova città egemone Micene ereditò la storica inimicizia contro gli ittiti.

    Si può immaginare che, poco prima della fine del xiii secolo a.C., quando Pilo e le città micenee dell’Argolide non erano ancora state distrutte, gli achei intrapresero la spedizione contro Troia in un momento di debolezza del regno ittita che, forse distratto da altre preoccupazioni come la carestia, trascurò le regioni occidentali del suo impero. La stessa presenza di donne provenienti da Troia, come sembra indicare il termine to-ro-ya rinvenuto nelle tavolette in Lineare B trovate a Pilo, per alcuni storici potrebbe indicare delle schiave invece che delle profughe. In questo caso si avrebbe la prova di una campagna militare degli Ahhiyawa del continente nell’Egeo orientale. Il mancato riferimento al potente impero ittita nella tradizione dell’Iliade potrebbe essere dovuto alla somma dei miti che andranno poi a comporre l’epica di Omero. Troia viene infatti ricostruita dopo le distruzioni a cavallo del xii-xiii secolo a.C. A Troia viia succede Troia viib1 che decade lentamente e, poi, Troia viib2; quest’ultima viene definitivamente distrutta intorno al 1020 a.C. da coloni greci di stirpe eolica provenienti dalla Tessaglia, intenti a ottenere la supremazia in quella regione strategica. L’accavallarsi di questi eventi può avere inserito nuove circostanze e nuovi protagonisti nell’epica di Omero.

    Il mito e la realtà storica della fine dell’Età del Bronzo

    Il racconto omerico non è comunque assimilabile a una cronaca di storia; molte sono le incongruenze con la geografia dell’epoca che hanno fatto dubitare della veridicità dei fatti narrati: ad esempio, il Peloponneso viene definito come un’isola, senza contare che la città di Sparta non esisteva ancora in epoca micenea.

    Questo può spiegarsi con lo stratificarsi dei vari avvenimenti raccontati come storie al confine tra lo storico e il leggendario dagli aedi nelle corti aristocratiche. Un paragone può essere fatto con la saga germanica del Canto di Ildebrando. Qui, un antico archetipo di origine indoeuropea, il duello tra padre e figlio, in nome della fedeltà alla parola data al proprio Signore, viene arricchito e reinterpretato nell’Alto Medioevo – sullo sfondo storico della conquista d’Italia da parte dei Goti di Teodorico nel v secolo d.C. – con l’aggiunta di anacronismi, come la presunta contemporaneità tra Teodorico e Attila. Il Canto viene tramandato successivamente tra i Longobardi e, tramite questi ultimi, trascritto infine in un dialetto tedesco, la cui identificazione è ancora incerta, nella Germania del ix secolo della nostra era.

    Tale deve essere stato anche il percorso dell’epica omerica. L’eroe Achille si ritrova nelle saghe celtiche irlandesi come in quelle indo-ariane, mentre Ulisse lo ritroviamo con il nome del mitico eroe Ull l’arciere noto fin da tempi più remoti presso i Paesi scandinavi. La matrice del racconto è certamente indoeuropea e deve risalire agli inizi del ii millennio a.C., prima delle migrazioni di massa, quando questi popoli indoeuropei erano ancora abbastanza uniti da creare una tradizione comune. Se il cuore di quest’epica fa riferimento a una matrice indoeuropea, le successive stratificazioni hanno arricchito il racconto a seconda dei popoli e dei luoghi dove il racconto si è evoluto. In area micenea ha assimilato le caratteristiche proprie al periodo acheo, come le armi peculiari a quei luoghi, per poi passare al periodo successivo al xii secolo a.C. A quel punto, la nuova geografia politica ha influenzato il racconto epico inserendo popoli che nel periodo di Troia viia non esistevano, come i Frigi, o eliminando regni importanti come quello ittita; per poi essere alla fine trascritto da Omero nel viii secolo a.C. assorbendo elementi propri di quel periodo come, ad esempio, l’inizio della tattica oplitica o l’importanza della città di Sparta. Lo stesso artificio del cavallo di Troia può essere attribuito al terremoto che precedentemente distrusse Troia vi, collegando il sisma a Poseidone che, essendo il dio che presiedeva ai fenomeni tellurici, veniva simboleggiato appunto da un cavallo. Il cavallo rappresenta l’archetipo della conquista della città con l’astuzia, presente in altri racconti anche presso culture lontane. Un’eco si coglie infatti nel racconto egiziano della conquista della città di Giaffa, in Palestina, da parte di Tuthmosis iii che, non riuscendo a conquistarla, nascose 500 soldati armati in grandi ceste di vimini che vennero trasportate da altri 500 soldati fatti passare come schiavi. Nottetempo, i soldati nelle ceste uscirono allo scoperto liberando i loro camerati prigionieri e aprendo le mura cittadine al proprio esercito che poté, così, sciamare liberamente in città.

    Alcuni studiosi ritengono che il cavallo di legno possa essere una reinterpretazione letteraria di una torre in legno con un ariete impiegato per sfondare le mura, soprattutto quelle realizzate in mattoni cotti nella parte alta della cinta, sopra i massicci blocchi della parte basale dell’opera murata. Macchine di questo tipo erano in uso durante il regno di Tiglath-Pileser ii, come si evince da un bassorilievo ritrovato a Ninive, mentre si ritiene che strumenti simili venissero impiegati anche durante la fine dell’Età del Bronzo.

    Per quanto riguarda l’individuazione dei responsabili della distruzione di Ilio, una ipotesi legata alla tradizione ritiene possibile che Micene, riunendo una federazione achea, possa aver guidato una spedizione contro la costa dell’Egeo orientale e contro Troia, fedele alleata degli ittiti. La mancanza di documenti ittiti al riguardo e la mancata reazione a un’eventuale aggressione di questo tipo pone però un forte limite a questa ipotesi, tanto più che fino all’epoca di Šuppiluliuma ii la città di Troia era ancora sulla scena politica, facendo quindi pensare a una distruzione più recente della città. D’altra parte, se la distruzione di Troia viia fosse avvenuta qualche anno dopo, al momento del collasso dell’impero ittita, difficilmente agli achei del continente potrebbe essere addebitata la conquista della città di Priamo, visto che, la maggior parte dei loro centri urbani, avevano subito pesanti distruzioni da cui non si risollevarono più. Alla luce di ciò, la distruzione di Troia potrebbero essere ricondotta alla confederazione di genti guerriere detta dei Popoli del Mare o, come ritengono alcuni studiosi, ascrivibile a un popolo proveniente dall’Europa centrale la cui particolare ceramica brunita compare nel sito della città di Troia viib1 quando venne ricostruita. Tale ceramica rimanda alla famiglia dei popoli dei Campi delle Urne che, nel TE iii C², si stava diffondendo in Europa. In particolare, i manufatti rinvenuti sarebbero da collegare ai Muški, i Frigi dell’epoca classica. Anche se in questo caso è difficile capire se un nuovo popolo di conquistatori si sia stabilito per un certo tempo nella città di Troia soggiogata o se si sia trattato di un prestito culturale agli autoctoni, proveniente dai frigi che attraversavano il Bosforo per stabilirsi in Anatolia centro-occidentale.

    In entrambe le ipotesi, la tradizione omerica ci porta a pensare che ci fu senz’altro una relazione bellicosa tra le città micenee e Troia, magari già al tempo della coalizione contro Tudhaliya iv. Seppure non si sia giunti alla distruzione della città, tali relazioni avranno indubbiamente arricchito il mito ancestrale di Achille e Ulisse collegando la città sullo Scamandro a questi personaggi leggendari. La distruzione pressoché totale di Troia, realizzata dai greci delle isole dell’Egeo orientale, compiuta sicuramente nel secolo successivo a quello delle migrazioni dei Popoli del Mare, può aver destato impressione su quello che rimaneva del mondo acheo, allora ormai alla fine. Una città che in passato aveva rivestito un ruolo importante nei commerci con il suo dominio del Bosforo e temuta come nemico grazie alla sua potente alleanza con l’impero ittita può aver alimentato le fantasie e sviluppato il ciclo dei racconti degli aedi, arricchendolo e integrandolo fino ad arrivare alla stesura da parte di Omero. Le date che poi ricorrono a cavallo del 1200 a.C. sono spiegabili con il ricordo delle incursioni dei Popoli del Mare che tante città greche dovettero subire e che cambiarono completamente la geografia politica del Mediterraneo.

    ____________________________________________

    ¹ Corrispondente a una età compresa tra il 1230 e il 1190 a.C.

    ² Corrispondente a una età compresa tra il 1090 e il 1060 a.C. (Tardo Elladico Tardo).

    Babilonia (539-538 a.C.)

    L’impero di Ciro il Grande

    Nelle vicende storiche, pochi furono i sovrani che al pari di Ciro riuscirono a fondare un grande impero duraturo. Ciro era figlio di Cambise i della dinastia degli Achemenidi, sovrano dei persiani, all’epoca sottomessi ai medi. Ciro venne incoronato re alla morte del padre nel 559 a.C., riuscendo a instaurare, fin da subito, un’importante relazione d’amicizia con l’impero babilonese in modo da poter contrastare i medi. La strategia politica di Ciro permetterà una stretta alleanza militare tra persiani e babilonesi, i cui eserciti uniti riusciranno a conquistare la capitale dei medi, Ecbatana nel 550 a.C. Depostone il sovrano, Astiage, Ciro trattò questi con ogni riguardo, guadagnando così la fiducia del popolo dei Medi affine per stirpe a quello persiano.

    Per Ciro si apriva dunque la possibilità di espandere il suo regno verso occidente, in direzione della montuosa Anatolia, dove i lidi di re Creso costituivano la potenza dominante della regione.

    Nel 547 a.C., Ciro e il suo esercito si scontrarono con i lidi nella battaglia di Pteria, per poi assediarli nella loro capitale Sardi. Questa, dopo soli 14 giorni capitolò, malgrado gli sforzi di Creso tesi a organizzare una potente alleanza contro i persiani, costituita da egizi e babilonesi. Il fallimento di questo accordo segnerà il destino della Lidia e del suo sovrano, caduto prigioniero dei persiani, ma anche quello di Egitto e Babilonia.

    I persiani, dopo aver sottomesso il ricco regno di Lidia e consolidato la loro posizione interna, si potevano volgere verso il loro antico e ricco alleato babilonese, il cui esercito non era certo all’altezza di quello degli Achemenidi.

    Ciro, da abile politico quale era, volle agire prima fomentando il malcontento dei babilonesi, in particolare quello dei sacerdoti del dio Marduk, la principale divinità cittadina, a cui, la dinastia caldea al governo di Babilonia aveva sottratto potere e privilegi, generando una forte ostilità del clero verso i propri governanti, cosa di cui Ciro intendeva approfittarne.

    La città dei meravigliosi giardini pensili

    Babilonia era la ricca capitale del cosiddetto impero neobabilonese che, dalla fine del vii secolo a.C., dominava la Mesopotamia dopo aver sconfitto la potenza dell’impero assiro grazie all’alleanza con i medi. Nella sua massima estensione, l’impero di Babilonia giunse a controllare la Siria e la Palestina.

    Al tempo dell’ascesa persiana, Babilonia era governata da re Nabonide o Nabonedo, figlio di Nabucodonosor, il quale regnava dal 556 a.C.: sarà l’ultimo sovrano di Babilonia. Egli era devoto alla divinità lunare Sin che contrapponeva al più considerato Marduk, cosa che porterà a forti tensioni sociali nella città, tanto da favorire Ciro nel dividere i babilonesi prima di attaccarli.

    Per far fronte alla minaccia di Ciro, Nabonide cercò di tornare sui suoi passi nella politica di repressione del clero, ripristinando le statue del dio Marduk nei loro templi e cercando di accattivarsi il favore dei sacerdoti; operazione che si rivelò tardiva e non gli servì a recuperare il consenso ormai perduto agli occhi dei sudditi.

    Le fortificazioni di Babilonia, in mattoni cotti al sole, erano considerate tra le più robuste della Mesopotamia. La famosa porta di Ishtar a nord, realizzata in mattoni rivestiti di una ceramica blu invetriata e bassorilievi di animali fantastici, era l’ingresso principale alla città attraverso cui si dipanava l’ampia via delle processioni: la sua magnificenza faceva il paio con i famosi giardini pensili, considerati una delle sette meraviglie del mondo antico. Le strade erano asfaltate con il locale bitume, molto diffuso in quella località e le imponenti ziggurat dominavano il piatto paesaggio mesopotamico.

    La città era circondata da due cinte di mura, una esterna e una interna più alta, con caratteristiche merlature squadrate a piramide e torri distanziate tra loro per un breve tratto, le quali sporgevano leggermente all’esterno della cortina muraria. Le mura circondavano la città per una estensione di 8 chilometri, formando un rettangolo, e una profondità fino a 20 metri. A rafforzare le difese vi era anche la presenza del fiume Eufrate che proteggeva il lato occidentale della città vecchia, con i templi e la cittadella del sovrano, mentre un canale difendeva gli altri lati. Il fiume stesso entrava dentro la città dividendola in due, attraversando la cerchia muraria in due punti, presso la città vecchia, a est e presso la città nuova più a ovest, collegando le due parti tramite un ponte.

    Per rafforzare la loro posizione, i babilonesi avevano stipulato una forte alleanza con gli egiziani, anche se, la lontananza di quest’ultimi, rese ininfluente il loro apporto nella guerra contro i persiani.

    La classe sacerdotale in subbuglio facilitò i propositi di conquista di Ciro che vide la sua maggior opportunità nel momento in cui parte dell’esercito babilonese si trovò impegnato a sottomettere l’Arabia con l’intento di aprire nuove vie commerciali, cosa che poteva facilitare la sconfitta delle truppe rimaste a difesa della Mesopotamia

    La più importante conquista di Ciro

    Ciro lasciò una parte del proprio esercito in Anatolia occidentale per completare la sottomissione delle città greche della costa egea, quindi marciò verso Babilonia nella primavera del 539 a.C., discendendo il corso dei due grandi fiumi, il Tigri e l’Eufrate.

    L’esercito babilonese accettò battaglia davanti alla propria città, venendo, però, facilmente sconfitto in campo aperto. Così lo storico Erodoto narrò la vicenda dell’inizio dell’assedio della più grande e importante città dell’antichità:

    I babilonesi usciti in arme l’attendevano. Nella sua avanzata egli (Ciro) era giunto presso la città; e i babilonesi vennero alle mani, ma perdettero la battaglia spinti nell’abitato. Siccome però sapevano già prima che Ciro non se ne sarebbe rimasto tranquillo e l’avevano visto aggredire i popoli l’uno dopo l’altro, avevano tempestivamente immagazzinato viveri per un gran numero di anni. E non si preoccupavano quindi dell’assedio; mentre Ciro si trovava invece in una situazione difficile, perché passava molto tempo e le cose non andavano avanti³.

    Il racconto della conquista di Babilonia fatto da Erodoto viene supportato anche dalla descrizione della Bibbia: in entrambi i casi viene riportato come i persiani si resero conto della difficoltà nell’attaccare direttamente la città difesa dai corsi d’acqua, cosa che spinse Ciro a intraprendere un regolare assedio non prima di aver circondato la città con un vallo circolare in muratura, in modo da isolare Babilonia da ogni aiuto esterno. Nel contempo, i persiani scavarono una serie di profondi canali che avrebbero avuto il compito di allontanare le acque del fiume Eufrate dalla città. Alcune dighe a monte di Babilonia avrebbero agevolato l’incanalamento delle acque verso i nuovi bacini. Nel contempo si realizzavano delle torri in legno di palma da contrapporre ai babilonesi, convinti di sopportare un lungo assedio grazie alle loro abbondanti scorte di cibo.

    Questi lavori durarono per tutto l’inverno.

    All’inizio del 538 a.C., Ciro si sentì in condizioni di lanciare l’assalto alla città, approfittando di una importante festività religiosa che si svolgeva a Babilonia e che avrebbe distratto i difensori dai loro compiti di sorveglianza; tanto più che i difensori babilonesi consideravano l’armata persiana composta da una serie di popolazioni appena soggiogate, come frigi, cappadoci e lidi, giudicati dall’indole più vicina ai babilonesi che ai dominatori persiani.

    Nella serata che coincideva con il culmine della festa, i persiani aprirono le dighe dei canali realizzati a monte della città, facendo defluire le acque lontano dal loro corso naturale e lasciando Babilonia priva di questa protezione: le mura infatti si ritrovarono circondate da un rigagnolo di basse acque che potevano essere facilmente guadate dai soldati persiani.

    L’ingresso degli assedianti dalle rive del fiume che attraversava la città colse tutti di sorpresa, inficiando ogni tentativo di resistenza. I persiani sciamarono senza trovare resistenza. Così scrisse Senofonte nella sua Ciropedia:

    Dei nemici che si imbattevano in loro (i persiani), alcuni morirono sotto i colpi, altri fuggivano di nuovo indietro, altri gridavano. Gobria (generale di Ciro) e i suoi uomini gridavano insieme con loro, come se fossero anch’essi dei comasti⁴. Affrettarono il passo più che poterono fino ad arrivare alla reggia. Gli uomini schierati con Gobra e Gadata (altro comandante persiano) trovarono chiuse le porte del palazzo. Ma coloro che avevano ricevuto l’ordine di occuparsi dei soldati che facevano la guardia piombarono su questi mentre stavano bevendo davanti a una gran fiamma e li trattarono subito come meritano i nemici.

    Poiché ci fu un grido e un fragore e coloro che si trovavano all’interno udirono lo strepito, il re diede ordine di vedere di cosa si trattasse e alcuni di loro, aperte le porte, corsero fuori. Gadata e i suoi, quando videro le porte aperte, si precipitarono all’interno, inseguendo e colpendo quanti si rifugiavano di nuovo dentro e arrivarono davanti al re. E lo trovarono che già in piedi aveva estratto la spada. Gadata, Gobria e i loro compagni, che erano in gran numero, lo sopraffecero. Morirono col re anche i suoi uomini, chi nell’atto di ripararsi con qualcosa, chi durante un tentativo di fuga, chi difendendosi almeno con ciò che poteva⁵.

    In realtà il destino di Nabonide pare fosse stato diverso da quanto raccontato da Senofonte: sarebbe infatti stato risparmiato da Ciro e deportato all’interno della Persia, dove trascorse il resto della vita tra gli agi dovuti al suo rango, tanto che sua figlia poté realizzare uno dei primi musei al mondo, detto di Ennigaldi-Nanna, con reperti dell’antica Mesopotamia.

    Con la conquista di Babilonia si chiudeva l’esperienza dell’impero neobabilonese e della dinastia caldea, mentre si realizzava in modo definitivo la nascita di quello persiano, le cui proporzioni non si erano mai viste in precedenza. Un impero che, per i persiani, doveva essere universale. Ciro organizzò il regno in satrapie, cercando di attuare una politica di tolleranza e condivisione verso le nazioni sottomesse.

    Il sovrano ripristinò i privilegi del clero del dio Marduk; Babilonia rimarrà un fedele alleato dell’impero persiano anche con i successori di Ciro fino alla conquista di Alessandro Magno, molti secoli dopo.

    ____________________________________________

    ³ Erodoto, Storie, Libro i, 190.

    ⁴ Partecipanti alla festa religiosa con processioni e canti in onore di una divinità.

    ⁵ Senofonte, Ciropedia, Libro vii, 5 (26-30).

    Siracusa (415-413 a.C.)

    Un politico ambizioso e l’invincibile armata ateniese

    La prima fase della guerra tra Atene e Sparta si era conclusa nel 421 a.C. con una instabile pace dopo l’inaspettata sconfitta lacedemone di Sfacteria del 425 a.C. La pace, detta di Nicia, dall’estensore omonimo del trattato, avrebbe dovuto durare 50 anni rinnovabili e prevedeva un riassetto delle alleanze di alcune città Stato tra l’alleanza ateniese della Lega Delio-attica e quella della Lega Peloponnesiaca capeggiata da Sparta. In realtà, la pace era vista da entrambi i contendenti come una occasione per rinforzare i propri ranghi e allargare le rispettive sfere d’influenza in vista della definitiva resa dei conti.

    Una importante occasione per rafforzare la posizione dell’impero talassocratico ateniese in Magna Grecia si offrì nel 416 a.C., con l’arrivo ad Atene di una delegazione diplomatica della città siciliana di Segesta che chiedeva aiuti militari contro la città rivale Selinunte, quest’ultima appoggiata dalla più potente pòlis della Magna Grecia: Siracusa.

    Gli ateniesi si erano già precedentemente intromessi nella politica siciliana, con una spedizione militare nel 427 a.C. risoltasi in un fallimento; per questo inviarono una ambasceria a Segesta per verificare le condizioni di un intervento militare sull’isola che si sarebbe certo rivelato impegnativo. Gli emissari ateniesi ebbero un’ottima impressione della grande ricchezza della città che in realtà era solo fittizia, frutto dei prestiti di altre città della Magna Grecia nemiche di Siracusa che permisero di sbalordire gli ambasciatori ateniesi con lo sfoggio di manufatti preziosi e ori, convincendoli dei vantaggi di un deciso intervento militare in quell’area.

    Ad Atene vi fu una serrata discussione nell’assemblea popolare sull’opportunità di aiutare Segesta. Nicia (470-413 a.C.), a capo della fazione politica conservatrice, era decisamente contrario nell’impegnarsi così lontano dalla patria, non fidandosi, giustamente, delle sperticate promesse degli ambasciatori di Segesta, i quali millantavano ogni sorta d’aiuto, sia economico che militare, da parte delle città della Magna Grecia. Nicia era riuscito a far sorgere più di un dubbio ai suoi concittadini ma, l’intervento di un giovane demagogo, Alcibiade (450-404 a.C.), fece pendere la decisione dell’assemblea verso l’intervento militare. Alcibiade era un ambizioso politico della fazione democratica; ricco e intelligente, dotato di una grande oratoria, egli era stato allievo di Socrate: quest’ultimo, però, era decisamente contrario alla spedizione.

    La dialettica di Alcibiade, legata a una visione strategica e commerciale che prevedeva di isolare il Peloponneso dalla copiosa fornitura del grano siciliano, convinse Atene per l’avventura militare che si sarebbe limitata a difendere Segesta da Selinunte con un impegno limitato nel tempo.

    Gli ateniesi deliberarono che a guidare l’armata ateniese, con i suoi alleati, sarebbe stato lo stesso Alcibiade, coadiuvato da altri due generali: Nicia e Lamaco. L’armata che partì dal Pireo verso la fine di giugno del 415 a.C. era composta da circa 30.000 uomini, la maggior parte rematori e marinai, di cui 6400 epibati (opliti di marina) e altri 5100 opliti, con 134 triremi di cui 100 propriamente attiche, le altre fornite degli alleati della Lega Delo-attica; a queste si aggiungevano 74 navi da trasporto. La flotta non ricevette l’aspettato appoggio dalle città della Magna Grecia: tutte infatti, tranne Reggio, chiusero i loro porti, evitando di fornire vettovaglie agli ateniesi. Reggio, poi, sebbene concesse un importante aiuto logistico alla flotta, non volle partecipare alla spedizione, rimanendo neutrale. A Reggio i tre comandanti si resero conto delle millanterie di Segesta e della mancanza di collaborazione da parte delle altre pòleis alleate. Ormai la spedizione era nel pieno del suo svolgimento e si dovevano stabilire gli obiettivi. Per il prudente Nicia bisognava attenersi agli ordini e dirigersi verso la Sicilia occidentale; per Lamaco, era invece fondamentale approfittare della grande armata a disposizione per attaccare direttamente Siracusa di sorpresa, in modo da eliminare il più pericoloso nemico in quell’area, la cui sconfitta avrebbe immediatamente portato tutta la Magna Grecia a schierarsi a fianco di Atene. Prevalse, invece, l’idea di Alcibiade, che prevedeva di lanciare una campagna diplomatica tra le colonie greche per convincerle a unirsi agli ateniesi. L’offensiva diplomatica di Alcibiade fu di scarso successo, facendo perdere agli ateniesi l’opportunità del fattore sorpresa per attaccare Siracusa. La constatazione della povertà di Segesta e dell’impossibilità di ottenere un adeguato supporto logistico in Trinacria convinse i comandanti ateniesi che l’unica soluzione era quella di attaccare Siracusa, tra le città più ricche di tutta la Magna Grecia.

    Vennero inviate delle navi veloci per esplorare le coste di Siracusa, mentre Alcibiade riusciva a ottenere l’alleanza con Catania grazie alla sua abilità oratoria e al fatto che questa città fosse ben predisposta a supportare una guerra contro una pòlis rivale tanto potente.

    Proprio mentre la flotta si stava finalmente dirigendo contro Siracusa, giunse da Atene la nave veloce Salamina che operava come nave avviso, la quale portava l’ordine di rimpatrio per Alcibiade. Ad Atene era infatti accaduto che, nella notte tra il 6 e 7 giugno del 415 a.C., le erme, ovvero piccole colonne alla cui sommità giacevano appunto delle statue del dio Ermes, erano state profanate da ignoti, cosa che destò enorme scandalo. Del fattaccio era stato incriminato Alcibiade, dagli avversari politici che ne temevano la sua natura antidemocratica. Inizialmente si era deciso di lasciarlo partire con la flotta, malgrado egli stesso avesse chiesto di essere giudicato. Ora, invece, veniva richiamato in patria. Alcibiade conosceva molto bene la volubilità dei suoi concittadini per rischiare un processo politico intentato dai suoi numerosi nemici. Decise quindi di fingere di assecondarne la volontà solo per darsi alla fuga durante il tragitto di ritorno, mentre si trovava nel porto di Locri, per poi chiedere asilo politico alla rivale Sparta.

    I due comandanti rimasti veleggiarono lungo le coste della Sicilia meridionale, saccheggiando e distruggendo la città di Hykkara, per poi raggiungere Siracusa nell’inverno 415-414 a.C., sbarcando presso la grande insenatura del Porto Grande.

    La città più potente della Magna Grecia

    I cittadini di Siracusa ebbero sentore della minaccia ateniese solo quando la flotta nemica si trovava nelle acque di Reggio, dividendo la politica della democratica cittadina. La fazione democratica non credeva possibile che gli ateniesi ardissero attaccare una delle più munite città del Mediterraneo. La città si trovava sulla costa, con la fortezza di Ortigia disposta su una penisola a dominare il Porto Piccolo, una piccola insenatura sulla costa orientale della città, e l’ingresso settentrionale del Porto Grande, la grande baia che si allargava a sud della città stessa. Ortigia era separata dal resto di Siracusa da un canale che univa il Porto Piccolo alla baia interna, rendendo la fortezza un’isola imprendibile; il resto della città si allungava a settentrione, difesa da imponenti mura ciclopiche, con il lato occidentale difeso dal mare del Porto Piccolo e quello meridionale dal Porto Grande. Una serie di fortificazioni esterne alla città completavano le difese: l’Olympeion a ovest del Porto Grande e della sua vasta palude e il Labdalo, più a nord; ancora più a ovest vi era la fortezza detta di Eurialo, al limitare occidentale dell’altopiano calcareo di Epipoli, posto a una quota di circa 100 metri dal livello del mare e disseminato di sparsi alberi di quercia. Dall’altra parte di Ortigia, a chiudere la baia del Porto Grande vi erano le opere fortificate del Plemmirio, che una catena lunga oltre un chilometro poteva unire a Ortigia bloccando l’ingresso alla baia.

    La fazione politica oligarchica, guidata dallo stratega Ermocrate, era più bellicosa e spingeva la cittadinanza a più strette alleanze con spartani, corinzi e città italiche; persino con i cartaginesi, mirando a troncare ogni tentativo di trattativa proposta dai democratici. La condotta strategica era, comunque, improntata alla difensiva. Gli opliti siracusani, o della Magna Grecia in genere, non erano tecnicamente allo stesso livello di quelli greci, sebbene si possa ritenere che il numero dei difensori dovette essere poco meno di quello degli ateniesi, il loro numero rimase sconosciuto ai cronisti dell’epoca.

    Ermocrate si adoperò affinché venissero adottate le necessarie contromisure per un lungo assedio, anche se non impedì lo sbarco di sorpresa, nottetempo, degli ateniesi nel Porto Grande, concedendo ai nemici la possibilità di realizzare un accampamento sulla costa della baia.

    I siracusani e i loro alleati di Selinunte e di Gela uscirono dalle mura con la loro numerosa cavalleria per affrontare gli invasori nella piana a sud, antistante le mura cittadine. I 1200 cavalieri dalla sola Siracusa, a cui si aggiungevano i 200 da Gela, garantivano ai difensori una netta superiorità in termini di cavalleria che mancava totalmente al nemico; tale vantaggio era però inficiato da un’inadeguata presenza di fanti pesanti, non sufficiente a contrastare i 5000 opliti ateniesi supportati da frombolieri e arcieri: la loro era più che altro un’azione di disturbo che non impedì alle truppe di Nicia di consolidare le loro posizioni davanti alla città. Lo scontro avvenne nei pressi del fiume Anapo che sfociava nel Porto Grande, durante un violento temporale. Inizialmente ci fu uno scambio di armi da lancio fino a quando gli argivi, alleati degli ateniesi, sfondarono sull’ala destra siracusana, mettendo in rotta il resto dell’esercito siciliano. Solo la cavalleria impedì ai vincitori l’inseguimento dei fanti fuggitivi, prevenendo una catastrofe maggiore. I caduti siracusani furono oltre 300 che furono cavallerescamente restituiti alla città; solo 50 i caduti dalla parte ateniese e dei loro alleati.

    Dopo questo primo confronto, gli ateniesi furono liberi di installarsi nella pianura antistante Siracusa: cominciava così il regolare assedio, senza venire molestati per tutto l’inverno del 414 a.C.

    Il lungo assedio

    Padroni del mare, gli ateniesi decisero di bloccare Siracusa anche dalla parte di terra in modo da far capitolare i nemici per fame, piuttosto che rischiare un assalto alle munite mura della città. Nello stesso tempo cercavano di allargare la propria egemonia in Trinacria tramite missioni diplomatiche presso cartaginesi ed etruschi, associate a pressioni militari che li portarono anche a tentare un attacco contro Messina. A primavera, gli ateniesi assaltarono il territorio circostante Siracusa, predandone le messi e il bestiame. Per stringere gli assediati in una morsa sempre più stretta, gli ateniesi attaccarono di sorpresa, nottetempo, il forte di Labdalo posto sulle pendici settentrionali dell’altipiano di Epipoli che, a nord-ovest di Siracusa formava la penisola dove si trovava la città. In quell’occasione, i 600 opliti siracusani posti a difesa del forte furono presi alla sprovvista, perdendo la metà dei guerrieri e il loro comandante Diomilo; i superstiti si ritirarono a fatica verso la città lasciando in mani ateniesi il forte di Labdalo, che permetteva di controllare il transito da Siracusa verso l’entroterra siciliano. Gli assediati tentarono di reagire nei giorni successivi con delle controffensive di cavalleria ma invano: 300 cavalieri da Segesta rintuzzarono ogni tentativo di sortita. Per consolidare maggiormente la loro posizione e isolare totalmente Siracusa, gli assedianti cominciarono a costruire un vallo in muratura che doveva andare dalla costa settentrionale del Porto Grande all’altipiano di Epipoli, fino a raggiungere il mare a nord per una lunghezza di cinque chilometri, così da isolare la penisola dove si trovava la città assediata. Sulle pendici meridionali dell’Epipoli, a metà percorso del vallo, venne realizzata una fortezza rotonda detta Kyklos (cerchio), o forte circolare. Nella parte meridionale del muro, Nicia volle che vi fosse un vallo verso la città e uno esterno per l’eventuale protezione da attacchi provenienti dall’entroterra; probabilmente si sarebbe dovuto realizzare una costruzione analoga nella parte settentrionale del muro che però non venne mai completata.

    Dalla parte siracusana non ci si limitò a rinforzare le difese della città nuova. Ermocrate tentò più volte di disturbare i lavori di costruzione del muro con rapide sortite della cavalleria che, puntualmente, venivano intercettate dai cavalieri ateniesi e dai loro alleati e respinte ogni volta.

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    L’assedio di Siracusa.

    Visti questi fallimenti, Ermocrate decise di evitare attacchi frontali, realizzando, invece, un contromuro che avrebbe dovuto intercettate il muro ateniese che avanzava verso nord in modo da bloccarne la progressione sull’altipiano dell’Epipoli. Un altro contromuro venne intrapreso a sud dell’Epipoli e del forte di Kyklos. Qui, malgrado la realizzazione di fortificazioni in legno da parte dei siracusani, la reazione ateniese fu pronta e questo muro fu rapidamente distrutto.

    I siracusani non si diedero per vinti e tentarono la realizzazione di un nuovo muro poco più a sud. Per questo lanciarono un attacco in grande stile che consentì agli opliti siracusani di occupare, per breve tempo, il vallo interno ateniese, ancora in fase di costruzione. Gli scontri si susseguivano disordinati tra le palizzate, sostenuti dagli ateniesi guidati da Lamaco, mentre Nicia giaceva malato e inattivo a causa di una nefrite. Così Tucidide descrive l’episodio del tentativo di conquista della palizzata da parte dei siracusani:

    I siracusani allora, uscendo, ricostruirono anch’essi una palizzata cominciando dalla città per il mezzo della palude, scavandovi anche a fianco una fossa, perché agli ateniesi non riuscisse lo sbarramento fino al mare. Gli ateniesi, terminato il muro fino allo sperone, riassaltarono la palizzata e la fossa dei siracusani ordinando alla flotta di girare: da Tapso al Porto Grande di Siracusa, ed essi all’alba scesero dalle Epipoli al piano. E sovrapponendo attraverso la palude, dove era cretacea e più consistente, pali e tavole sulle quali traghettarono, conquistarono all’aurora la palizzata quasi tutta e la fossa, e dopo presero anche il rimanente. Si accese una battaglia, in cui vinsero gli ateniesi. I siracusani dell’ala destra fuggirono verso la città, quelli della sinistra lungo il fiume. Per impedir loro di attraversarlo, i 300 ateniesi scelti si diressero di corsa verso il ponte. Allarmati i siracusani, poiché avevano lì anche grosso della cavalleria, attaccano questi 300, li volgono in fuga, e si gettano sull’ala destra ateniese. Da quest’urto anche il primo reparto dell’ala (destra) fu travolto insieme con i 300. Ciò vedendo, Lamaco accorse dalla sinistra ateniese con molti arcieri, sostenuti dagli argivi. Ma, spintosi oltre un canale e tagliato fuori con pochi seguaci, cadde con altri 5 o 6 del gruppo. I siracusani arrivarono a portar via subito in fretta al sicuro oltre il fiume i cadaveri, quindi, poiché ormai incalzava anche il resto dell’esercito ateniese, si ritirarono⁶.

    Gli ateniesi, pur vittoriosi in questa azione, persero il loro miglior generale ma l’ingresso di altre navi della flotta nel Porto Grande permise di consolidare la posizione ateniese in quel punto della costa. Gli ateniesi eressero un trofeo con le armi dei caduti nemici e ottennero indietro i corpi dei propri defunti, compreso Lamaco; riuscirono, inoltre, a completare il vallo meridionale, tagliando l’acquedotto che portava acqua fresca alla città di Siracusa.

    Per i siracusani era un momento drammatico. Ermocrate, messo sotto accusa per gli scacchi subiti, dovette dimettersi da stratega. La fazione democratica, favorevole alla pace, stava invece prendendo il sopravvento, pretendendo che si aprisse una trattativa con Nicia per poter giungere a un compromesso.

    Proprio in concomitanza di una situazione che molti siracusani giudicavano senza speranza giunse da Sparta un generale che prometteva di capovolgere le sorti del conflitto. Era accaduto che, l’autunno precedente, una delegazione siracusana aveva raggiunto Sparta in cerca d’aiuto militare contro l’arcinemica Atene. Gli efori, al governo della città lacedemone, inizialmente apparvero decisi a non farsi coinvolgere in questa guerra lontana dai loro territori e interessi politici; tanto più che nel 431 a.C., la stessa Sparta aveva chiesto a Siracusa armi e finanziamenti che non gli erano stati concessi. Proprio quando sembrava che l’ambasciata siracusana dovesse fallire vi fu l’intervento di Alcibiade, residente a Sparta come esule, il quale consigliò agli spartani di limitarsi a inviare un loro generale a prendere la responsabilità del comando della città assediata. Gli efori accolsero questa richiesta che poco impegnava la potente città del Peloponneso, decidendo di inviare un valente comandante di nome Gilippo accompagnato da un certo numero di neodamodi, cioè di iloti liberi che venivano impiegati militarmente e da schiavi iloti di supporto; navi da guerra corinzie, alleate di Sparta, avrebbero partecipato alla spedizione.

    Nell’estate del 414 a.C., un primo gruppo di 400 opliti guidati da Gilippo sfilava nel centro di Siracusa, facendo sfoggio dei mantelli e delle tuniche scarlatte, degli scudi con impressa una lambda rossa sopra una sottile lamina di bronzo nonché del caratteristico elmo conico detto pilos, che lasciava la nuca e il viso scoperti, così da avere una visione più chiara del campo di battaglia rispetto ai modelli di elmo corinzio chiusi a proteggere il volto. La presenza stessa della piccola colonna spartana a Siracusa dimostrava come l’assedio fosse ancora molto permeabile, tanto da permettere un facile arrivo dei rinforzi che giungevano via terra da ovest, passando per la fortezza di Eurialo e, da lì, in città, visto che il muro ateniese verso nord era ben lungi dall’essere terminato. Anche l’ingresso del Porto Grande era ancora agibile, permettendo l’arrivo delle triremi di rinforzo alla città. Nicia sottovalutò il pericolo dell’arrivo, per quanto piccolo, del contingente spartano, tanto da rigettare una tregua proposta da Gilippo per risolvere l’assedio in modo pacifico.

    La visione degli invincibili spartani risollevò come d’incanto il morale dei cittadini siracusani, subito spronati a una nuova resistenza grazie all’arrivo con Gilippo anche di 2000 soldati alleati, in prevalenza imeresi e siculi.

    Gilippo non perse tempo e, nei giorni successivi, lanciò una serie di attacchi sull’altopiano di Epipoli, lontano dall’accampamento ateniese, con l’obiettivo di riconquistare il Labdalo, posizione nascosta alla vista degli ateniesi che si trovavano a valle, verso la grande baia. Il Labdalo fu infine preso. Ciò rafforzò la posizione siracusana, facilitando la realizzazione del controvallo che doveva tagliare perpendicolarmente il muro ateniese che procedeva verso nord.

    La conquista del Labdalo produsse un rinnovato fervore nella costruzione del muro sull’altipiano, che portò a continue scaramucce, in quella zona: spesso gli ateniesi avevano la meglio negli scontri di fanteria, mentre, i siracusani eccellevano negli spazi aperti con la loro ottima cavalleria. In ogni caso, la progressione della costruzione del muro siracusano procedeva spedita, tale da precedere il muro ateniese verso nord che venne tagliato perpendicolarmente a formare una T.

    Dal punto di vista diplomatico, l’aperto appoggio spartano a Siracusa portò molte città della Magna Grecia a prendere le distanze da Atene che, con la sua politica aggressiva e imperialista, aveva generato molta apprensione nelle libere pòleis greche che, ora, andavano sempre più ad appoggiare Siracusa.

    Gilippo convinse i siracusani ad affrontare gli assedianti anche via mare, grazie all’aiuto delle navi corinzie giunte di rinforzo. Venne organizzato un attacco dal mare della flotta ateniese alla fonda nel Porto Grande. I siracusani contribuirono all’assalto con 35 triremi che uscirono dal Porto Grande e 45 dal Porto Piccolo, luogo dove i siracusani avevano l’arsenale. Nel contempo, tutto l’esercito siracusano di terra mosse verso le fortezze del Plemmirio che controllavano l’imboccatura meridionale del Porto Grande. Gli ateniesi contrattaccarono la flotta nemica con 60 triremi che impedirono alle navi siracusane l’entrata nel Porto Grande e, dopo una cruenta battaglia all’imboccatura della baia, riuscirono a respingere i siracusani. Diversamente, dalla parte di terra, Gilippo, sfruttò l’elemento sorpresa e riuscì a impadronirsi dei forti del Plemmirio, mettendo in forte difficoltà gli ateniesi che, ora, non potevano più controllare in modo completo l’ingresso al Porto Grande; Gilippo riuscì anche a bloccare i rifornimenti che giungevano via terra da Catania, usando la cavalleria. Gli assedianti rischiavano di diventare assediati sulle spiagge siracusane.

    La situazione ateniese era sempre più complessa. Nicia, dopo che la realizzazione del muro verso nord era stata bloccata dalle contromisure nemiche, si sentiva sempre più isolato: per questo volle chiedere rinforzi alla madre patria. Egli inviò ad Atene una relazione molto pessimistica della situazione dell’esercito, richiedendo un esorbitante numero di soldati e di mezzi per poter piegare la resistenza nemica, probabilmente nella speranza di essere richiamato in patria dagli ateniesi stessi che, stanchi di una guerra così lontana e dagli scopi poco chiari, rifiutassero nuovi sacrifici, rinunciando alla conquista di Siracusa e ritirando l’armata.

    Contrariamente alle aspettative di Nicia, gli ateniesi accettarono tutte le sue richieste d’aiuto: raschiando il fondo del barile fu inviata una nuova armata di 5000 opliti e ben 73 navi da guerra sotto la guida di Demostene, valente generale che aveva contribuito in modo decisivo alla vittoria ateniese a Sfacteria contro gli spartani, qualche anno prima. Nicia, malato e logorato da mesi di assedio, lasciò il comando a Demostene, il quale dovette far fronte a due vigorosi attacchi degli assediati, via mare e sulla terra, nel tentativo di replicare il precedente successo che aveva permesso l’occupazione siracusana del Plemmirio. Respinti entrambi gli attacchi, Demostene lanciò a sua volta un assalto notturno al vallo siracusano sull’Epipoli, nel momento in cui i siracusani si ritiravano dopo la loro azione. Demostene ordinò ai soldati di portare con loro razioni per cinque giorni, aggiungendo alla truppa carpentieri e muratori che avrebbero dovuto concludere il muro ateniese verso nord. Gli ateniesi cominciarono il loro attacco dalla parte meno ripida dei versanti che davano sul pianoro che si trovava a occidente, luogo dove si trovava la fortezza di Eurialo. L’attacco notturno prese di sorpresa la guarnigione siracusana dell’Eurialo che venne messa in fuga dalla velocità d’azione degli ateniesi, i quali conquistarono la fortezza, continuando poi la loro avanzata verso il vallo siracusano sull’Epipoli. I siracusani, avvisati dai fuggitivi della fortezza, si riorganizzarono lanciando a loro volta un contrattacco immediato. Un primo scontro vide gli ateniesi di nuovo vincitori, permettendogli di continuare l’avanzata nella notte verso il muro nemico anche se le scaramucce e il buio avevano fatto perdere coesione alla falange ateniese che ora si trovava a marciare in modo disordinato. Gilippo guidò un nuovo contrattacco contro gli ateniesi che avanzavano alla luce della luna piena privi di compattezza. Questa volta la violenza dell’attacco siracusano riuscì ad avere la meglio sugli ateniesi che si difesero in modo disperato in scontri spezzettati e confusionari nelle tenebre illuminate solo dalla luna. La confusione e il panico erano tali che, a un certo punto, gli opliti ateniesi cominciarono a combattersi anche tra loro. I siracusani e i loro alleati beoti, più freschi e compatti nelle loro formazioni, fecero a pezzi l’armata ateniese. Così Tucidide descrisse quei momenti convulsi:

    A partire da questo momento la situazione ateniese divenne molto torbida e difficile e, nei particolari, non mi fu facile informarmene da nessuna delle due parti (dei contendenti, accenno alle fonti di Tucidide). Più luce si ottiene sui combattimenti diurni; benché neppure questi i presenti conoscano per intero e ognuno sa appena ciò che lo riguarda. Ma in uno scontro notturno, l’unico punto di questa guerra, tra eserciti numerosi, come farsi un’idea chiara? C’era un vivo lume di luna: ma ci si vedeva come capita sotto la luna: che si scorge dinnanzi la persona, ma ciò che la farebbe riconoscere sfugge. E gran numero di opliti delle due parti si aggiravano e spazio ristretto. Degli ateniesi gli uni erano già battuti, altri, non sconfitti, avanzavano sotto l’impulso del primo slancio. Parte notevole delle rimanenti truppe ateniesi o era da poco sulle Epipoli, o ancora saliva, sicché ignoravano dove dirigersi. Dopo la rotta nelle schiere avanzate regnava il disordine, ed era difficile distinguerle al grido. I siracusani e gli alleati, vincitori, si incitavano con forti clamori, essendo impossibile di notte dare ordine con altro mezzo, e intanto reagivano agli assalti. Gli ateniesi cercavano i commilitoni, ma tutti quelli che venivano dalla parte avversa, anche se era una schiera dei loro, di quelli già volti in fuga, li credevano nemici. Mancando altro mezzo per riconoscersi chiedevano spesso la parola d’ordine: e, chiedendo tutti insieme, producevano tra loro stessi grande confusione, e rivelarono la parola al nemico. Ignoravano invece la parola dei siracusani che, vincitori e non dispersi, si riconoscevano più facilmente: sicché, quando gli ateniesi si imbattevano in un gruppo nemico, questi scampava conoscendo la parola degli avversari: essi, se non rispondevano, venivano uccisi. (...) Sicché alla fine, una volta prodottosi lo scompiglio, molti reparti dell’esercito cozzarono tra loro: amici contro amici, cittadini contro concittadini, onde sgomento. Non solo, ma si accendevano mischie, e si separavano a stento. In seguito molti morivano gettandosi dai dirupi, perché la discesa dell’Epipoli era angusta. Scesi al piano, quelli che scampavano dall’alto, i più di essi, cioè quanti appartenevano al primo esercito, più pratici dei luoghi, raggiungevano il campo, ma alcuni tra gli ultimi venuti, smarrite le vie, erravano per la contrada, e, sorto il giorno, la cavalleria siracusana, circondatili, li uccise⁷.

    Il disastro

    Dopo la sconfitta militare, a Demostene fu chiara la criticità della situazione ateniese: difficoltà di approvvigionamento e le epidemie tra i soldati consigliavano un abbandono dell’assedio per salvare almeno l’armata. Nicia, inizialmente, volle mantenere invece le posizioni, sperando nel logoramento avversario, ma l’arrivo di altri rinforzi a sostegno dei siracusani e la defezione di molti alleati ateniesi in Sicilia, non ultimo l’acuirsi del morbo nell’accampamento, convinse anche Nicia per lo sganciamento e la ritirata.

    I preparativi per la partenza furono fatti in gran segreto e la sera del 27 agosto 413 a.C. era tutto pronto affinché la flotta, con l’esercito, potesse prendere il mare e tornare in patria. Sennonché una eclissi di luna quella stessa sera sconvolse i piani ateniesi, gettando le truppe nel panico. L’interpretazione dell’eclissi portò al rinvio della partenza dell’armata da Siracusa, mostrando, però, al nemico tutte le reali intenzioni degli ateniesi.

    I siracusani erano ben decisi a non lasciar scappare gli assedianti; per questo attaccarono per la seconda volta la flotta nemica nel Porto Grande. Ermocrate e Gilippo, alla guida di una flotta di 74 triremi, entrarono nel Porto Grande i primi giorni di settembre, sfidando 86 triremi avversarie nello spazio angusto della baia. Gli ateniesi avevano schierato le navi in modo troppo distanziato tra loro, permettendo alle navi siracusane di infilarsi negli spazi tra una nave e l’altra, colpendo le triremi ateniesi con i rostri. Molte navi ateniesi finirono per arenarsi, difese strenuamente dagli equipaggi, anche da soldati etruschi, alleati degli ateniesi. Gli stessi etruschi passeranno, lo stesso giorno, dalla parte di Gilippo per non essere catturati. Alla fine della giornata, i siracusani riuscirono a catturare 18 triremi ateniesi uccidendo il comandante ateniese dell’ala destra, Eurimedonte.

    Con l’imbocco della baia del Porto Grande nelle mani dei siracusani, gli ateniesi dovevano ora forzare il blocco per poter tornare in patria. Nicia e Demostene decisero di attaccare le navi nemiche il 10 settembre, quando i siracusani erano intenti a celebrare le feste in onore di Eracle. Lo scontro fu aspro: i siracusani e i loro alleati si difesero accanitamente, contando su 74 triremi contro le 115 degli ateniesi; ma lo spazio ristretto della baia impedì agli ateniesi d’avvantaggiarsi della loro superiorità numerica, così le loro navi vennero respinte verso la spiaggia dopo la perdita di ben 60 triremi, contro le 8 dei siracusani e dei loro alleati.

    Le conseguenze della sconfitta furono ancora più drammatiche per le decisioni che vennero prese successivamente. Così Tucidide raccontò gli eventi che portarono i suoi connazionali al disastro finale:

    Spentosi il fragore della feroce battaglia, dopo le perdite gravissime in vite umane e navi, da una parte e dall’altra, i Siracusani e gli alleati vincitori raccolsero i relitti e i cadaveri, e ritornati veleggiando in città vi elevarono un trofeo. Gli Ateniesi invece abbattuti dall’enormità della sciagura, non concepirono nemmeno l’idea di chiedere una tregua per ricuperare le salme e il fasciame delle navi. Si proponevano, quella stessa notte, di ritirarsi. Demostene ebbe un colloquio con Nicia e gli espose il suo piano. Armare le navi superstiti e tentare con tutte le forze possibili di forzare all’aurora il passaggio sorvegliato dal nemico. Il disegno si basava sulla circostanza che gli Ateniesi disponevano ancora di un maggior numero di navi in assetto, di fronte ai Siracusani. Restavano nella flotta ateniese circa sessanta navi, ai nemici meno di cinquanta. Nicia fu d’accordo sul progetto. Ma quando gli strateghi vollero equipaggiare le navi, i marinai si rifiutarono di prender posto: troppo profondo lo scoramento inferto dalla disfatta e troppo grave la sfiducia in un’impossibile vittoria. Tutti avevano ormai scelto la via terrestre per ritirarsi⁸.

    Dopo tre giorni dalla sconfitta navale, i comandanti ateniesi assecondarono le loro truppe decidendo per una ritirata terrestre. Fu progettato di ripiegare verso Catania con tutto l’esercito, civili e marinai compresi, circa 40.000 uomini. Attraversato il fiume Anapo, gli ateniesi si trovarono costantemente attaccati dalla molesta cavalleria siracusana che lanciava una miriade di giavellotti per poi ritirarsi fuori dalla portata del nemico. Il secondo giorno della ritirata gli ateniesi marciarono per soli 3,5 chilometri prima di accamparsi sulle sponde dell’Anapo.

    Vista l’impossibilità di proseguire verso nord, gli ateniesi decisero di proseguire verso sud, in direzione di Gela, cercando di sfuggire ai nemici marciando di notte. Si crearono due lunghi serpentoni, con quello più avanzato guidato da Nicia composto da 18.000 opliti, mentre Demostene si trovava più indietro con truppe di scarso valore e i civili. Quest’ultima compagine attaccata continuamente dalla cavalleria e da truppe leggere, finì circondata, costringendo Demostene e gli ateniesi alla resa dopo che 14.000 uomini erano stati uccisi, lasciando solo 6000 prigionieri in mano siracusana.

    Più a sud, Nicia e i suoi vennero attaccati dopo otto giorni di marcia presso le sponde del fiume Asinaro, verso cui gli assetati soldati ateniesi si lanciarono per potersi dissetare, rompendo i ranghi e permettendo alla cavalleria degli inseguitori di colpirli con più facilità. Molti ateniesi morirono affogati o nella calca; altri, successivamente, di dissenteria a causa delle acque contaminate del fiume; la maggioranza fu massacrata dai siracusani. Nicia offrì la pace ai siracusani con dei termini vantaggiosi ma, Gilippo, ormai vincitore, rifiutò. Nicia cercò di fuggire la notte con i pochi opliti rimasti ma venne subito intercettato e ucciso nello scontro.

    La sconfitta ateniese fu totale: 7000 ateniesi finirono prigionieri, rinchiusi nelle latomie⁹ dove furono costretti ai lavori forzati; solo pochi furono i superstiti venduti come schiavi. Demostene stesso troverà la morte ucciso dai siracusani contro la volontà di Gilippo.

    La guerra del Peloponneso entrerà presto in una nuova fase ma, Atene, dopo la sconfitta a Siracusa, non sarebbe più stata la stessa, perdendo, alla fine, la sua egemonia imperiale sulla Grecia.

    ____________________________________________

    ⁶ Tucidide, La guerra del Peloponneso, Libro vi, 101.

    ⁷ Ivi, Libro vii, 44.

    ⁸ Ivi, 72.

    ⁹ Cave di pietra da costruzione.

    Veio (404-396 a.C.)

    La nascita della potenza di Roma

    Erano passati oltre due secoli da quando Roma era riuscita a liberarsi dall’ingerenza etrusca, sancita dalla caduta dell’ultimo dei sette re di Roma, Tarquinio il Superbo (534-509 a.C.), appartenente alla dinastia dei Tarquini che poneva la Città Eterna sotto la tutela politica e culturale della civiltà etrusca. Con la nascita dell’istituzione repubblicana, più consona alla stirpe indoeuropea dei latini, Roma riottenne la propria indipendenza politica, potendo intraprendere il proprio cammino di città-Stato egemone nella regione, andando a combattere e sottomettere inizialmente, latini, volsci e sabini (cioè popoli affini agli stessi romani) per poi contrastare la potenza etrusca, le cui città-Stato erano radunate in una federazione.

    La città etrusca più pericolosa per Roma alla fine del v secolo a.C. era Veio (Veii in etrusco), tra le più ricche dell’Etruria e anche la più vicina al territorio romano, essendo a meno di venti chilometri a nord dell’Urbe.

    Proprio per sradicare i nemici che in quel periodo si trovavano sulla frontiera settentrionale, Roma emanò una serie di riforme per poter competere contro i numerosi avversari. Gli opliti¹⁰ romani vennero per la prima volta retribuiti con una paga; normalmente gli opliti erano semplici cittadini liberi che prendevano le armi per difendere lo Stato: solo in casi eccezionali si trattava di professionisti come a Sparta. Gli impegni militari sempre più pressanti, a cui i cittadini di Roma erano chiamati, richiedevano una compensazione economica per il tempo, sempre maggiore, trascorso lontano dalle loro attività: questo era appunto il salario fornito dalla Repubblica che, a sua volta, doveva istituire una tassazione permanente dei suoi cittadini per poter usufruire di un fondo economico per mantenere l’esercito, ormai, impegnato su tutte le frontiere e per tempi prolungati.

    Questo nuovo sistema voleva stemperare le tensioni sociali molto alte in quel periodo e imprimere un maggior dinamismo all’esercito che già soffriva il fatto che il comando militare, invece che ai classici consoli, era demandato a numerosi tribuni consolari, spesso in contrasto tra loro per i motivi più disparati nella conduzione delle campagne militari.

    In quella fine di secolo, Roma era riuscita a riconquistare ai volsci la città costiera di Terracina, l’antica Anxur, mentre a nord, lungo il corso del Tevere, era impegnata contro i falisci, popolo indoeuropeo affine ai latini con sede principale nel moderno borgo di Civita Castellana, l’antica Falerii. Questi ultimi erano alleati degli etruschi e, in particolare, di Veio, la cui presenza impediva ai romani azioni incisive verso il territorio dei falisci. Era quindi essenziale, per Roma, la conquista di questa importante città se voleva proseguire la sua espansione verso il nord del Lazio.

    Da anni, le guerre contro i veienti si erano risolte in un nulla di fatto, anche se era ormai chiaro che non c’era più spazio per città così potenti su quello stesso territorio.

    L’assedio a Veio era cominciato nel 404 a.C., senza che l’esercito romano fosse però riuscito a bloccare completamente i rifornimenti alla città, né a conquistarla con un attacco diretto, portando l’esercito assediante a un generale scoramento e inedia davanti alle mura.

    Per poter vincere, i romani avrebbero avuto bisogno dell’intervento divino, cosa difficile considerata la maggior vicinanza degli etruschi alle questioni legate al mondo ultraterreno, tramite il sapiente uso degli aruspici, profondi conoscitori dell’arte divinatoria da cui i romani avevano solo da imparare. Un fatto naturale, come l’aumento del livello del lago di Albano senza piogge apparenti in quella zona, interrogò i romani sul significato arcano di questo segno. Da Roma partì una delegazione alla volta del famoso oracolo di Delfi, in Grecia, dove il responso della Pizia avrebbe dato una spiegazione a questo evento, legandolo alla politica contro Veio che era la principale nemica in quel frangente. In realtà i romani avevano già pensato di catturare un anziano aruspice di Veio che vaticinò che i romani avrebbero sconfitto la città rivale solo quando il lago si fosse prosciugato e dopo che i romani avessero compiuto alcuni riti propiziatori annessi e, soprattutto, avessero ripreso antiche abitudini sociali ormai sorpassate. Prima diffidenti, i romani si convinsero della correttezza del responso solo quando anche la delegazione partita per Delfi tornò dalla Grecia con il medesimo parere. I romani ottemperarono, così, alle richieste, svuotando il lago di Albano e riprendendo le antiche tradizioni basate sulla netta separazione in classi tra plebei e patrizi, cosa che creò diverse resistenze, superate dall’evolversi della situazione politica, nel 396 a.C., per via dell’alleanza tra Veio e la città etrusca di Tarquinia. Questo convinse a espletare tutti i riti richiesti e, soprattutto, eliminare dal comando i tribuni consolari per nominare un dittatore che avrebbe condotto

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