La proposta del duca
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Info su questo ebook
Helen Dickson
Helen Dickson lives in South Yorkshire with her retired farm manager husband. On leaving school she entered the nursing profession, which she left to bring up a young family. Having moved out of the chaotic farmhouse, she has more time to indulge in her favourite pastimes. She enjoys being outdoors, travelling, reading and music. An incurable romantic, she writes for pleasure. It was a love of history that drove her to writing historical romantic fiction.
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Anteprima del libro
La proposta del duca - Helen Dickson
Immagine di copertina:
Nicola Parrella
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
Seducing Miss Lockwood
Harlequin Historical
© 2009 Helen Dickson
Traduzione di Maria Pia Smiths Jacob
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Books S.A.
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
Harmony è un marchio registrato di proprietà
HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.
© 2011 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-5897-517-6
1
Londra, 1817
La prigione di Fleet torreggiava minacciosa su Juliet, mentre lei si avvicinava ai suoi possenti portoni. Con un gesto inconscio, la giovane si strinse nel mantello e, nel varcare la soglia dell’edificio, fu percorsa da un brivido. Odiava quel posto. Il secondino, che la conosceva grazie alle sue visite settimanali, la condusse attraverso l’atrio e la stanza delle guardie fino alla cella del fratello. Poi incassò la mancia, girò la chiave nella toppa e la fece entrare.
Robby era sdraiato sul suo lettino, apparentemente addormentato. Frustrata dall’inerzia del giovane, lo scosse rudemente.
«Robby! Svegliati!»
Robby, il fratellastro, aveva ventotto anni ed era maggiore di lei di cinque, ma la prigione sembrava avergli sottratto qualcosa. Era lei, per adesso, la più forte, il suo supporto, quella che lo consolava con il suo istinto femminile, che ne alleviava le sofferenze, perché, nonostante il fratello ostentasse un atteggiamento apatico, solo lei ne conosceva il dolore profondo, la rabbia, la frustrazione che provava verso se stesso per essersi permesso di cadere così in basso.
Finalmente, con grande sollievo di Juliet, Robby si mosse e, quando la vide, gli occhi gli brillarono di gioia.
«Juliet! Devo aver sonnecchiato!»
Robby era in prigione perché, sperando in un colpo di fortuna, era vissuto al di sopra dei propri mezzi. Il padre aveva fatto di tutto per offrirgli una vita agiata, ma lui, dopo anni di intensi studi, annoiato dalla propria posizione di insegnante presso una prestigiosa scuola per ragazzi nel Surrey, aveva lasciato il posto. A ventun anni, grazie a una piccola eredità ricevuta dalla madre, era partito per il Grand Tour in compagnia di alcuni coetanei. Poi, una volta rimasto senza denaro, aveva fatto ritorno a casa.
In seguito aveva continuato a vivere come più gli piaceva, facendo sfoggio del suo fascino, del suo orgoglio e di una buona dose di testardaggine, dedicandosi ai consueti passatempi di un benestante gentiluomo di città e trascorrendo le notti a bere, a divertirsi e a elargire doni agli amici. Alla fine, però, non potendo più sfuggire ai debiti, era finito in carcere.
«Dovresti trovare un lavoro, Robby» disse Juliet. «E non stare qui a far niente.»
«Ammetto che desidererei non essere in questo posto» mormorò lui. «Ma che posso fare?»
Juliet appoggiò un fagotto sul tavolo. «Ti ho portato del cibo... Pane, formaggio e anche qualche libro per aiutarti a passare il tempo.»
Lui, orgoglioso, le sorrise. «Tu e i tuoi libri, Juliet. Dove saresti senza di essi?»
«Davvero non saprei. Come avremmo fatto entrambi se non ci fossero stati? È grazie a loro e agli insegnamenti di papà che so fare il mio lavoro. Quanto a te, prendimi pure in giro, se vuoi, ma sappi che è grazie ai libri che posso permettermi di pagare le guardie per concederti qualche lusso.»
«Scusami, sorellina. Lo so, e di questo ti sono grato. Sono orgoglioso di te e lo sarebbe anche nostro padre, se fosse ancora vivo. Sei tanto intelligente quanto piena di risorse. Ma, dimmi, come sta Sir John?»
«A questo proposito sono venuta a riferirti che il mio lavoro presso di lui è finito. Ho un nuovo impiego... fuori Londra.»
«E naturalmente sarai troppo occupata per venirmi a trovare.»
«Non troppo occupata, Robby, ma troppo lontana. Vado dal Duca di Hawksfield, nell’Essex.»
«Dominic Landsdowne ?»
«Sì. Credo che si chiami così.»
«Accidenti! Proprio lui!»
«Lo conosci?»
«Sì. Era un militare. Ha combattuto in Spagna.» Robby si accigliò, improvvisamente in ansia per la sorella. «È anche un bellissimo farabutto, Juliet, spocchioso, arrogante, cacciatore di ragazze innocenti. I pettegolezzi, al riguardo, si sprecano, anche se lui è molto discreto. A dar retta alle chiacchiere, il duca e i suoi amici trascorrono la maggior parte del loro tempo in cerca di conquiste.»
«Che pessimo quadro stai disegnando del mio futuro datore di lavoro, Robby.»
«E a ragione. Lo hai incontrato?»
«No. Mi ha assunta in base alla segnalazione di Sir John e al mio curriculum. Non può essere dissoluto come lo dipingi.»
«Scusami, Juliet, ma è davvero così. Sei troppo importante per me. Conosco il tuo senso di indipendenza, ma quando si tratta di uomini come Dominic Landsdowne ... Sta’ attenta, perché non farà di te una duchessa.»
«E io non voglio diventarlo. Desidero solo guadagnare per rendere la tua vita in questo posto più tollerabile. Ancora qualche mese e sarai fuori.»
Al termine della visita, Juliet si lasciò alle spalle il fratello perso nei propri neri pensieri.
Quando Juliet lasciò il paese di Brentwood, nell’Essex, il vento che si era levato aveva portato con sé una pioggia fitta e gelata che le sferzava il viso. Aveva il cappellino zuppo e anche il mantello e gli abiti erano nelle medesime condizioni. Ciocche di capelli fradici le aderivano alla faccia. Mr. Carter, dal calessino sul quale si trovava, le porse una coperta.
«Mi spiace per il tempo, miss, ma non preoccupatevi. Presto saremo a Landsdowne House.»
«Lo spero, Mr. Carter, altrimenti non oso pensare all’aspetto che avrò, una volta giunti a destinazione.»
Grata, si avvolse nella coperta, e piegò le spalle contro la pioggia, tentando di ignorare l’acqua che le inzuppava il colletto e concentrandosi sulla strada.
La vista di un maestoso cancello in ferro battuto le fece trarre un sospiro di sollievo. La casa, un edificio di tre piani con finestre di vetrate a piombo e un portico di marmo candido, sembrava enorme e molto elegante.
Mr. Carter si fermò davanti all’ingresso, smontò dalla vettura e aiutò la passeggera a fare lo stesso.
«Vi ringrazio, signore» disse Juliet quando quello scaricò il suo baule. «Sarà meglio però che andiate subito via per rincasare prima che faccia buio. Non preoccupatevi per me.»
Lo guardò partire, poi concentrò la sua attenzione sul portone. Per giorni aveva aspettato quel momento e adesso era stranamente riluttante a varcare la soglia. Con lo stomaco in subbuglio, sollevò il lucido batacchio d’ottone a forma di zampa di leone, picchiò e restò in attesa.
Da dentro non giunse alcun rumore. Strano che in una dimora così grande non vi fosse nessuno. Juliet bussò di nuovo e, non avendo ricevuto risposta alcuna, ruotò la maniglia ed entrò.
La casa era magnifica, pensò, muovendosi al centro dell’atrio elegante e spazioso e sentendosi ancora più piccola e insignificante. Intorno a lei si formò una pozza d’acqua piovana. Notò, di fronte a sé un’ampia scalinata illuminata dal chiarore delle candele; le pareti erano abbellite da dipinti di uomini in uniforme, ritratti di famiglia e scene di giorni ormai lontani. Adocchiata una porta semiaperta, la raggiunse, l’aprì e, troppo tardi, si rese conto dell’errore commesso.
Gli uomini presenti, tranne uno seduto a capotavola, si misero a fissarla contemporaneamente. La scena somigliava a un quadro di ispirazione fiamminga: una pittura d’interni, con il piano del tavolo ingombro di bottiglie e bicchieri e l’aria densa di fumo. Poi, chi l’aveva ignorata voltò la testa e la fissò con uno sguardo carico di disappunto.
«Oh... Vi prego di perdonarmi. Non era mia intenzione arrecare disturbo. Io... mi sono persa.»
Le sue scuse diedero la stura a una serie di commenti volgari da parte dei cinque giovani commensali, eccitati dalla giornata di caccia nella tenuta del duca e già palesemente ubriachi. Solo quello seduto a capotavola pareva sobrio. Si trattava di Dominic Landsdowne , settimo Duca di Hawksfield, che scoccò alla nuova arrivata un’occhiata di suprema indifferenza, tipica di un vero aristocratico.
Dominic si alzò dalla sedia e le andò incontro.
Era alto, aveva i fianchi snelli e il fisico possente, ampie spalle e il corpo più di un militare che di un esteta. I capelli, neri, lucenti e folti, si arricciavano alla base del collo. Il viso dalla pelle ambrata era rasato di fresco, e le sopracciglia corvine si inarcavano al di sopra degli occhi grigio argento: senza dubbio un uomo attraente, dal viso volitivo, la bocca caparbia e il mento arrogante. «Chi siete?» chiese torreggiando su di lei.
«Miss Lockwood.» Juliet era pallida e tirata, ma i suoi occhi si fissarono con disarmante fermezza in quelli dell’interlocutore che la scrutò con malcelato divertimento. «Mi scuso per non essere stata annunciata, ma alla porta non c’era nessuno.»
Dominic emise un gemito infastidito, la oltrepassò, si affacciò sul corridoio e chiamò un certo Pearce.
«Non vi aspettavamo prima di domani, Miss Lockwood.»
«Sì. Sono in anticipo, ma ho pensato che per voi non sarebbe stato un disturbo.» In verità, alloggiare a Brentwood era troppo costoso e lei aveva preferito non attingere alle sue limitate risorse.
«Venite direttamente dalla casa londinese di Sir John Moore?»
«Sì, Vostra Grazia.» Juliet si sentiva stranamente a disagio davanti a un uomo così sicuro di sé.
«Sir John sta bene?»
«Benissimo.»
Sentendo una sonora risata levarsi dalla tavolata, Dominic, irritato, si girò a guardare gli amici. «Vi domando scusa, Miss Lockwood» disse, asciutto. «È stata una lunga giornata di caccia.»
«E anche dannatamente divertente» fece uno degli ospiti, ingollando un lungo sorso di brandy.
Juliet guardò gli ospiti, allungati con pigra indolenza sulle sedie e che adesso, muti, la fissavano, quasi presagendo che qualcosa in lei li potesse intrattenere.
Era sconcertante per Juliet trovarsi, per la prima volta in vita sua, in una situazione del genere, in preda alle occhiate impudenti di simili personaggi. Si sentì assalire da un moto di risentimento per essere stata oggetto del loro scherno.
Uno dei gentiluomini, Thomas Howard, era avvolto da un cerchio di fumo, un altro sedeva accanto a una giovane e avvenente bionda.
«Santo cielo! Chi è questa creatura così poco urbana, Dominic? Non sa usare la porta di servizio?»
«Taci, Sedgwick. Stai mettendo in imbarazzo Miss Lockwood con la tua scortesia.»
«La servitù non entra in casa di un gentiluomo dall’ingresso principale» commentò la donna con voce da gatta, «a meno che non sia nuova.»
Arrabbiata, Juliet strinse gli occhi a fessura. «Sono l’impiegata di Lord Landsdowne , non una sua domestica.»
«Che differenza fa, considerato che paga il vostro lavoro?»
«Basta, Geraldine» intervenne Dominic, mitigando il rimprovero con un sorriso. «Ricordati le buone maniere.»
Juliet si chiese se Geraldine sapesse comportarsi con educazione. La donna era un trionfo di rosa, pizzi, brillanti tra i capelli ramati e portava un abito dalla scollatura troppo profonda per contenere il suo generoso décolleté.
Sedgwick sorrise. «Perché non lasci che la tua... impiegata si unisca a noi? Potrebbe essere divertente» disse in tono di scherno.
Dominic notò un lampo di sconvolto stupore attraversare il volto di Miss Lockwood. «Non fate caso a Sedgwick. Di solito non è così rude» le disse, stupendosi lui stesso per la preoccupazione che mostrava di avere nei confronti di quella sconosciuta. Forse era stato spinto dal suo aspetto trasandato, oppure dal desiderio che la signorina non lasciasse il posto prima ancora di cominciare.
Sedgwick accarezzò con dita esperte la nuca di Geraldine che, con fare felino, sospirò e si inarcò di piacere.
Juliet, incapace di distogliere lo sguardo, assistette alla scena. Mai, in vita sua, aveva veduto qualcosa di tanto decadente e osceno. Si sentì quasi mancare, non per lo scandalo, bensì per un attacco di collera e per la consapevolezza di essere osservata da tutti i presenti.
Grazie al cielo, un attimo dopo, apparve il maggiordomo. Per una volta Pearce, che di solito era il ritratto della calma più assoluta, sembrava in imbarazzo mentre armeggiava con i bottoni del panciotto che aveva aperto recandosi in cucina dalla cuoca, Mrs. Reed, per godersi in sua compagnia qualche oretta di pace mentre i gentiluomini seguitavano a ubriacarsi.
«Alla porta d’ingresso non c’era nessuno, Pearce» disse secco Dominic, senza tuttavia rimproverarlo. «Miss Lockwood si è dovuta arrangiare da sola.»
«Chiedo scusa, Vostra Grazia.»
«Le scuse dovreste farle a Miss Lockwood, Pearce. Mostratele la stanza e assicuratevi che non le manchi nulla.»
«Sì, Vostra Grazia. La camera della signorina è già pronta.»
«Bene, Miss Lockwood. Spero che trascorrerete una notte tranquilla. Ci vedremo domattina in biblioteca alle nove in punto.»
«Sì. Certamente.»
Pearce si voltò verso di lei. «Da questa parte, prego.»
«Vi ringrazio. Se lor signori vogliono scusarmi.» Juliet parlò in tono pacato, gelido e un po’ sprezzante.
Quando la porta si fu richiusa alle sue spalle, vi fu un attimo di silenzio, rotto quasi subito da scrosci di crudeli risate.
«Santo Iddio, Dominic!» sbottò Sedgwick a voce così alta che Juliet lo sentì. «Dubito che quella patetica ragazza possa costituire per te una tentazione!»
«Hai ragione. È affascinante come lo spaventapasseri di Sheperd, il mio fattore» replicò il duca.
Juliet schiumava di rabbia.
Uno spaventapasseri!
Fu solo dopo aver attraversato una miriade di corridoi e aver salito altrettante scale che l’ira iniziò a scemare. Fugata la nebbia che le offuscava la vista, Juliet iniziò a considerare la sua situazione. Se avesse potuto, se ne sarebbe andata immediatamente, ma, si disse mentre fu attraversata da un brivido e iniziò a starnutire, aveva bisogno del lavoro, di un tetto sulla testa e dei soldi per Robby. Non le restava che stringere i denti e sopportare.
Pearce si girò e le scoccò un’occhiata ostile. «Spero, cara Miss Lockwood, che non vi siate presa una infreddatura.»
«Lo spero anch’io» mormorò lei.
Rimasta da sola, guardò la stanza nella quale avrebbe alloggiato per qualche mese. Era bella, ampia, confortevole, sporgeva a sud, con vista sui prati e non troppo vicina all’ala riservata ai domestici come a voler segnalare la superiorità del suo ruolo. Juliet sospirò, conscia che ciò non avrebbe facilitato i suoi rapporti con la servitù.
Sentendo peggiorare il mal di testa, si versò dell’acqua e, assetata, la bevve. Attese quindi che un valletto le portasse il bagaglio, lo disfece, si preparò per la notte e poi, sollevata, scivolò tra le lenzuola fredde.
Juliet sentì bussare alla porta della sua camera da letto e lottò per aprire gli occhi. Il sole che filtrava dai vetri quasi l’accecò, così si affrettò a richiuderli.
Aveva dormito tutta la notte senza interruzioni e cercò di ricordare dove si trovava. Quando le tornò in mente, gemette. Santo cielo! Come si poteva essere così sfortunati da ammalarsi il primo giorno del nuovo lavoro? Era tutta dolorante.
I colpi alla porta si fecero