La fanciulla e il capitano
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Elizabeth Beacon
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Anteprima del libro
La fanciulla e il capitano - Elizabeth Beacon
Immagine di copertina:
Nicola Parrella
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
A Most Unladylike Adventure
Harlequin Mills & Boon Historical Romance
© 2012 Elizabeth Beacon
Traduzione di Elena Vezzalini
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Books S.A.
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
Harmony è un marchio registrato di proprietà
HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.
© 2012 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-5898-246-4
1
Domandandosi se fosse ancora in grado di arrampicarsi come un gatto, Louisa Alstone, gettati i piedi fuori dalla finestra, entrò con un salto nella notte primaverile. E visto che lei non aveva alcuna intenzione di sposare Charlton Hawberry, decise che l’avrebbe scoperto presto.
I pantaloni che gli aveva sottratto aderirono alle sue gambe flessuose quando, contraendo dei muscoli che non usava da sei anni, si sforzò di non guardare in basso. Sicuramente non era più la ragazzina che correva per le strade di Londra, o che fuggiva saltando sui tetti, tuttavia si augurò di possedere ancora la destrezza dei monelli di strada.
Una fuga così disperata non si addiceva certo a una dama, ma pregò di avere ancora l’agilità di un tempo mentre si imponeva di non tremare come una foglia scossa dal vento. Suo fratello Christopher, che sul lavoro si faceva chiamare Kit Stone, era partito e come lui il suo migliore amico e socio in affari, Ben Shaw; i due erano troppo presi dalle loro avventure in alto mare perché lei potesse sperare che arrivassero a salvarla. Poiché avrebbe preferito morire piuttosto che sposare un uomo pronto a trascinarla in chiesa, anche dopo che lei aveva rifiutato la sua offerta di matrimonio, staccò le mani dal telaio della finestra e si ritrovò sul cornicione.
Ce la farò, si disse, rifiutandosi di pensare alla morte che l’attendeva se avesse avuto una sola incertezza. Mentre si spostava verso la finestra successiva, benedisse il costruttore di quelle case di città per le imposte che aveva scelto: le stecche così ravvicinate, infatti, avrebbero impedito che all’interno qualcuno vedesse passare la sua ombra. Quando non udì alcun rumore il suo respiro si fece meno affannoso. Louisa continuò a procedere a tentoni lungo la facciata della casa di Charlton Hawberry.
Se fosse riuscita ad arrivare in fondo, dove sarebbe andata? Inutile chiedere aiuto a zio William e zia Prudence, dato che erano d’accordo con Charlton. Lo zio avrebbe venduto l’anima al diavolo per denaro; e il fatto che Kit diventasse sempre più ricco non gli aveva reso più simpatico né il nipote né le sue sorelle, soprattutto perché lui di quel denaro ne aveva ricevuto ben poco. Quindi non le restava che rivolgersi a sua sorella e al marito; il racconto del comportamento vergognoso di Charlton avrebbe sicuramente sconvolto Maria e Brandon Heathcote, che le avrebbero offerto ospitalità. Ma Louisa si chiese se fosse giusto portare uno scandalo in quella rispettabile canonica del Kent; in fondo, i suoi parenti non lo meritavano.
E poi bisognava tener conto della bontà d’animo di Maria. Al pensiero di sua sorella che si affliggeva per quel bugiardo, imbroglione e avvenente Charlton Hawberry, fece una smorfia.
Devi imparare a essere meno drastica, mia cara, le aveva scritto Maria, rispondendo alla sua ultima lettera, in cui Louisa le annunciava che avrebbe preferito morire piuttosto che sposare quell’uomo spregevole che per ben tre volte, nelle ultime settimane, le aveva chiesto di sposarlo. E continuava:
Perché non consideri più seriamente la proposta di Mr. Hawberry? Anche se tu ti ostini a dire che non ti sposerai mai, mi sembra un uomo di bella presenza che nutre per te un affetto sincero. Sposarsi è assai preferibile che rassegnarsi al nubilato, e sono convinta che dovresti provare a cercare un buon marito, per non pentirti di essere rimasta una zitella quando sarà troppo tardi per porvi rimedio.
Louisa non credeva nell’amore di Charlton, così come non credeva al personaggio da lei inventato della deliziosa Miss Alstone, esigente fino all’impossibile, nota nell’alta società come Diamante di ghiaccio. Di lei si diceva che avesse rifiutato un numero di pretendenti che avrebbero reso felice qualsiasi debuttante. Sapeva bene che la sua avversione per il matrimonio la rendeva interessante agli occhi dei gentiluomini annoiati, perciò lei aveva stabilito di trattarli con freddezza fin dall’inizio.
Ma su quella altezzosità, costruita con grande impegno, in quel momento non poteva contare; e se fosse riuscita a fuggire da Charlton, sarebbe stata assediata da uno stuolo di corteggiatori e aspiranti seduttori. A dire il vero né Maria né l’amabile Brandon, ottimista di natura, sarebbero riusciti a tener testa a Charlton per lungo tempo, mentre zio William e zia Prudence non ci avrebbero nemmeno provato. Perciò la sua reputazione era già compromessa, una causa persa su cui non valeva la pena di piangere. Ma forse sarebbe stata la ragione per cui Kit le avrebbe offerto la sua casa e un lavoro, decise Louisa sentendo una speranza accendersi nel suo cuore, mentre avanzava sul cornicione stringendo i denti per vincere la tentazione di guardare in basso.
«Preferirei morire di fame» aveva detto a zio William, senza alcuna esitazione, quando Charlton l’aveva portato nella lussuosa camera matrimoniale dove la teneva prigioniera per dimostrare che era irrimediabilmente compromessa.
«Come preferisci. Io non ospiterò in casa mia una donna dalla reputazione macchiata; perciò, per quanto riguarda me e tua zia, puoi tornare nella strada da dove sei venuta» aveva replicato lo zio stringendosi nelle spalle. «Se non volevi sposare Hawberry, non saresti dovuta fuggire con lui.»
«Mi ha rapita portandomi via da quell’orribile ballo mascherato a cui zia Prudence ha voluto a tutti i costi partecipare. Sapete bene che detesto quell’uomo. Perché non mi mandate a Chelsea ad attendere il ritorno di mio fratello?»
«Ne ho abbastanza di te, ragazza. Vorrei non averti mai accolta in casa mia, visto che hai ripagato la mia gentilezza soffiando tutti i pretendenti a tua cugina, impedendole così di fare un buon matrimonio.»
«Non avrei potuto farlo anche se avessi voluto. Non riesco a capire da chi Sophia abbia ereditato la bellezza e la sua buona indole: sicuramente non da voi. Un fratello degno di questo nome ci avrebbe aiutato quando nostra madre morì, avrebbe avuto compassione dei nipoti orfani, figli della sua unica sorella. Voi invece vi siete fatto pagare una fortuna per ospitarci quando Kit era lontano, in mare, per mantenere la famiglia.» L’espressione maligna che aveva scorto negli occhi dello zio era stata la conferma che era a conoscenza dello squallido piano di Charlton. «Non preoccupatevi. Non trascorrerei cinque minuti sotto il vostro tetto nemmeno se l’unica alternativa fosse l’ospizio di mendicità.»
Cosa altamente improbabile dato che, grazie a suo fratello, lei disponeva di una dote cospicua che le avrebbe permesso di vivere agiatamente, nel caso fosse riuscita a fuggire da Charlton e Kit non l’avesse ospitata nella sua nuova casa di scapolo a Chelsea. Louisa si chiese come fosse possibile che zio William fosse il fratello di una donna coraggiosa e testarda come sua madre, e il padre di una fanciulla dolce e un po’ svampita come Sophia.
Dopo avere stabilito che i misteri dell’ereditarietà erano insondabili, continuò ad avanzare strisciando lungo la facciata dell’edificio, cercando di non pensare che, se fosse caduta dal secondo piano, si sarebbe sfracellata sul marciapiede.
Lei non intendeva prendere marito, e in quel momento l’ultimo uomo al mondo che avrebbe sposato stava mettendo in pericolo la sua vita. Si pentì amaramente di essersi rimessa in gioco solo per accontentare i suoi fratelli. Il cuore prese a batterle forte quando, dopo avere lanciato un’occhiata alla strada, immaginò la morte che si muoveva sul cornicione alle sue spalle, soffiandole sul collo il suo respiro gelido mentre stringeva una falce tra le dita ossute. Ma siccome avrebbe preferito morire piuttosto che sposare Charlton, continuò ad avanzare concentrandosi su quello che la aspettava.
Si domandò se fosse possibile sfuggire a suo zio e a Charlton fino al ritorno di Kit, il quale avrebbe ridimensionato l’accaduto dimostrando che si trattava di una solenne pagliacciata. Ma la casa di suo fratello era il primo luogo dove chiunque sarebbe andato a cercarla, e i domestici non avevano né l’autorità né il potere di respingere i suoi nemici. A pensarci bene non era vero: uno degli uomini che lavoravano per Kit possedeva entrambi i requisiti. Mentre procedeva sul cornicione col cuore in gola, ricordò l’incontro con il capitano più tristemente noto di suo fratello. Hugh Darke le aveva fatto una certa impressione, ma era praticamente un pirata e di certo l’uomo più scortese che lei avesse mai conosciuto. Dopo che aveva lasciato l’ufficio di Kit, la sua immagine era rimasta a lungo nei sensi e nella mente di Louisa.
Dato che aveva trascorso solo qualche istante in compagnia dell’arrogante e minaccioso Capitano Darke, non capiva perché la sua insolenza e il luccichio ironico dei suoi occhi grigi dovessero continuare a tormentarla.
Al solo pensiero di dover raccontare a quell’uomo austero la sua ultima disavventura, rischiò di mancare la presa sul mattone; e dovette trattenere un’imprecazione assai poco signorile, mentre cercava quello successivo e la paura minacciava di rovinare la sua fuga proprio nel finale.
Un uomo terribilmente sconveniente, maleducato, presuntuoso e sbruffone, borbottò fra sé mentre raggiungeva lo spigolo dell’edificio di pietra di Portland e la canna pluviale, a cui si aggrappò. In attesa che il battito accelerato del suo cuore si calmasse, pensò alla mossa successiva da compiere.
Con la presa sicura delle mani sul metallo, Louisa si rese conto di essere arrivata a un punto dove, se fosse scesa, avrebbe rischiato di essere vista. Meglio aspettare di saltare a terra dopo avere raggiunto l’ultima casa della fila, dove c’erano meno probabilità di essere scoperta mentre scendeva dal tetto della casa di uno sconosciuto. L’idea di incontrare di nuovo gli uomini di Charlton la fece rabbrividire di paura.
Si impose di non pensare ai loro commenti beffardi, alle occhiate lascive che le avevano lanciato, mentre passava furtivamente sui tetti degli ignari vicini di casa di Hawberry.
Quando arrivò all’ultima casa, silenziosa e addormentata, si lasciò scivolare con prudenza a terra benedicendo la passione di Charlton per il macabro, grazie alla quale, in un baule chiuso a chiave, aveva trovato quel ridicolo abito nero che aveva facilitato la sua fuga rendendola invisibile nell’oscurità.
La casa di Kit era l’unico luogo che le avrebbe offerto asilo immediato; là sapeva di trovare il denaro che suo fratello le aveva mostrato un giorno, pensando che avrebbe potuto averne bisogno quando lui si fosse trovato lontano da casa. Era stato davvero profetico, almeno lei sarebbe stata al sicuro fino al sorgere dell’alba. Dopo sei anni di una noiosa e rispettabile esistenza, Louisa si rese conto di temere le strade dov’era cresciuta. Si mise a correre nell’oscurità col cuore che le martellava nel petto, augurandosi di trovare la via prima di destare l’interesse di qualche nottambulo.
Il Capitano Hugh Darke si risvegliò suo malgrado dal gradevole stato di torpore da ubriachezza così duramente conquistato la sera precedente, e si mise a contemplare il soffitto sopra la sua testa. C’era solo una debole luce lunare che potesse aiutarlo a capire a chi apparteneva la casa in cui si trovava e, soprattutto, il motivo per cui un folletto birichino stesse saltando sopra il tetto del suo ospite misterioso interrompendo in tal modo il suo sonno. Da settimane non dormiva così bene.
«E adesso io ho anche un mal di testa feroce, accidenti...!» borbottò, alquanto dispiaciuto per aver mancato di rispetto al padrone del letto che stava occupando, chiunque fosse.
Si trattava forse di un sonnambulo che si stava esibendo in un ballo con gli zoccoli? O il padrone di una ferriera che, avendo ricevuto un ordine improvviso, aveva costretto i suoi sfortunati operai a lavorare di notte? Impossibile: persino lui sapeva che le fornaci si trovavano a piano terra, poi ci sarebbe stato del fumo, tanto fumo, oltre a un caldo infernale. Quella stanza invece era fresca. In un impeto di magnanimità, Hugh fu costretto ad ammettere che si trattava di un rumore sordo, quasi furtivo; e si domandò quale cattiva compagnia si fosse scelto questa volta. Stringendosi nelle spalle, decise che anche lui non era una gran compagnia in quel momento, e che era inutile provare a riprendere sonno.
Nella sua vita aveva affrontato pericoli ben più seri di un ladro incompetente.
Perciò non si rannicchiò sotto il copriletto in attesa che il pericolo passasse, anche perché quando si era sdraiato non si era preoccupato di mettersi sotto le coperte, ma decise di scoprire chi fosse il responsabile di tutto quel baccano per ridurlo al silenzio e riprendere a dormire. Appoggiò i piedi sul pavimento, ma quando alzò la testa dal cuscino il dolore si intensificò; l’impressione fu che il folletto, stanco di danzare sul soffitto, fosse entrato nella stanza con l’intenzione di esibirsi in un ballo all’interno della sua scatola cranica.
«Che baccano maledetto...» borbottò. Il suono della sua voce in quella casa misteriosamente tranquilla gli piacque, così si mise a gridare con un tono che si sarebbe udito sopra il fragore di un uragano: «Ho detto che state facendo un baccano maledetto!». Varcata la soglia della porta, si trovò in un vestibolo dall’aria vagamente familiare.
«Molto meno di voi» ribatté una voce femminile, come se Hugh fosse l’intruso e lei avesse tutti i diritti di infilarsi nelle case altrui per rubare.
Era una voce bassa, di gola, molto peculiare, che risvegliò in lui quelle fantasie che da giorni cercava di dimenticare. Aveva il sapore del miele e dell’estate, e la reazione inequivocabile del suo corpo a quella presenza strappò un gemito a Hugh, che subito dopo si ricordò che la strega era la donna di Kit Stone. Ragion per cui non sarebbe mai stata sua.
Maledì il giorno in cui, per la prima volta, nei nuovi uffici del suo amico aveva posato lo sguardo su quella donna affascinante, che indossava un sobrio abito elegante, abbinato a un cappello assai stravagante. Le piume arricciate erano state tinte per cercare di imitare il colore degli occhi che lo avevano fissato spudoratamente. Uno sguardo curioso, quasi maschile, che aveva il colore, la vastità e l’impenetrabilità del Mediterraneo. In quel momento gli era sembrato che, più che consegnare il rapporto dell’ultimo viaggio, fosse importante che Kit non scoprisse che il suo capitano desiderava concupire la sua amante. Perciò, borbottando una scusa e tirando un sospiro di sollievo, Hugh aveva lasciato la costosa mantenuta nell’ufficio di Kit.
La donna aveva reagito alla sua goffaggine con qualche parola gelida e uno sguardo indifferente che lo aveva fatto sentire uno scolaretto, e non un esperto capitano di ventotto anni con un’avventurosa carriera in marina alle spalle e un’altra davanti a sé, come capitano di una nave mercantile.
Così Hugh aveva fatto ritorno alla sua nave e alla pace relativa della sua cabina, in attesa di essere convocato da Kit Stone per parlare dell’ultimo viaggio e programmare quello successivo.
In quel momento Kit era impegnato in una missione misteriosa, nota a lui solo, mentre l’altra metà della Stone & Shaw si trovava probabilmente nei Caraibi. Hugh Darke era ubriaco, aveva la responsabilità della casa e degli affari di Kit Stone, e stava perdendosi in fantasie indecorose sulla sua amante. Se alle orecchie di Kit fosse giunta la voce che loro due erano stati soli in casa sua, in piena notte, gliela avrebbe fatta pagare cara.
«Mi avete sentito?» chiese la donna, la cui vicinanza lo turbava non poco.
Hugh ondeggiò lievemente, poi riguadagnò l’equilibrio con fare impaziente.
Perché quella strega non la smette di importunarmi e non mi lascia pensare con calma?, si disse. «Come diavolo potrei non sentirvi, donna? Mi state urlando nelle orecchie come una pescivendola.»
«Siete voi che urlate, non io» lo informò lei altezzosa. «Dov’è mio...?» Esitò per un lungo istante.
Anche se ancora mezzo ubriaco, Hugh pensò che era un atteggiamento che non si sarebbe aspettato dalla sirena dagli occhi blu che lo aveva affascinato nell’ufficio di Kit. Per colpa di quella maliarda, accidenti a lei!, da allora era stato costretto a bere come un pazzo per una notte di sonno decente, perché aveva ossessionato i suoi sogni con le fantasie più peccaminose. Mai in tutta la sua vita gli era capitata una cosa simile. Si era ripetuto infinite volte che non sarebbe mai stata sua, che in realtà non la desiderava, che si trattava solo di un’attrazione fisica