Scontro appassionato: Harmony Destiny
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Catherine Mann
Tra le autrici più amate e lette dal pubblico italiano.
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Anteprima del libro
Scontro appassionato - Catherine Mann
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
Yuletide Baby Surprise
Harlequin Desire
© 2013 Catherine Mann
Traduzione di Giuseppe Biemmi
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Books S.A.
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
Harmony è un marchio registrato di proprietà
HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.
© 2014 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-3052-082-0
1
La dottoressa Mariama Mandara era stata sempre stata l’ultima scelta quando si doveva formare una qualsiasi squadra nell’ora di ginnastica. Lo sport in genere non faceva per lei. Ma quando si trattava di una sfida di cultura generale o matematica, le richieste si sprecavano.
Peccato che le sue cognizioni di tipo accademico non la aiutassero affatto a sprintare in modo più veloce giù per il corridoio dell’esclusivo hotel.
Aveva più che mai bisogno di correre per seminare i soliti royal watchers che erano sulle sue tracce nel resort frontemare di Capo Verde, arcipelago formato da dieci isole disposte a forma di ferro di cavallo di fronte alle coste dell’Africa Occidentale. Lei soggiornava su quella più grande, Santiago.
Indipendentemente da quello che faceva, legioni e legioni di vacanzieri e non erano costantemente alla ricerca di una foto insieme alla principessa. Perché non riuscivano ad accettare il fatto che era lì per delle conferenze di lavoro e non per socializzare?
Ansimando trafelata, Mari sfiorò per un attimo la parete con la mano mentre sfrecciava accanto a una palma in vaso addobbata di scintillanti luci natalizie. Sfuggire agli implacabili inseguitori non era facile come risultava nei film, specialmente se non eri incline a lanciargli contro tutto ciò che ti capitava a tiro o a saltare giù dalle finestre.
La prima porta della tromba delle scale era bloccata da due turisti che stavano studiando una brochure. Un carrello delle pulizie sbarrava un’altra via di fuga. Non le restava che tirare dritto.
Riacquistato l’equilibrio, camminò a grandi falcate, evitando di correre perché così facendo avrebbe attirato ulteriormente l’attenzione o avrebbe finito per incespicare. I tacchi a spillo affondavano nella soffice moquette, producendo un ticchettio smorzato a tempo con una versione poliritmica di Cantan gli angeli nel cielo, diffusa dall’impianto stereo. Accidenti, non vedeva l’ora di terminare questa serie di conferenze mediche e tornare al suo laboratorio di ricerca, dove avrebbe potuto superare la frenesia delle festività in santa pace, masticando dati invece che bastoncini di zucchero.
Per la maggior parte della gente, il Natale significava amore, gioia e famiglia. Per lei, invece, era solo un periodo che portava con sé delle epiche battaglie familiari anche a distanza di vent’anni dal divorzio dei suoi genitori. Se sua mamma e suo papà avessero vissuto a pochi isolati di distanza, o anche solo sullo stesso continente, le vacanze non sarebbero state così dolorose. Invece, per decenni avevano dato vita a una specie di tiro alla fune relativo alla loro unica figlia. Crescendo, Mari aveva trascorso più tempo nell’aeroporto di Atlanta e sugli aerei con la sua tata che a festeggiare accanto a un caminetto acceso con una tazza di cioccolata in mano. Aveva perfino passato un Natale in albergo, perché il suo volo era stato cancellato per il maltempo.
Il carrello abbandonato nel corridoio davanti al quale era appena passata adesso le ricordò il pranzo natalizio consumato grazie al servizio in camera di quell’anno. Che la considerassero pure un po’ eccentrica, da quando era diventata indipendente, aveva preferito optare per dei Natali più semplici.
Anche se semplice non sempre era un aggettivo che si coniugava bene con una che era nata in una famiglia reale. Non a caso, sua madre era crollata sotto la pressione dei riflettori costantemente puntati su di lei, aveva divorziato dal suo Principe Azzurro che l’aveva portata con sé in Africa Occidentale ed era tornata nella sua casa di Atlanta, in Georgia. Solo che Mari non poteva divorziare da ciò che era.
Ah, se solo suo padre e i suoi sudditi avessero capito che poteva essere più utile al loro piccolo paese mettendo a frutto la sua mente brillante in ricerche nel laboratorio universitario invece di doversi stampare un sorriso sulle labbra e andare in giro a tagliare nastri a questa o quella cerimonia di inaugurazione! Agognava la possibilità di vestirsi comoda, invece di doversi preoccupare sempre di essere tiratissima come una modella sul punto di posare per l’ennesimo servizio fotografico.
Finalmente, individuò una porta che dava accesso a una scala di servizio. Sbirciando dentro, trovò il terreno sgombro. Doveva solo salire dal pianterreno al quinto piano, dove si sarebbe tappata nella sua stanza per la notte prima di affrontare i restanti simposi in programma nel corso della settimana. Stremata da una giornata di quattordici ore di presentazioni sullo stato delle ricerche sui farmaci antivirali, doveva avere un aspetto disastroso e non era affatto dell’umore di sorridere agli obiettivi dei fotografi o di rispondere a domande che sarebbero state catturate nei video dei cellulari di qualche curioso. Anche perché, di questi tempi, qualsiasi cosa poteva finire su Internet nel giro di pochi secondi.
Mentre in sottofondo si udiva un altro canto natalizio, afferrandosi al corrimano, cominciò a salire gradino dopo gradino. Ansimando, fece una pausa al terzo piano per riprendere fiato prima di trascinarsi su per le ultime rampe di scale. Infilata la porta che immetteva nel corridoio del quinto piano, per poco non sbatté in una madre con relativa figlia adolescente che stavano lasciando la loro camera. La ragazzina ebbe una reazione di sorpresa a scoppio ritardato e Mari si girò rapidamente, avvertendo una scarica di adrenalina che per un attimo le fece dimenticare la stanchezza, facendola filare giù per il corridoio. Solo che adesso stava andando nella direzione opposta alla sua, dannazione.
Tornare indietro come nulla fosse non era un’opzione praticabile, almeno fino a quando non fosse stata sicura di essere sola. Ma non poteva nemmeno starsene lì in piedi all’infinito. Se solo avesse avuto un foulard o qualsiasi cosa per camuffarsi e depistare la gente. A capo chino, scrutò il corridoio da sotto le ciglia abbassate, notando un carrello portabagagli in ottone e dei vasi mostruosamente grandi di stipa tenuissima, la particolare erba dalle spighe fluttuanti.
Lo sguardo alla fine le cadde sulla risposta perfetta alle sue esigenze: un carrello per il servizio in camera. Apparentemente abbandonato. Guardandosi attorno alla ricerca di una qualche persona con l’uniforme dell’hotel, non vide altro che la schiena di una donna che si teneva premuto il cellulare all’orecchio e che si allontanava velocemente. Mari si mordicchiò il labbro inferiore per una frazione di secondo, si precipitò verso il carrello con tanto di tovaglia e sollevò il coperchio posto sopra un vassoio d’argento. Un profumino di agnello speziato con panna acida le fece venire l’acquolina in bocca. E mentre lo stomaco vuoto cominciava a brontolarle, il tiramisù che mise a fuoco le fece venire la tentazione di trovare il primo ripostiglio disponibile dove poter banchettare dopo una lunga giornata di discorsi senza nemmeno una pausa per rifocillarsi, fatta eccezione per una tazza di caffè. Scuotendo il capo, scacciò quel pensiero fuorviante. Prima fosse riuscita a raggiungere la sua camera, prima avrebbe potuto concludere questa giornata frenetica con una doccia tiepida, un suo vassoio di cibo e un letto morbido.
E, se avesse fatto finta di dover consegnare il carrello del servizio in camera, avrebbe avuto la possibilità di passare quasi inosservata. C’era perfino una giacca di quelle usate dal personale dell’hotel appoggiata sul manico e un foglietto che indicava la suite 5A come destinazione delle vivande.
Il rumore delle porte dell’ascensore che si aprivano la spronò a entrare in azione.
Mari si infilò la giacca verde scuro di un paio di taglie più grande sul suo tailleur nero spiegazzato. Un berretto da Babbo Natale rosso si materializzò da sotto l’uniforme dell’albergo. Ottimo. Con questo, il travestimento sarebbe stato perfetto. Si calcò il copricapo sui capelli che teneva raccolti per questione di comodità e si apprestava a spingere il carrello verso la suite in fondo al corridoio, quando delle voci si levarono alle sue spalle.
«L’avete vista?» chiese in portoghese una giovinetta dalla voce stridula che riecheggiò giù per il corridoio. «Pensavo aveste detto che era corsa su per le scale.»
«E se si fosse fermata a un piano intermedio?» le rispose un’altra ragazzina.
«No, sono certa che è qui al quinto piano» sentenziò una terza voce. «Tenete pronti i cellulari. Potremmo vendere eventuali foto per una piccola fortuna.»
Scordatevelo.
Mari spinse il carrello. I piatti sbatacchiarono e le ruote cigolarono. Maledizione, quell’arnese era più pesante di quanto non sembrasse. Puntando i tacchi, riuscì a far acquisire velocità al carrello. Passo dopo passo, superate alcune maschere tribali appese alle pareti e una fioriera a forma di elefante, vide profilarsi la suite 5A.
Il trio di cospiratrici si appropinquò. «Forse potremmo chiedere alla signora con il carrello se l’ha vista...»
A Mari, l’apprensione fece drizzare i capelli sulla nuca. Le foto sarebbero state ancora più umilianti se si fosse fatta sorprendere travestita così. Doveva assolutamente entrare nella suite 5A. Adesso. La targhetta di ottone numerata le disse che era giunta a destinazione.
Mari bussò due volte, in rapida successione.
«Servizio in camera» annunciò, tenendo bassa la testa.
I secondi sembrarono scorrere lenti. Il rischio di entrare spacciandosi per quello che non era ed essere smascherata le sembrava decisamente meno deprimente che indugiare qui fuori con un gruppo di ragazzine alle calcagna.
Proprio mentre stava per essere assalita dal panico, grazie al cielo, la porta si spalancò. Mari si precipitò dentro e, mentre tendeva le braccia nello sforzo di mandare avanti il pesante carrello, le giunse al naso una zaffata di bagnoschiuma maschile. Era la sua profumazione preferita, fresca e frizzante, per nulla dolciastra o nauseante. Per poco non incespicò.
Cadere mentre spingeva il carrello non sarebbe stato affatto dignitoso. Ma era sempre stata troppo secca e allampanata per essere una ragazza glamour. Era piuttosto un tipo intellettuale, orgogliosa e imbranata, con grande frustrazione dell’addetto stampa di famiglia, che si aspettava da lei che si presentasse sempre in modo impeccabile.
Pur nella fretta e furia di entrare, venne stuzzicata dalla curiosità. Che tipo di uomo era quello che sceglieva una profumazione tanto semplice, soggiornando in un luogo così lussuoso?
Suo malgrado, non si azzardò nemmeno a dargli una sbirciatina. Scrutò invece velocemente la suite in cerca di eventuali ulteriori occupanti, anche se il carrello del servizio in camera aveva un singolo pasto. Un pasto molto sostanzioso, pensò spingendo il carrello sferragliante oltre un leone intagliato nel legno. La stanza sembrava vuota, le luci soffuse. Dei divani in pelle dall’aspetto morbido e un tavolo massiccio riempivano lo spazio principale. Le tapparelle della finestra panoramica a tutta parete erano state sollevate per poter godere della vista della spiaggia sottostante illuminata dalla luna. Le luci delle stelle e quelle degli yacht punteggiavano l’orizzonte. Palme e alberi da frutta cui erano state appese delle lanterne illuminavano il tratto di litorale davanti all’albergo.
Mari si schiarì la gola e indicò il tavolo accanto alla vetrata. «Metto lì?»
«Grazie» le rispose una voce profonda e spaventosamente familiare che la bloccò sui suoi passi. «Lasci pure tutto quanto accanto al caminetto.»
Al cervello di Mari ci volle meno di un secondo per elaborare quella tonalità da basso, identificandone il proprietario. Un brivido gelido le corse giù per la schiena, come se la neve fosse in qualche modo comparsa a dare un tocco anomalo al Natale africano.
Non ebbe bisogno di voltarsi per aver conferma dello scherzo che le aveva tirato il fato. Era sfuggita a una seccatura per gettarsi in bocca a una ben peggiore. Fra le tante suite in cui avrebbe potuto entrare, era finita proprio in quella del dottor Rowan Boothe.
La sua nemesi professionale.
Un medico i cui ritrovati lei non aveva fatto che ridicolizzare in pubblico.
Cosa diamine ci faceva qui? Mari aveva esaminato l’intero programma con i vari relatori e avrebbe giurato che non dovesse intervenire prima della fine della settimana.
Chiusa la porta con un clic metallico, lui avanzò lentamente ma inesorabilmente, portando con sé il suo inebriante profumo. Mari tenne il viso abbassato, studiandogli i mocassini e il bordo dei jeans sbiaditi ad arte.
E si aggrappò alla speranza che non la riconoscesse. «Allora le lascio qui la sua cena» disse, in preda al panico. «Le auguro una buona serata.»
Il corpo alto e solido di lui le sbarrò il passo. Dio, era finita dalla padella alla brace. Gli occhi le corsero a quel torace prestante.
Un torace muscoloso, fasciato da una camicia bianca dal collo button down e dalle maniche arrotolate portata fuori dai jeans. Mari ricordava bene ogni singolo centimetro di quel fisico in piena forma.
Pregava solo che lui non ricordasse altrettanto bene il loro ultimo incontro, avvenuto cinque mesi prima a una conferenza a Londra. Oh, si sentiva già accaldata per l’imbarazzo.
Mari tenne il volto abbassato, non avendo bisogno di guardarlo ulteriormente per ricordare il suo bel viso. Abbronzato dal sole, aveva un aspetto affascinante, da novello Brad Pitt. L’unico particolare fuori posto erano i capelli biondo scuro vagamente ribelli per un medico ma, d’altra parte, era un tipo troppo impegnato nelle sue attività