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Il giro della Puglia in 501 luoghi
Il giro della Puglia in 501 luoghi
Il giro della Puglia in 501 luoghi
E-book1.377 pagine9 ore

Il giro della Puglia in 501 luoghi

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Info su questo ebook

Una terra d’incanto tutta da scoprire
Un viaggio straordinario in una terra dai mille volti

Puglia aggrappata alla terra ma allungata sul mare, per lo più pianeggiante, povera di acque superficiali ma ricca di fenomeni carsici. Incisa da antichi fiumi e dal secolare cammino di greggi e pastori, solcata dall’incessante andirivieni di mercanti, crociati e pellegrini, conquistata da re, imperatori, vescovi e briganti, abitata da dèi, eroi, santi e marinai. Dove i colori sono una categoria dello spirito e gli orizzonti mutano continuamente insieme al viaggio. Puglia terra di luce e di coni d’ombra, di castelli, cattedrali, grotte e trulli, di borghi storici e città d’arte, di pietre, d’olivi, d’acqua e di vento, di antichi mestieri, saperi e sapori, di miti, leggende, fantasmi e miracoli. Tutto comincia da qui per approdare in 501 luoghi, spesso inaspettati, di una regione dal fascino irresistibile.

Il subappennino dauno. Monti Dauni, principi, vescovi e briganti
Foggia e il tavoliere. Capitanata, granaio d’Italia
Il Gargano e le isole Tremiti. La montagna sacra, i borghi, il mare
La piana dell’Ofanto. La Puglia imperiale
Le Murge. Il carso di Puglia
Bari, la sua costa e l’entroterra. Città con vista (sull’Adriatico)
Valle d’Itria. Il sud-est barese e la Murgia dei trulli
Brindisi e l’alto Salento. Dagli ulivi al mare
L’arco ionico tarantino. Tra Magna Grecia e habitat rupestre
Lecce e la piana messapica. Non solo barocco
Dall’Adriatico allo Ionio. La Grecìa e le mille facce del Salento
Finibus terrae. I luoghi di confine
Stefania Mola
è nata a Napoli e vive a Bari dove lavora in campo editoriale. Specializzata in storia dell’arte, ha al suo attivo svariate attività e collaborazioni nel settore dei beni culturali e del turismo, nonché numerose pubblicazioni riguardanti soprattutto la Puglia e il suo territorio, tra cui: Foggia. Regina di Capitanata (a cura di); Puglia. Turismo Storia Arte Folklore; Trani. La cattedrale e per la Newton Compton Il giro della puglia in 501 luoghi.
LinguaItaliano
Data di uscita26 nov 2015
ISBN9788854188006
Il giro della Puglia in 501 luoghi

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    Anteprima del libro

    Il giro della Puglia in 501 luoghi - Stefania Mola

    COLOPHON

    Illustrazioni di Serena Ficca

    Prima edizione ebook: novembre 2015

    © 2015 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-8800-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di 8x8 s.r.l. di Massimiliano D’Affronto

    FRONTESPIZIO

    DEDICA

    A mia madre, radice di tutti i luoghi

    INTRODUZIONE

    Introduzione

    «Questo vi Puglia non è un viaggio, ma tanti viaggi».

    Cesare Brandi, Pellegrino di Puglia

    Ci sono molti modi per amare la Puglia. Uno di questi è raccontarla, come ho cercato di fare in questo giro attraverso luoghi noti ma anche insoliti, significativi o inaspettati. Giungendo alla conclusione che questa non è la terra del ritorno: in Puglia è sempre la prima volta, anche se ci si è già stati cento volte.

    Lo stesso vale per me, dunque, che mi sono presa l’insidiosa responsabilità di scegliere i 501 luoghi di questa regione a mio avviso emblematici, sfoltendo impietosamente una lista che ne comprendeva molti di più e sapendo sin dall’inizio che comunque avessi scelto avrei finito per scontentare più d’uno (tutti coloro i quali – ognuno per la sua parte di campanile – non ci metteranno molto a scovare le omissioni). Certo, nell’elenco finale molti di questi luoghi sono davvero – oggettivamente – rappresentativi rispetto a quell’idea di Puglia che è legittimo aspettarsi. L’idea, appunto, viziata dalle cartoline o dai cliché e spesso superata dalla realtà o dalle emozioni: perché la Puglia non è solo mare, trulli o taranta, ma anche un’aura particolare che avvolge persino le mete più tradizionali. E molte sorprese, che le parole di queste pagine si limitano a evocare invitando a non dare nulla per scontato.

    Probabilmente questo libro potrebbe assomigliare a una guida, ma il viaggio attraverso i 501 luoghi fluisce rapidamente da nord a sud assecondando la geografia storica senza nemmeno troppe istruzioni per l’uso, poiché tali luoghi non sono soltanto quelli fisici e individuabili su una mappa, bensì anche qualcosa di più sfuggente e legato a prospettive del tutto soggettive. A volte si tratta di luoghi letterari, o di luoghi attraversati dalla memoria tradizionale, altre ancora di divagazioni che i luoghi fisici offrono e/o ospitano, benché a margine, quando non – infine – di un personaggio o semplicemente di una storia.

    So bene ciò che manca, e tuttavia mi piacerebbe che fosse apprezzato ciò che c’è: una Puglia multiforme, sorprendente e declinabile, dalle mille sfaccettature e dagli evidenti contrasti, isola e penisola insieme, saldamente ancorata all’Europa e già in fuga verso oriente, ombelico dell’universo euromediterraneo e contemporaneamente terra di confini – non «un luogo dove il mondo finisce, ma quello dove i diversi si toccano» (per dirla in sintonia con il pensiero meridiano di Franco Cassano). Dunque non solo la terra arcaica che ha affascinato generazioni di studiosi e viaggiatori, non solo mare, distese di olivi a perdita d’occhio, città costiere, cattedrali, castelli, masserie, trulli, grotte, incredibili paesaggi carsici modellati dall’acqua o pietra leccese modellata dall’uomo, patrimoni unesco o della tradizione popolare.

    Alla fine tocca ai lettori-viaggiatori, se è vero che un libro appartiene per metà a chi lo scrive e per metà a chi lo legge, esattamente come questo viaggio in Puglia è «tanti viaggi» (per dirla con il pellegrino Cesare Brandi). Tocca a loro provare a conoscerla, che è poi ancora un altro modo di amarla.

    I. Capitanata

    Il Subappennino dauno. Monti dauni, principi, vescovi e briganti

    Subappennino dauno. Il nuovo Pugliashire

    Qualunque idea abbiate della Puglia, preparatevi a cambiarla. Il paesaggio del Subappennino dauno, per esempio, introduce uno dei suoi scenari più inconsueti; è la propaggine pugliese dell’Appennino, incrostata nell’area nord-occidentale al confine con la Campania, fatta di dolci paesaggi collinari punteggiati di torri, querce e faggi, profumi dimenticati. Sul Subappennino la Puglia del Mediterraneo e della calce si trasforma in orizzonte montano di borghi in pietra e tetti di tegole rosse. I campi di grano lasciano spazio a boschi selvaggi in cui si nascondono volpi e cinghiali. E la Puglia da cartolina che abbiamo sempre immaginato – fatta di sole, di mare e di trulli – scompare. Al suo posto, una terra costellata di bandiere arancioni e vivere quieto ribattezzata Toscana del Sud, ricca di torri e di cittadine-presepe profumate di aria pulita e di sapori riscoperti: da Sant’Agata di Puglia a Pietramontecorvino, da Alberona a Orsara, mete da perfetto relax ancora poco conosciute ma già avviate a rappresentare l’immagine alternativa della regione.

    Chi volesse sottrarsi allo stress e all’inquinamento, al caldo afoso della pianura, ai ritmi convulsi della città, trova in questo angolo di paradiso l’atmosfera magica di paesaggi ancora veri, la bellezza serena della natura, il verde e il silenzio delle valli e dei monti. Lo avreste mai detto? Testimonianze monumentali sparse un po’ ovunque sul territorio ne fanno una terra dove la civiltà delle torri si è espressa in maniera compiuta e predominante: a parte le massicce fortificazioni di Lucera e di Bovino, ad Ascoli Satriano c’è un palazzo ducale, a Casalnuovo Monterotaro i resti dell’antico castello, a Celenza Valfortore il castello dei Gambacorta con torrione cilindrico, a Deliceto lo stupendo castello normanno con l’altissimo torrione e il cammino di ronda, a Orsara il torrione del castello di Calatrava, a Pietramontecorvino il castello di Carolus con lo svettante torrione quadrangolare merlato, a Rocchetta Sant’Antonio il castello baronale con il torrione a mandorla, a Sant’Agata di Puglia il castello medievale, a San Marco la Catola la residenza fortificata ducale dei Pignatelli, a Volturara Appula la residenza fortificata dei feudatari Caracciolo. La torre marchesale di Roseto, le torri di Castelluccio Valmaggiore e di Tertiveri, il palazzo del Gran priore di Alberona, le tante masserie fortificate, completano il panorama di testimonianze della storia antica e affascinante di una terra perennemente in difesa.

    Accadia. I Sassi del rione Fossi

    Accadia è arrivata neanche cent’anni fa dalla provincia di Avellino ed è rimasta, insieme a Foggia, a condividere con un pugno di altri borghi vicini la sorte di adagiarsi nel verde del Subappennino dauno a circa seicento metri di altitudine. A condividerne la storia di una fondazione antica (sulle rovine di un tempio dedicato a Eca, si dice) e di ripetute distruzioni a opera dei terremoti. A preservare al meglio la propria identità urbanistica e architettonica in tempi in cui i viaggiatori hanno ricominciato a cercare valori e ritmi di una volta.

    Ecco allora il rione Fossi, accessibile dal monumentale arco di porta di Capo: un mosaico di grotte (anche preistoriche) e di antiche case oggi in via di parziale ristrutturazione dopo che un terremoto nel 1962 lo ha gravemente danneggiato. Quello che era un quartiere destinato a scomparire oggi è un vero e proprio gioiello urbanistico, con quella sua forma a chiocciola in cui si intrecciano vicoli e stradine ad andamento tortuoso. Tra qualche anno potrà tornare lentamente a ripopolarsi, anche se non in maniera stabile, anche se magari di turisti e viaggiatori. Certo, sarebbe bellissimo portare qui nuovi residenti, ma è una sfida forse al di sopra delle possibilità, benché proprio il rione Fossi rappresenti l’aspetto più affascinante del borgo per il tipo di abitazioni, molte delle quali – come i ben più celebri Sassi di Matera – scavate nella roccia. Qui come altrove, nel Subappennino, viene in mente ciò che Franco Arminio ha ribattezzato paesologia: «uno sguardo lento, dilatato, verso queste creature che per secoli sono rimaste identiche a se stesse e ora sono in fuga dalla loro forma».

    Sant’Agata di Puglia. Il borgo e il castello

    Il paesaggio ha un orizzonte abbagliante dalla Loggia della Puglia. Intorno al paese è tutto pulito, arato di fresco, con i colori intonati alla stagione. D’inverno marrone chiaro, più scuro dopo l’aratura, poi verde e infine colore dell’oro. Paese di grano e di vento, Sant’Agata sembra una gigantesca chiocciola adagiata sulla cima del suo colle, che gioca a nascondino curva dopo curva, mentre ci si avvicina.

    Con una progressione lenta il borgo si avvolge a spirale intorno a vicoli, ripide scalinate, archi, torrette, campanili, case di pietra e portali adorni di stemmi gentilizi, ricalcando il profilo del colle. A giudicare dai palazzi nobiliari, si direbbe che i potenti di ogni epoca amassero l’aria buona del Subappennino. La cinta più antica racchiude e protegge su tre lati il castello, rocca inespugnabile fin dall’epoca longobarda e per tutto il Medioevo, in seguito ingentilito e trasformato in dimora di duchi e di marchesi.

    Sul versante sud-orientale del monte si sviluppa il borgo, con le case che a tratti si fondono con le fortificazioni, mescolandosi a bastioni e torri, e le mura che si duplicano affiancando ogni successiva espansione. La seconda cinta si ferma a valle, alla Porta nuova, con un abbraccio protettivo che non dimentica neppure l’ultima delle sue case. Nella cittadella medievale ci sono una decina di chiese, la matrice dedicata a san Nicola e una serie di tesori d’arte e devozione che non ti aspetti, tra dipinti, stucchi, statue e manufatti lignei d’ogni epoca. Un insieme così omogeneo che il patrimonio scultoreo del borgo realizzato dagli scalpellini locali costituisce il cosiddetto Parco urbano delle opere in pietra.

    E quando si osserva Sant’Agata dall’alto del suo castello imperiale si resta colpiti dalla compattezza dei suoi tetti uguali a decenni fa: solo comignoli, tegole rosse, campanili svettanti e nessuna concessione alla modernità slegata dal senso storico, con il Tavoliere ai suoi piedi, la valle del Calaggio, i confini dell’Irpinia, la Lucania e la Daunia e la strada che è solo un filo sottile che si perde nel bosco. Con questo spirito appartato si spiegano le tante botteghe di prodotti tradizionali agroalimentari e di artigianato, il recente recupero di un antico frantoio che ha permesso la costituzione di un Museo dell’olio e la presenza di un Museo etnografico della civiltà contadina, nel quale l’abbondanza di testimonianze – ferri, cordami, attrezzi spesso incomprensibili che trasudano fatiche secolari – è ordinatamente allineata e classificata fino a provocare nel visitatore una sorta di vertigine della lista. Ci sono fiori dappertutto, a illuminare persino quella che un tempo è stata una vita quotidiana difficile e che oggi attrae i viaggiatori restituendo ritmi e tempi perduti. Rampicano sulle pareti delle case, si appoggiano stanchi tra una fessura e una pietra sporgente, celano la moderna intrusione di un tubo o di un contatore, accompagnano la salita di gradini e ringhiere. Soprattutto, proiettano ombre lunghe sulla superficie scabra degli intonaci disegnando una suggestiva vita riflessa parallela a quella scandita dalla luce. In alcune ore la vegetazione domestica è un popolo a sé nelle viuzze del borgo, e respira silenziosa l’assenza degli uomini.

    Rocchetta Sant’Antonio. Il borgo degli spiriti

    Un altro paese del vento (e delle pale eoliche), oltre che dell’acqua e delle fontane. Rocchetta raccoglie intorno a sé lo spettacolo della natura, o almeno così appare a quanti ormai lo hanno dimenticato: vegetazione rigogliosa a profusione, roverelle e rapaci, persino qualche lupo appenninico (dicono). Francesco De Sanctis nel 1875 l’aveva chiamata poetica, piacevolmente colpito dalla serenità sprigionata dal borgo e dai suoi abitanti. Una vivibilità e un’armonia che ancora fortunatamente si colgono – anche nel meritato riconoscimento di bandiera arancione – nonostante le origini ormai lontane.

    La tradizione vuole infatti che il castrum Sancti Antimi (questo l’antico nome di Rocchetta, derivato direttamente dalla rocca del x secolo) sia stato fondato in età normanna. L’attuale castello baronale, di proprietà privata, è tuttavia più tardo. Fu il feudatario Ladislao ii d’Aquino a erigere all’inizio del xvi secolo un nuovo castello – da destinare a propria dimora più che alla difesa – caratterizzato da soluzioni architettoniche moderne (come il torrione a mandorla). Una struttura imponente dalle linee gentili, si potrebbe dire, sorta nel punto più alto di uno sperone roccioso a strapiombo a gettare la propria ombra sulle minuscole case sottostanti.

    Gli amanti del mistero troveranno pane per i loro denti: sembra infatti che il castello d’Aquino ospiti il fantasma di una giovane sposa mancata, morta alla vigilia delle sue nozze con uno dei marchesi della famiglia e invano attesa all’altare. Un fantasma che pare si manifesti alla vigilia di ogni nuovo matrimonio in paese e che è in buona compagnia di tutte le malombre che animano Rocchetta, ovvero le anime dei morti per disgrazia condannate a vagare per le sue strade fino a quello che sarebbe stato il giorno della loro morte naturale.

    Ascoli Satriano. Il ponte romano sul Carapelle

    Passeggiare ad Ascoli Satriano e dintorni significa essere sottoposti a un continuo viaggio nel tempo. Situata su un’altura che domina la valle del Carapelle, raccoglie nitidi gli echi del suo passato dauno e poi romano soprattutto in anni recenti. Forse non tutti sanno che la proverbiale vittoria di Pirro ha avuto luogo in una delle sue vallate, quando nel 279 a.C. il re dell’Epiro sconfisse i romani in una battaglia tanto effimera quanto esagerata (sotto ogni punto di vista, per costi e per perdite). E che la villa tardoantica di Faragola, riemersa dalla terra a partire dal 2003 e inizialmente – per la ricchezza decorativa – creduta una basilica paleocristiana, con i suoi oltre cinquecento metri quadri di terme rivestite di mosaico e le sue raffinate decorazioni, rappresenta una delle testimonianze d’età romana più preziose e importanti della regione. E che un ponte romano voluto dall’imperatore Traiano per Ausculum, forse l’unico nella Capitanata giunto fino ai nostri giorni quasi intatto e in uso dopo diciannove secoli dalla sua costruzione, sonnecchia indisturbato a breve distanza dall’abitato.

    Per raggiungerlo serve la strada provinciale 105, nel punto in cui scavalca il Carapelle. Attenzione, non aspettatevi un fiume di chissà quale impeto. Il Carapelle è un torrente, e da marzo a ottobre l’unico segno della sua presenza sono le anse larghe e pigre che la vegetazione disegna sulla terra assetata. Però il ponte c’è, in pietra, a tre arcate, semiaffondato nel verde, integro e pronto a traghettarvi al di là o al di qua di una storia di grande fascino.

    Ascoli Satriano. I grifoni e il Parco archeologico dei dauni

    Chi abbia avuto la fortuna di ammirarli nel padiglione Italia dell’Expo 2015 (insieme ad altri capolavori dell’arte e dell’archeologia nazionali) probabilmente non immagina la vita avventurosa di questa strana coppia di grifoni sontuosi e regali datati al iv secolo a.C. Ora che sono tornati a casa ad Ascoli Satriano, nel Museo civico Pasquale Rosario ospitato nel complesso monumentale di Santa Maria del Popolo, all’interno della sezione Policromie del sublime in una sala buia in cui la luce fa emergere i soli marmi pregiati che la abitano, la forza e l’eleganza di questa scena (che in sé è una scena di violenza, trattandosi di due grifoni che uccidono una cerva) sono pronte a vivere anche un po’ di rendita dopo aver solleticato la curiosità e suscitato la meraviglia, e soprattutto dopo essere state oggetto di un trafugamento negli anni Settanta, di una illecita vendita al Getty Museum di Malibu e di un doveroso recupero nel 2007 da parte di carabinieri e Guardia di finanza.

    I grifoni, in prezioso marmo dell’Anatolia (e precisamente di Afrodisia, in Caria, nell’attuale Turchia) fanno parte di un insieme noto come marmi di Ascoli Satriano, proveniente dal corredo di una tomba a camera dell’élite principesca dauna, e costituivano il sostegno (trapezophoros) per una mensa utilizzata come tavola per le offerte rituali.

    La Daunia, di cui Ascoli Satriano faceva parte, coincideva grosso modo con l’attuale provincia di Foggia al tempo in cui (i millennio a.C.) vi si stabilì una popolazione di origine illirica governata dal re Dauno che diede impulso e forma a numerosi centri urbani (Monte Saraceno sul Gargano, Salapia, poco a sud delle attuali saline di Margherita di Savoia) e allo sviluppo di alcune splendide forme artistiche.

    Uno splendore che spesso fu lusso: basta guardare i corredi funerari ritrovati sulla collina del Serpente (oggi Parco archeologico) dove esisteva un importante insediamento. Contenitori in vetro per balsami e profumi, vasi e anfore in ceramica o marmo, gioielli d’oro, d’argento e di bronzo, raccolti in una esposizione permanente intitolata significativamente Lo spreco necessario.

    Deliceto. La città del Natale

    Lo skyline di Deliceto è disegnato dalla sagoma possente del castello e del suo mastio, ma quello della sua anima è dominato dai santi. Non tanto per gli edifici di culto, quanto per una curiosità poetica. Nel bosco della valle in Vincoli, a un paio di chilometri a sud dell’abitato, alla fine del Quattrocento venne fondato dal beato Felice da Corsano e da alcuni suoi confratelli (e con il contributo del marchese Piccolomini) il convento della Consolazione. Immerso nella natura, solitario e maestoso, è un luogo impregnato di storia e avvolto di mistero e spiritualità, luogo di santi perché lì vissero per alcuni anni nel Settecento sant’Alfonso Maria de’ Liguori e san Gerardo Maiella.

    La curiosità poetica riguarda proprio sant’Alfonso de’ Liguori, che nel convento della Consolazione ha scritto la sua Teologia morale, ma ha soprattutto composto in lingua napoletana la pastorale Quanno nascette Ninno, da cui deriva il celebre canto natalizio Tu scendi dalle stelle. Facendo di Deliceto la città del Natale, ogni anno a dicembre, quando il borgo acquista incanto e poesia anche grazie al mercatino in tema e al presepe vivente.

    Bovino. Il borgo delle sette chiese

    Duchi, vescovi e banditi. In questa sintesi oscura e suggestiva è racchiusa l’immagine di Bovino, «paese che scherza col cielo», uno dei borghi più belli d’Italia, appollaiata a poco più di seicento metri di altitudine al confine tra la Daunia e l’Irpinia, immersa in un territorio ricco di boschi e di sorgenti d’acqua in posizione strategica dominante la valle del torrente Cervaro. È l’antica Vibinum, importante città in epoca romana e medievale, e non è un caso che sorga proprio lì dov’è, appartata e tuttavia incombente. Vigile e guardinga. Attraverso il valico di Bovino, nel cuore del Subappennino dauno, passa infatti la vecchia strada che conduceva a Benevento, Napoli e quindi a Roma, sulla quale si spostavano gli uomini, le idee e gli interessi per cui la città costituì una sorta di tappa obbligata, alla quale nulla sfuggiva.

    Ci si inerpica nel verde profondo di querce e lecci incorniciato dall’argento degli olivi, in un’ascesa lenta che taglia i boschi di Salecchia, della Fenna e di Valleverde. In quest’ultimo sprofonda silenzioso un santuario moderno, legato alla devozione di una Madonna benevolente che scelse questo luogo per elargire la sua protezione. Pochi colori tersi e molta luce diffusa, qui sulle pietre di Bovino, sugli strati di Storia e storie aggrappati alle sue mura urbiche, ai muri della sua dimora ducale e delle sue sette chiese, delle sue case affacciate su un dedalo di strette vie acciottolate che sfuggono inerpicandosi sulle scalette, insinuandosi nelle corti, sgattaiolando sotto gli archi.

    Sette chiese a Bovino, si diceva, tra quella di San Pietro, il Rosario, l’Annunziata, il Carmine, San Francesco e la neoclassica Santa Maria delle Grazie. Prima fra tutte, però, la cattedrale, antica quanto basta ad appartenere a un altro millennio ancora (quando si pensa a prima del Mille è quasi un brivido), ristrutturata e parzialmente modificata per l’annessione della chiesetta di San Marco che le si addossa dal lato del presbiterio.

    Bovino. Il castello dei duchi

    A

    Bovino, per secoli feudo dei Guevara, ci accoglie il castello ducale, innestato su uno sperone roccioso a guardia del vallo di Bovino, versione moderna di un antico avamposto fortificato romano già attestato dai resti delle mura difensive di quell’epoca che ancora si possono vedere nel rione Portella. Prima che fosse baluardo di longobardi e bizantini. Prima che arrivasse Drogone, conte normanno di Puglia, con i suoi uomini del Nord, e lo ricostruisse dalle fondamenta insieme all’imponente torre cilindrica che ancora possiamo vedere. Prima delle ristrutturazioni di Federico ii di Svevia nel Duecento, e dei soggiorni del figlio Manfredi, quello biondo, bello e di gentile aspetto che morì tragicamente nella battaglia di Benevento. E prima ancora che le necessità residenziali dei duchi Guevara, arbitri assoluti per circa tre secoli all’ombra del castello, ne ingentilissero la sua austerità, trasformandolo – a partire dal 1575 – in sontuosa dimora gentilizia, con stanze che ancora conservano fascino e arredi d’epoca, con la piccola cappella privata pavimentata in maiolica nella quale i Guevara custodivano un frammento della Sacra spina e altre reliquie preziose.

    Un’austerità che ancora oggi si nasconde dietro l’aspetto arcigno e minaccioso, appena mitigato dal fatto che da qualche anno il castello è diventato una fascinosa struttura ricettiva, affidata a una cooperativa del luogo, e in nome dell’ospitalità spalanca benevolmente le porte su una storia plurisecolare.

    Bovino. Il santuario di Valleverde

    Il santuario di Valleverde sorse nel 1265 a poco più di tre chilometri dall’abitato, immerso tra le querce e i lecci del bosco di Mengaga, grazie all’iniziativa del vescovo Giovanni Battista sollecitato dalle ripetute apparizioni della Vergine al taglialegna bovinese Nicolò. La documentazione attesta la presenza di ben dodici vescovi – compreso quello di Bovino – convenuti da Ascoli Satriano, Lucera, Melfi, Bisaccia, Rapolla, Volturara, Monte Verde, Troia, Lacedonia, Termoli e Lesina per la benedizione della prima pietra. Affidata nel 1287 dal vescovo Mainerio ii ai cistercensi di Santa Maria di Ripalta sul Fortore, la chiesa di Santa Maria di Valleverde – ormai dotata di strutture conventuali – venne da essi retta e amministrata fino al 1608 in qualità di grangia della casa madre. Alla soppressione del monastero di Ripalta seguì dunque quella del conventino di Valleverde; nel 1658 la chiesa fu eretta in beneficio badiale dal vescovo Vincenzo Roviglione, dal 1745 venne direttamente affidata alle cure dei Mansionari del duomo e in seguito a quelle dei Minori osservanti.

    Oggi è un moderno santuario, sprofondato e quasi invisibile nel silenzio del verde circostante se non fosse per la sua guglia slanciata che segna il luogo di una grande devozione abitato dalla veneratissima statua lignea della Madonna che ogni anno, il 29 agosto, sfila in processione nel bosco e nel paese sotto una pioggia di petali e di preghiere.

    Orsara di Puglia. Il borgo dei saperi e dei sapori

    Siamo già nei boschi che cingono Orsara e nel territorio del torrente Cervaro, linea di confine con il territorio di Bovino che abbiamo appena lasciato alle spalle. Fa una certa impressione che il toponimo Orsara possa indicare la presenza di orsi nei dintorni; per il momento, l’unico che resta è nel suo stemma civico, e può bastare.

    Il borgo appare meno antico di quanto la sua storia racconti, ma non manca di angoli fortemente suggestivi, minuscole piazzette e stradine lastricate in pietra in cui facilmente si annusano fragranze di cibi in preparazione nelle case o in uno degli antichi forni. Ci sono cespugli di gerani rigogliosi accanto agli usci o sui gradini. Alcuni schizzano letteralmente da minuscoli balconcini di cui occultano completamente la ringhiera, ma anche da finestrine o nicchie… ovunque ci sia una rientranza da cui possano debordare. Vasi fioriti e verdissimi tappeti di rampicanti sono a volte l’unico segno di vita quando i muri scrostati o le vecchie porte in legno fradicio sembrano raccontare solo l’assenza. E gli oleandri, per una volta addomesticati invece che selvaggi ai bordi dell’autostrada.

    C’è un palazzo baronale del Duecento, riconoscibile da un poderoso torrione, dove abitarono i Guevara, signori (anche) di Orsara. C’è un’abbazia dell’xi secolo, dedicata a sant’Angelo ma detta anche dell’Annunziata. C’è pure qui una grotta dedicata all’arcangelo Michele, dentro il complesso conventuale di San Domenico, per secoli sede dell’antico ordine militare dei monaci spagnoli di Calatrava. E c’è infine un piccolo museo civico pieno di storie antichissime, come solo le ceramiche, le lucerne, i monili e le epigrafi possono raccontarle.

    Ma Orsara è tutto questo e anche di più. I sapori fanno letteralmente da padroni: cacioricotta caprino, asparagi, pane, vino, tutti protetti dal marchio Cittàslow di Slow Food. E un bel po’ di occasioni in cui procedere ai doverosi assaggi: su tutte, la cucina con i piedi per terra di Peppe Zullo, il cuoco-contadino di fama internazionale che segue il ritmo lento dei cicli stagionali rendendo onore al territorio. E che, nel caso, dà anche la possibilità di fermarsi a dormire, come ogni cena indimenticabile richiede prima di rituffarsi nei ritmi frenetici del quotidiano.

    11. Orsara di Puglia.

    Il borgo dei saperi e dei sapori.

    Orsara di Puglia. Le zucche di Ognissanti

    AOrsara appartiene un’antica tradizione legata alla festività dei morti. Richiama Halloween, ma nulla ha a che fare con le mostruosità importate in tempi recenti da oltreoceano. Nella notte tra la festa di Ognissanti e il giorno dei morti, molte finestre del paese presentano in bella vista zucche intagliate e illuminate (le cocce priatorje , ovvero teste del purgatorio), le teste dei defunti di famiglia, secondo una tradizione che in questo paese ricordano da tempo immemorabile, e che l’America potrebbe persino aver mutuato dai tanti emigrati del Sud. Così, almeno, tengono a sottolineare i vecchi, che ricordano già i loro nonni intenti a festeggiare la vigilia di Ognissanti con le zucche distribuite nelle vie del paese. Ma non è Halloween, ci tengono a dire.

    Quello che sopravvive qui e che si svolge in queste ore è un antico rito pagano riconvertito che conserva ancora il nome originario di Fuuc acost. Una festa tra sacro e profano, non solo zucche ma anche falò e cibo condiviso intorno al fuoco, menestrelli e saltimbanchi. Una festa che recenti ricerche fanno risalire a duemila anni fa, quando i contadini festeggiavano il raccolto il 31 ottobre, e prima che il cristianesimo riadattasse i riti legati a questo evento.

    Le zucche rischiarano ancora la notte più prossima al ritorno dei morti e servono a scacciare il male e le ianare (le streghe), anche con l’aiuto del rumore insistente dei tamburi, degli scongiuri, delle litanie. Il parroco benedice il fuoco purificatore che nelle piazze e agli incroci spaventa le anime dannate che si aggirano senza requie tra i vicoli e consuma i rami delle ginestre. Intorno a esso si mangiano castagne, salsicce, bruschette, patate, cotte sulle loro braci, si balla e si beve vino tuccanese, rosso e robusto erede di un antico vitigno greco.

    La tradizione impone il consumo comunitario del grano (la bianchetta), bollito dopo essere stato in acqua per quarantotto ore e insaporito con vincotto, canditi, chicchi di melograno, noci e mandorle a pezzetti. Un grano che è cibo dei defunti e simboleggia la vita e la rinascita. Ce ne sarà abbastanza da lasciarne – insieme a vassoi con dolci e vino – agli angoli delle strade, perché possa rifocillarsi, insieme ai vivi, ogni anima che silenziosamente si aggira tra le strade e i vicoli alla luce fioca delle cocce priatorje.

    Orsara di Puglia. Orsara Musica Jazz Festival

    Orsara è una città slow , prima ancora che slow food : provate, per credere, il locale pane rustico, accompagnandolo col cacioricotta di capra… Si mangia benissimo, e a chilometro zero: tredici ristoranti per un posto di tremila anime vorranno pur dire qualcosa. C’è chi caparbiamente si è messo in testa di rivalutare un vitigno autoctono quasi perduto, il tuccanese . Ma se per strada chiedi: «Cosa c’è da fare, qui?», ti rispondono in coro: «Niente». I giovani sono assai meno di un tempo, spesso se ne vanno, ma quelli rimasti si danno un gran da fare. Promuovendo e creando opportunità tese alla valorizzazione ambientale, al recupero storico e alla riscoperta delle proprie radici culturali.

    L’Orsara Jazz Festival, per esempio, uno dei festival jazz più longevi d’Italia, da più di vent’anni ad agosto porta artisti da tutto il mondo. È una rassegna di respiro così ampio da richiamare appassionati da tutta la penisola, offrendo seminari e laboratori musicali tenuti dagli stessi artisti ospiti. Un’occasione molto ghiotta: i concerti sono gratuiti e si svolgono in vari luoghi del paese. L’organizzazione coinvolge le imprese enogastronomiche locali che sostengono in qualche modo gli spettacoli e alla fine il festival è diventato negli anni un’attrazione turistica di qualità, che raccoglie appassionati e studiosi della cultura musicale e contribuisce a migliorare la vivibilità e la qualità del territorio. D’accordo, spente le luci della ribalta, la sera non c’è granché da inventarsi, ma si vive bene ed è ancora un buon posto per crescere.

    Celle San Vito. L’isola franco-provenzale

    Un eremo e le sue celle sul monte San Vito. Questa è l’origine del borgo che a un certo punto della sua storia venne abbandonato dai monaci e occupato dai coloni chiamati dagli Angiò nella seconda metà del Duecento a ripopolare la zona. Abbastanza da far mettere radici alla tradizione linguistica e culturale franco-provenzale che oggi si offre a noi a cominciare dai cartelli stradali bilingui, segno di una sopravvissuta minoranza che è unica nell’Italia peninsulare. Dall’alto lo sguardo coglie un’emozionante panoramica della valle del Celone, mentre il territorio, ricco di boschi, frutteti e sorgenti, offre la possibilità di essere esplorato a piedi, in mountain bike o a cavallo, riservando agli appassionati di trekking anche un percorso attrezzato per arrivare alla vicina Faeto o scendere verso Castelluccio Valmaggiore.

    Il borgo attuale, che è anche il più piccolo comune pugliese – superando di poco i centocinquanta abitanti – si inerpica insieme ai suoi vicoli raccogliendo un pugno di case in pietra assai caratteristiche. Le vie sono indicate in franco-provenzale su pannelli in ceramica decorata, e Arco dei Provenzali è il nome dell’antico accesso in pietra al borgo. Gli sportelli linguistici di Celle e di Faeto, da quando la minoranza franco-provenzale è stata riconosciuta, promettono di salvaguardare e conservare questo patrimonio immateriale a rischio d’estinzione. Basterà tutta questa bellezza a salvare Celle?

    Faeto. Benedetto sia il maiale

    Nel cuore del Subappennino, Faeto è il comune più alto della regione, a circa quarantotto chilometri da Foggia, appennì e Prazzùnne cùme un nitte de scèje (appeso al monte Perazzoni come un nido d’uccello). Insieme al contiguo centro di Celle di San Vito costituisce l’unica isola linguistica franco-provenzale della Puglia, la cui minoranza linguistica è stata riconosciuta dallo Stato italiano. Il suo nome viene dai boschi di faggi che la circondano, un manto verde composto anche da querce, cerri e varie latifoglie esteso per più di centocinquanta ettari, sul quale le stagioni dipingono tutti i loro colori, attraversato da sentieri e interrotto nel suo silenzio sovrano solo dallo zampillo delle numerose sorgenti d’acqua del territorio, conosciute per le spiccate proprietà diuretiche e curative.

    Sono luoghi abitati da una popolazione laboriosa e ospitale, pronta ad assecondare i richiami alla quiete, al riposo e alla buona cucina, la cui parlata è una cantilena dolce, un po’ provenzale e un po’ meridionale, chiamata patois, e le cui radici storiche e culturali affondano nei tempi della colonia angioina, quando la zona era un pezzetto di Francia abbarbicato sulle montagne del Sud. Una storia di antiche tradizioni in cui riti, credenze, superstizioni, costume, folklore hanno generato una civiltà fatta di valori essenziali; una dimensione incontaminata capace di restituire il gusto della scoperta.

    Per averne un’idea basta varcare la soglia della casa del Capitanio, oggi sede del Museo etnografico territoriale delle comunità franco-provenzali di Faeto e Celle San Vito, che riunisce testimonianze sull’artigianato, l’agricoltura e la pastorizia locali dal Seicento a oggi. Vi è allestita una raccolta di attrezzi di eccezionale interesse, usati non solo per il lavoro dei campi, ma anche per tante altre attività legate alla vita quotidiana e domestica di una civiltà prettamente contadina e pastorale. Un velo sollevato sull’oblio che in tempi recenti ha travolto la maggior parte degli antichi mestieri: non si spiegherebbe altrimenti l’orgoglio dei pochi che ancora – ad esempio – intrecciano cesti di vimini e giunchi ormai inutili all’uso domestico e tuttavia potenzialmente preziosissimi sul versante dello sviluppo turistico e culturale.

    Si lavora a pieno ritmo per coinvolgere l’intero borgo antico, raccolto intorno a una miriade di vicoli angusti e tortuosi, che si snodano alle spalle della chiesa e nelle adiacenze del municipio in un percorso costellato di archi (lo cunnùtte, le porte del paese) di suggestiva bellezza. Strade e vicoli spesso vuoti e cadenzati da un tempo quanto mai lontano dalla frenesia, che tuttavia in alcune occasioni particolari si animano in modo inusuale.

    Come accade durante la sagra del maiale d’inverno (fféte de lu Cajunne), e in quella del prosciutto d’estate. Due momenti collettivi tra bosco e paese in cui la storia e la civiltà si specchiano in un passato fatto di asprezze e rigori, in un tempo nel quale davvero – come del maiale santificato dalla festa – non si buttava via niente. Oggi si tratta di occasioni a livello di estimatori e appassionati di antiche tradizioni e buona cucina: il prosciutto di montagna tipico di Faeto è meno grasso, più saporito, in linea con il mutato gusto dei palati gourmand e con la preferenza – sempre più diffusa – accordata al prosciutto spagnolo, e viene apprezzato soprattutto perché la sua produzione è ancora squisitamente artigianale se non familiare. Una caratteristica in accordo con ogni cosa venga portata sulla tavola, come le laganelle con melanzane, la cacciagione alla griglia, i piatti a base di funghi, e – naturalmente – tutta la generosità del maiale: il famoso prosciutto, la tradizionale salsiccia tagliata a punta di coltello, la squisita soppressata, il superbo capocollo, il magrissimo filetto, la rustica pancetta tesa o arrotolata e il tipico guanciale. Le diete iniziano sempre di lunedì: se andate a Faeto, scegliete un altro giorno.

    Roseto Valfortore. La storia di Manlia e Tullio

    Èil nome che parla, a Roseto, borgo del Subappennino a 658 metri di altitudine sul fianco occidentale del monte Stilo: una bellezza che si affaccia sulla valle del fiume Fortore, un tripudio di rose selvatiche e la rosa canina nello stemma civico. Un territorio in passato punteggiato di mulini ad acqua, tra cui il più antico pare risalga al xiv secolo; con quelli sopravvissuti, alcuni dei quali restaurati, hanno costruito un piccolo itinerario lungo i sentieri nei boschi.

    Oltre all’acqua e alle rose, la pietra locale è il vanto degli scalpellini rosetani che per secoli l’hanno modellata, intagliata, scolpita disseminandola ovunque nei dettagli di palazzi, stemmi, portali che potrebbero sfuggire a un’occhiata distratta. Non sfuggono invece Tuleje e Mmaleje, effigiati ad altorilievo su due lapidi sepolcrali gentilizie ricollocate intorno al 1840 in via Sottosanti, sul lato orientale della chiesa madre. Sospesi a mezz’aria, in un sonno che pare semplicemente il riposo di una controra assolata e racconta una storia d’amore: sposi innamorati, Tullio de’ Damiani e Manlia de’ Leoni vissero nel Seicento; lui morì nel 1616, lei nel 1660.

    In un’altra versione, la storia assomiglia invece a tante altre di amori contrastati. Tuleje e Mmaleje innamorati, sì, ma lui più giovane della sua amata, un buon motivo perché le loro famiglie osteggiassero quell’amore poetico e disperato che ha fatto nascere una leggenda e ora dà il nome a una locanda inaugurata nell’estate del 2008, nel cuore del borgo antico e in particolare negli ambienti sotterranei della chiesa di Santa Maria Assunta, nel punto panoramico che sovrasta piazza Anfiteatro e affaccia sui boschi dei monti dauni. Il tutto grazie agli investimenti di quattro giovani rosetani, tra cui un imprenditore inglese con origini nel paese del miele e del tartufo, che gestiscono anche il progetto Albergo diffuso, con quindici alloggi destinati ai visitatori che, soprattutto dal Regno Unito, cominciano a scegliere Roseto Valfortore per vacanze all’insegna di gusto, benessere e contatto con la natura. Il futuro è roseo (neanche fosse un gioco di parole): un laboratorio degli antichi mestieri riporterà nel centro storico scalpellini, calzolai, tessitori, sarti e falegnami. Disse un saggio: per poter essere, bisogna essere stati.

    Castelluccio Valmaggiore. L’occhio sulla valle del Celone

    L’ alta valle del Celone fa parte di un complesso montuoso che sin dai tempi più remoti ha rappresentato un limite naturale per chiunque dalla Campania volesse giungere in Capitanata. Dal punto di vista strategico, spesso assunse il carattere di terra di mezzo e fu investita di particolari funzioni nell’ambito del presidio territoriale e del controllo logistico delle comunicazioni. Su questo territorio si consolidò in epoca preromana il limes tra sanniti e dauni, in epoca romana la via Traiana entrava in Apulia proprio attraverso il territorio di Faeto, iniziando la discesa verso la pianura di Aecae, l’attuale Troia, e nel corso del Medioevo qui correva la linea di confine tra i bizantini pugliesi e i longobardi di Benevento.

    Castelluccio Valmaggiore è uno dei maggiori centri della valle del Celone, alle pendici del monte Cornacchia, che con i suoi 1152 metri è considerato il tetto della Puglia. Il suo Belvedere offre la possibilità di godere di una vista mozzafiato sulla valle e sulle colline circostanti, permettendo allo sguardo di spaziare da Celle San Vito a Orsara, da Troia a Lucera. Nelle giornate limpide si può scorgere il mare Adriatico e il golfo di Manfredonia. Persino la sopravvivenza monumentale più antica, la torre bizantina oggi sede di un metamuseo sulle battaglie, era usata a suo tempo come punto di osservazione strategico e occhio sulla via Traiana poco distante.

    Due curiosità nel caso decideste di fermarvi qui più a lungo del previsto: al centro del borgo c’è un lavatoio, detto il Piscero, bevuta la cui acqua – secondo la tradizione – il visitatore potrà essere considerato a tutti gli effetti castelluccese. E poi, non si sa se per l’acqua, l’aria, il cibo o quale altra diavoleria, gli abitanti di Castelluccio detengono il primato assoluto di longevità. Buone notizie, insomma.

    Troia. La città guelfa

    Si chiamava Aecae , in antico, e vantava anch’essa – come la maggior parte delle città della zona – origini mitiche legate a Diomede. Come al solito era strategicamente ubicata sulla rete viaria, sicché intercettava movimenti e traffici d’ogni specie. Nell’alto Medioevo si perdono le sue tracce, ma a quei tempi significava essere stati rasi al suolo da coloro che si contendevano un territorio. Fu poi rifondata nel 1019 dal catapano bizantino Basilio Boioannes con il toponimo di Troia, insieme a Fiorentino, Civitate, Dragonara, Tertiveri e Montecorvino, città di frontiera poste a difesa del confine settentrionale della regione al quale premevano i longobardi di Benevento.

    La sua caratteristica è una storia guelfa, fin dall’inizio strettamente legata alla Chiesa. Se cercate un castello non lo troverete: Federico ii lo rase al suolo dopo che la città lo aveva dichiarato sgradito. Non intendevano giurare fedeltà all’imperatore, i troiani, e alla sua richiesta di rifornimenti di cibo per le truppe accampate nelle vicinanze risposero inviando pane duro, aceto e cipolla…

    L’altro lato della medaglia è scritto nell’arte e nell’architettura sacra, perché Troia può vantare una delle cattedrali romaniche in assoluto più belle e particolari, rifondata alla fine dell’xi secolo con l’ampliamento di un edificio più antico. Uno dei capolavori dell’architettura romanica della Capitanata non tanto per le sue proporzioni, quanto per l’armonia con cui in esso si fondono reminescenze bizantine e arabe, strettamente coniugate a una chiesa del tutto latina. Si tratta di una classica basilica a tre navate, solennemente scandita dalla fuga dei colonnati in gran parte costituiti da pregiati marmi provenienti dalle rovine della città antica. Il prospetto e il fianco destro sono impreziositi dalle porte bronzee opera del fonditore Oderisio da Benevento, realizzate rispettivamente nel 1119 e nel 1127; in quella principale convivono formelle dalle delicate incisioni con draghi e protomi leonine vigorosamente plastiche. Lo splendido rosone a undici raggi del xiii secolo, uno dei più belli d’Italia nonché vero e proprio fulcro della logica compositiva della facciata, conferisce alla parte superiore del prospetto un’eccezionale levità, esaltata dal raffinato lavoro di traforo che lo fa assomigliare a una trina d’avorio intagliato, bilanciando armoniosamente la compattezza della parte bassa della muratura, ritmata da archetti ciechi su lesene in cui si alternano oculi e losanghe. All’interno sono particolarmente interessanti i capitelli della navata, tutti originali tranne uno di riporto, ispirati a motivi classici; e il pulpito, datato 1169, fondamentale nel panorama della scultura del xii secolo tra la Capitanata e l’Abruzzo. Una curiosità: la navata centrale è divisa da dodici colonne, tante quante gli apostoli, la prima delle quali – sulla destra – affiancata da una tredicesima, simboleggiante Gesù Cristo.

    Troia. L’orgoglio civico in una porta

    La prima campagna di lavori nella cattedrale rifondata fu suggellata dunque dalla porta di bronzo firmata da Oderisio da Benevento, collocata sul prospetto principale entro il 1119, concepita e realizzata, oltre che come necessario complemento al semplice portale architravato, soprattutto per celebrare il clima trionfale che in quegli anni circondava la nuova cattedrale e il suo vescovo. Oggi splendidamente restaurata, consta di ventotto formelle quadrangolari e venti rettangolari fissate su un supporto ligneo, e venne realizzata utilizzando tanto la tecnica dell’agemina, quanto la fusione di pezzi anche a tutto tondo, con un effetto finale – in bilico tra il plastico e il pittorico – davvero sorprendente. Le immagini seguono una precisa gerarchia che, partendo dal Cristo giudice nella mandorla, si snoda attraverso i santi Pietro e Paolo, il vescovo Guglielmo, due personaggi identificati come Bernardo e Oderisio e i santi protettori della città (Secondino, Eleuterio, Ponziano e Anastasio, frutto di una sostituzione operata nel 1573 ma probabilmente ispirati alle figurazioni originali), tutti caratterizzati dalla lieve vibrazione cromatica conferita dall’agemina. Il continuo crescendo del ritmo – all’altezza del registro centrale – si fa palpabile nelle croci fogliate a rilievo basso, che con il loro morbido chiaroscuro anticipano i violenti contrasti chiaroscurali delle maschere leonine reggi-maniglia, emergenti da dischi traforati a giorno e, ancor più, dei draghi alati avviluppati come molle pronte a scattare, espressione di massima tensione plastica e punto più alto dell’intera composizione.

    Di Oderisio da Benevento, fonditore e artefice mirabile, nonché uno dei massimi protagonisti del primo romanico europeo, si sa poco; certo è che in un’epoca e in un ambiente culturale e geografico da sempre legato a Costantinopoli fu indubbiamente personaggio di grande indipendenza mentale, capace di esprimere con inusitato fervore i segni inequivocabili della grande arte dell’Occidente. Nel 1127, a soli otto anni di distanza dall’esecuzione della porta maggiore, eseguì anche la porta laterale, di minori dimensioni e più semplificata rispetto alla precedente, specchio di tempi tormentati e frutto – nella sua sobrietà – di una programmatica scelta di linguaggio che privilegiasse la rapidità di esecuzione e l’efficacia del messaggio da trasmettere: celebrare l’immagine della collettività troiana stretta attorno ai suoi vescovi ancor più nelle avversità e nella crisi. Qui la superficie del bronzo è incisa con grande semplicità ed efficacia: ventiquattro formelle con le immagini dei vescovi della città, primo fra tutti Guglielmo, e i suoi otto predecessori, vitalissime sagome fluttuanti nello spazio quasi a passo di danza che denunciano una completa adesione a modi moderni, vicini in qualche modo alle coeve espressioni plastiche della Francia di sud-ovest, o alle miniature di area anglo-normanna.

    Per l’imperatore Federico, in quest’angolo della terra da lui così tanto amata, non c’era davvero posto.

    Alberona. La fontana muta

    Dal bel Muraglione nelle giornate più terse si gode di un’ampia vista panoramica su tutto il Tavoliere fino al promontorio del Gargano, alle isole Tremiti e al mare di Manfredonia. Nella piazza principale si trova la chiesa di San Rocco, ma sono da vedere anche la chiesa madre e la Torre del Gran priore (edifici collegati da passaggi sotterranei). Alberona, già borgo più bello d’Italia incorniciato da boschi, sorgenti e dal lavoro del vento, è nata sotto il segno dell’acqua, secondo uno zodiaco dei luoghi che la pone al centro di un territorio ricco di sorgenti. Il filo dell’acqua lega in verità diversi paesi in quest’area, come testimoniano le numerosissime fontane e i tanti progetti destinati a valorizzare questo aspetto inconsueto della Puglia tradizionalmente sitibonda.

    All’ingresso del borgo si trova la cosiddetta fontana muta, dal 1824 punto di ristoro dei viandanti e cavalieri che percorrevano queste impervie strade di montagna. Il suo nome dovrebbe, correttamente interpretato, rimandare proprio alla funzione di posta per il cambio dei cavalli (mutatio), ma ai più piace interpretarlo come il suono di quelle acque che nei suoi imponenti abbeveratoi scorrono lente e silenziose, tanto che solo avvicinandosi si può sentirne lo scroscio. Il percorso dell’acqua può allargarsi alle strascionele del borgo (i vicoletti lastricati di ciottoli di fiume), che conoscono solo il tempo immobile di quassù e sono insensibili a qualunque moda che contempli tacchi e altri artifizi. Più concretamente, la passeggiata liquida prevede anche una sosta alla Fontanella, a forma di casa con tanto di tetto a spioventi, ai Pisciarelli, cannette da cui sgorga acqua pura e gelida direttamente dai monti circostanti, e al Canale dei Tigli, incastonato nel bosco tra due montagne popolate da querce, olmi, pioppi e castagni e caratterizzato dalla presenza di numerose cascatelle.

    20. Alberona. La fontana muta.

    Motta Montecorvino. La Sedia del diavolo

    Da lontano, prima di mettere effettivamente a fuoco cosa ci sia su quel colle, sembra una scultura in scala gigante. Poi ti accorgi che in realtà si tratta del rudere di una torre imponente – un donjon – quel che resta della fortificazione medievale di un insediamento scomparso di cui faceva parte anche una cattedrale intitolata a sant’Alberto, oggi patrono di Pietramontecorvino (cittadina nata dalle sue ceneri). Il vincolo archeologico e alcune campagne di scavo effettuate negli ultimi dieci anni hanno permesso di indagare l’area della chiesa, della necropoli, una parte dell’abitato e naturalmente la fortificazione del borgo di Montecorvino – città murata fondata dai bizantini nell’xi secolo e abbandonata nel tardo Medioevo – e di recuperare numerosi reperti ceramici, intonaci dipinti, maioliche, vetri decorati, monili, attrezzi da lavoro, monete, testimonianze concrete della vitalità del castrum.

    Percorrete la statale 17 che da Foggia conduce a Campobasso, nel tratto che affronta i primi pendii dei monti della Daunia, e la torre vi apparirà sulla destra, la parete nord quella meglio conservata, con un varco d’accesso defilato e un paio di finestre, quella meridionale completamente crollata, sicché l’interno – complice la parziale conservazione delle pareti a est e a ovest – si offre alla vista, con quel residuo di volta in pietra a dividere il primo dal secondo piano. Eccola lì, una sedia, creata ad arte dal tempo, scenografia metafisica e suggestiva come uno scherzo sinistro, quasi diabolico. Secondo l’appellativo popolare, la Sedia del diavolo, appunto.

    Pietramontecorvino. Il borgo e la torre

    La guardi dal basso e pensi: Come arriverò lassù?. Ma non era piana, la Puglia?

    Il paesino, con il suo nome da pronunciare tutto d’un fiato, è delizioso e accoglie sfoggiando orgogliosamente il meritato titolo di bandiera arancione e di borgo fra i più belli d’Italia. In effetti, se si esclude l’anonimato dell’espansione recente, comune a tutte le periferie urbane, Pietramontecorvino sembra essere stata capace di preservare il centro storico e l’identità di un’immagine – quella di un abitato in perfetta simbiosi con il paesaggio – che non dovrebbe essere assai mutata nei secoli.

    Pietra, come il nucleo originario del borgo fatto di grotte, come le case. Sui vicoli – che disegnano una sorta di lisca di pesce – si affacciano le vecchie abitazioni, alcune scavate direttamente nella roccia tufacea dello sperone su cui è appollaiato il paese.

    Dal tessuto compatto di piccole case che rivestono il poggio spicca il nodo monumentale del borgo, torre-palazzo-chiesa madre, con il duplice compito simbolico e protettivo. La torre normanna fresca di restauro, dall’alto dei suoi quaranta metri merli compresi, domina il panorama e fa da sentinella alle stradine medievali del rione Terravecchia, il quartiere più antico a forma di anello innervato da viuzze strette e contorte, e dall’alto la vista spazia fino al mare del Gargano. Il centro visite virtuale all’interno della torre (uno dei ventinove sparsi in tutta la Daunia) è dedicato alla transumanza e al brigantaggio, sì che il passato

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