A ritmo di sirtaki: Harmony Collezione
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Margaret Mayo
Tra le autrici piuù amate e lette dal pubblico italiano.
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A ritmo di sirtaki - Margaret Mayo
successivo.
1
Prima di bussare alla porta Lucy alzò il mento ostentando una sicurezza che era ben lungi dal provare. Erano corse molte voci in azienda per quanto riguardava il nuovo proprietario. Si diceva che fosse il classico innovatore, che rivoluzionava completamente l'assetto esistente.
Nel giro di poche settimane diversi dipendenti se n'erano andati. Nessuno di loro aveva accettato di lavorare per il Tiranno, come era stato soprannominato. E adesso lei era stata promossa a sua assistente e segretaria personale. La terza in poche settimane!
Non le aveva chiesto se fosse disposta ad assumere l'incarico. Oh, no! Le era pervenuta una secca disposizione. Il significato era chiaro: o accettava l'incarico o avrebbe dovuto dare le dimissioni.
Si sentiva con le spalle al muro. Il nuovo datore di lavoro le aveva suscitato un'immediata, profonda antipatia, ma aveva bisogno di quell'impiego e non poteva permettersi di perderlo.
«Avanti!»
La voce era profonda e altisonante. Aveva già avuto occasione di vedere Andreas Papadakis mentre, impettito, percorreva i corridoi della Linam Shipping, incombendo nei vari uffici, gli occhi scuri ai quali non sfuggiva niente. Lo sguardo aveva indugiato su ciascun impiegato, a turno, scrutando e valutando. Diverse sue colleghe avevano rischiato uno svenimento.
Lucy aveva visto soltanto un uomo alto e arrogante, che sarebbe anche potuto essere piacente se il viso non fosse stato perennemente distorto in una smorfia. Amava dare un'immagine di sé autoritaria e competente, ma lei non si era lasciata impressionare. Le piacevano gli uomini che emanavano calore e umanità. E quell'uomo sembrava non avere alcuna intenzione di instaurare un rapporto umano con i dipendenti.
Era lì solo per trasformare una compagnia, già redditizia, in una fonte inesauribile di denaro.
Trasse un profondo respiro prima di aprire la porta quindi, a spalle erette, superò il tappeto e andò verso la megascrivania. Era la prima volta che entrava nel sancta sanctorum e dovette ammettere che il rivestimento di quercia, i quadri d'autore alle pareti e i mobili antichi facevano una certa impressione, benché fosse convinta che non era l'arredamento che il nuovo capo avrebbe scelto per il proprio ufficio. Aveva già fatto installare una serie di computer e periferiche che apparivano del tutto fuori luogo in quello che un tempo era stato l'ufficio del signor Brown.
Andreas Papadakis era in piedi accanto alla scrivania, i capelli pettinati all'indietro, le sopracciglia scure che quasi si sfioravano, gli occhi altrettanto scuri e inquisitori. Aveva decisamente un aspetto intimidatorio e Lucy raddrizzò ancora di più le spalle.
«Buongiorno, signor Papadakis.»
«Signorina James...» Lui chinò il capo. «Si sieda... prego.» Il prego suonò come un'aggiunta tardiva mentre le indicava la sedia di fronte alla scrivania.
Lucy prese posto sulla sedia, ma avrebbe preferito non farlo dal momento che lui era rimasto in piedi. Doveva essere alto almeno un metro e ottanta, spalle ampie, muscoli sodi e quegli occhi scuri che non perdevano uno solo dei suoi movimenti, mettendola a disagio.
Non che lei intendesse mostrarlo. Alzò il mento e si stampò un sorriso sulle labbra, la penna posata sul blocco.
Il resto della giornata trascorse in un turbine di appunti da prendere, appuntamenti da fissare, ordini ringhiati, dozzine di e-mail. L'opinione che Lucy si era fatta di Andreas Papadakis non cambiò di una virgola. Anzi, lo giudicò ancora più arrogante e opprimente. Comunque era molto soddisfatta del proprio comportamento e sicura di avere superato l'esame con ottima valutazione. Stava per infilarsi la giacca quando il nuovo capo spalancò la porta di comunicazione tra i due uffici.
«Non così presto, signorina James. C'è ancora molto da fare.»
Lucy gettò un'occhiata all'orologio alla parete.
«Pensavo che il mio orario fosse dalle nove alle cinque!» esclamò, l'aria di sfida negli immensi occhi blu. «E sono già trascorsi due minuti.»
Tra sé aggiunse: e se pensi che sia disposta a lavorare fino a tardi, è meglio che ti ricreda. Ho una vita privata, io, al contrario di te.
«Non potrebbe importarmi di meno se fossero passati venti minuti» ringhiò lui. «Ho bisogno di lei.»
Se era questo il modo con cui si era rivolto alle segretarie precedenti, pensò Lucy, non c'era da stupirsi che se ne fossero andate. Cosa c'era di male nel chiedere educatamente, invece che avanzare una pretesa in quel modo? Disgraziatamente, dal momento che lei aveva necessità di conservarsi il posto di lavoro, avrebbe dovuto fare buon viso a cattiva sorte.
«Molto bene» rispose con tutta calma riappendendo la giacca, mentre la ribellione serpeggiava in lei. «Che cosa devo fare? Ho finito quello che mi aveva assegnato.»
Lui gettò una cassetta sulla scrivania. «Voglio questo rapporto per le sei. Si assicuri di battere esattamente le cifre, sono molto importanti.»
Ci scommetto, imprecò tra sé Lucy non appena lui chiuse la porta. Tutto è importante per te.
Aveva legato strettamente i capelli ramati, ma ora il nodo si era allentato e alcune ciocche erano sfuggite. Le ravviò all'indietro, poi chiamò la sua vicina di casa.
«Marnie, devo lavorare fino a tardi. Pensi di poter tenere Ben ancora un poco?» Non sopportava l'idea di lasciare il bambino anche solo un minuto più del necessario; la faceva sentire in colpa. Ma non aveva scelta. Ben era speciale per lei, e voleva dargli il meglio. Questo implicava che lavorasse.
«Ma certo, cara!» fu la risposta immediata. «Non preoccuparti per lui. Gli darò io la cena.»
Marnie era felice di occuparsi di Ben. I suoi nipoti ora erano adolescenti e sentiva la mancanza di un bambino piccolo per casa. Era un vero tesoro. Lucy non sapeva come avrebbe fatto senza di lei.
Erano quasi le sette quando finalmente lasciò l'ufficio. Andreas Papadakis era un fanatico del lavoro e si aspettava che tutti fossero come lui. Le aveva imposto quel compito che avrebbe potuto benissimo aspettare fino al giorno successivo. Del resto, sembrava che lui alle sei del mattino fosse già alla sua scrivania.
Non sapeva se fosse sposato o meno. Non portava la fede e difendeva strenuamente la propria privacy, tuttavia le voci giravano negli uffici. Si sussurrava di una splendida amica, di una moglie in Grecia e un'amante in Inghilterra, di proprietà immobiliari a New York e alle Bahamas, così come in tutta Europa. Dove trovasse il tempo di occuparsi di tutto questo, Lucy non lo capiva proprio.
Quando il mattino seguente si presentò in ufficio alle nove meno dieci lui la stava aspettando. «Mi chiedevo quando sarebbe comparsa» la aggredì, lo sguardo cupo. La cravatta era lenta, il primo bottone della camicia aperto, i capelli arruffati come se vi avesse passato diverse volte le dita. Aveva l'aspetto di chi ha passato la notte in ufficio, immerso in problemi insormontabili.
«Ho bisogno di un caffè, nero e forte, e mezza dozzina di focaccine. Se ne occupa lei?»
La giornata è cominciata. Lucy fece un cenno affermativo. «Posso ordinarle una colazione completa se lei...»
«Si limiti a quello che le ho chiesto» la interruppe lui impaziente, «e porti il blocco degli appunti. C'è molto lavoro da fare.»
Fu di pessimo umore per tutto il giorno, ma Lucy rifiutò testardamente di cedere le armi, mostrandosi sempre educata, competente e sorridente, evitando di dar libero sfogo ai pensieri omicidi che le affollavano la mente.
Verso la fine della settimana era compiaciuta di sé. Era convinta di avere imparato a conoscere il suo capo che, a quanto sembrava, era soddisfatto di lei. Le sue sfuriate erano leggenda, ma Lucy aveva deciso di ignorarle e sembrava che il tutto funzionasse a dovere.
O almeno, finché una sera lui non le chiese di nuovo di fermarsi oltre l'orario.
«Mi dispiace, ma questa sera non posso» rispose decisa. Perché diavolo aveva proprio scelto quel giorno?
Il cipiglio ben conosciuto gli fece congiungere le sopracciglia al di sopra di un paio d'occhi fiammeggianti. «Scusi?»
«Questa sera mi è impossibile fermarmi.»
«Immagino che abbia una buona ragione.»
«Sì, in effetti è così» ribadì Lucy, il mento forse un po' troppo sollevato. «È il compleanno di mio figlio.»
La fissò allibito. «Ha un figlio? Perché diavolo non mi è stato detto? Lei non va bene per me se continua a prendersi permessi.»
Gli occhi di Lucy mandavano lampi. «Cosa intende con continua? Questa è una situazione particolare, signor Papadakis. Ben compie otto anni oggi e abbiamo organizzato un party da McDonald's. Per nessuna ragione al mondo lo deluderei. L'unica volta che mi sono assentata dal lavoro è stato quando l'hanno operato di appendicite. E in quel caso ho preso dei giorni di ferie.»
Lucy notò il lampo nel suo sguardo, l'ombra del dubbio, poi il cenno affermativo. «Molto bene. Può trovare qualche ora domani mattina?»
Glielo stava chiedendo, non ordinando. Una piccola vittoria! Il giorno successivo era sabato, e Ben aveva l'allenamento di football. Ma, date le circostanze, Lucy ritenne che sarebbe stato pericoloso rifiutarsi. Marnie avrebbe accompagnato il bambino. Ne sarebbe stata felice.
«Sì, d'accordo.»
«Bene.» Con un cenno la congedò.
Lucy non smetteva di stupirsi per l'ottimo inglese che parlava Papadakis. Non c'era la minima inflessione greca. Se non fosse stato per l'aspetto tipicamente mediterraneo, l'avrebbe giudicato inglese. Riusciva a capire perché molte ragazze dell'ufficio gli morissero dietro. Quello che non avevano sperimentato erano i suoi momenti di collera, l'atteggiamento presuntuoso e autoritario. In tali occasioni ci si dimenticava rapidamente quanto fosse attraente e sexy.
Era senza dubbio un uomo affascinante e anche lei di tanto in tanto lo percepiva. Avrebbe dovuto essere di ghiaccio per ignorare la sua avvenenza. Ma nella maggior parte dei casi notava esclusivamente il volto del tiranno, del despota. E lo detestava più adesso di quanto avesse fatto all'inizio. Non riusciva a credere che avesse accettato il suo rifiuto di lavorare quella sera, si disse lasciando l'ufficio in tutta fretta.
«Mami, è la festa più bella che abbia mai avuto» annunciò Ben apprestandosi a mangiare il secondo hamburger con contorno di patatine fritte.
Lucy sorrise. Il frastuono era assordante; i piccoli amici di Ben, otto, parlavano contemporaneamente, felici ed eccitati. Per loro era molto più divertente che ritrovarsi in casa, con una merenda a base di marmellata e gelato.
«Chi di voi ragazzini è Ben?» chiese una voce profonda alle sue spalle.
Una voce familiare. Lucy si agitò sulla sedia, trattenendo il fiato sbalordita quando scorse Andreas Papadakis a un paio di metri di distanza, un enorme pacco regalo sotto il braccio e un bagliore divertito nello sguardo. Aveva un aspetto ben diverso dall'uomo che aveva lasciato poche ore prima.
«Signor Papadakis» ansimò, «come mai qui?» Balzò in piedi, il cuore che le martellava nel petto.
«Ho portato un regalo per il bambino che compie gli anni. Qual è?»
Tutti gli occhi si appuntarono su Ben, che era arrossito per l'imbarazzo.
«Chi sei?» chiese il piccolo, il mento alzato nello stesso atteggiamento della madre. Non c'era rischio di sbagliarsi, la somiglianza era evidente. Benché i capelli fossero scuri, aveva gli stessi immensi occhi blu e la medesima mascella volitiva.
«Sono il datore di lavoro di tua madre. Mi ha detto che oggi compi gli anni e ho pensato che questo avrebbe potuto farti piacere.» Gli porse il pacco gigante.
Lucy era troppo scioccata per intervenire.
Non era lo stesso uomo. L'Andreas Papadakis per il quale lavorava non avrebbe mai pensato di acquistare un regalo per il figlio di una dipendente, e soprattutto di consegnarlo di persona.
«È... è molto gentile» mormorò alla fine. «Non era il caso.» Poi la sfiorò il sospetto che probabilmente lui intendeva controllarla, stabilire