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Rorik il vichingo
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E-book258 pagine5 ore

Rorik il vichingo

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Info su questo ebook

Inghilterra/Norvegia, 904
A Yvaine, ferita e semisvenuta, il possente guerriero vichingo appena emerso dalla nebbia che le offusca la vista appare come l'eroe dei suoi sogni di bambina. Ma quando lui la salva dalla crudeltà del marito solo per trascinarla sulla sua nave, il Drago Marino, un cieco terrore si impadronisce di lei. Un terrore che si stempera nel sospetto quando, ripresi i sensi, scopre che lui non solo ha curato le sue ferite, ma ha anche difeso il suo onore. Chi è in realtà quel barbaro misterioso, capace di legare un assassino al corpo della sua vittima per poi precipitarlo in mare, e al tempo stesso incapace di prenderla con la forza benché vittima inerme nelle sue mani?
LinguaItaliano
Data di uscita10 feb 2021
ISBN9788830525528
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    Anteprima del libro

    Rorik il vichingo - Julia Byrne

    Immagine di copertina:

    Graziella Reggio Sarno

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    The Viking’s Captive

    Harlequin Mills & Boon Historical Romance

    © 2003 Julia Byrne

    Traduzione di Gigliola Foglia

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    Harmony è un marchio registrato di proprietà

    HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.

    © 2004 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-3052-552-8

    1

    Inghilterra, Anno del Signore 904

    Il fumo oscurava il cielo, una densa coltre nera che incombeva sulla cittadina al di sopra delle mura del maniero e riempiva l’aria di un soffocante odore di bruciato. Yvaine poteva udire il crepitare delle avide fiamme, perfino sopra le grida e il terrificante clangore degli scontri, ascia contro scudo, spada contro spada. E ancor più alto, portato dal vento che le sferzò i capelli mentre correva fuori dalla scuderia, un fiero ruggito, un suono inumano simile all’ululato di decine di lupi.

    Quell’urlo agghiacciante la immobilizzò a metà strada dalla cinta del maniero. Con una mano stringeva convulsamente al petto la tunica, con l’altra raccolse la camicia sopra le brache che aveva preso dal soppalco del garzone di stalla, gli occhi fissi sulla strada deserta al di là della palizzata. Gli enormi battenti di legno erano spalancati: nessuna difesa.

    Si chiese se fossero tutti fuggiti nei boschi, compreso suo marito. No: considerati i peccati che aveva sulla coscienza, era più probabile che avesse cercato rifugio nella chiesa. Stupido! Credeva che quei selvaggi assassini avrebbero rispettato quell’asilo? Non aveva udito i racconti di monaci assassinati, saccheggi, sacre reliquie profanate?

    Il pensiero che in quel preciso istante forse Ceawlin era in ginocchio a balbettare preghiere, implorando la salvezza dall’ira dei Vichinghi le incurvò le labbra in un sorriso sprezzante. Le faceva comodo che il signore di Selsey pensasse soltanto alla propria sicurezza, lasciando sua moglie alla mercé degli attaccanti, tuttavia Yvaine non poteva non provare disprezzo per lui. Esitò un istante ancora, chiedendosi se non avrebbe potuto richiudere e sbarrare le porte: ma i cancelli non avrebbero retto contro l’orda dei pagani. Le restava poco tempo.

    Corse tra gli edifici verso la grande sala, grata della libertà di movimento concessale dagli abiti presi a prestito. Se fosse riuscita a fuggire, avrebbe viaggiato più veloce e più sicura travestita da ragazzo. E se per malasorte fosse stata scoperta, almeno la morte sarebbe stata rapida. Lanciandosi un’ultima occhiata alle spalle, alla nera nube che si alzava, entrò.

    I suoni spaventosi ammutolirono all’istante, mentre il silenzio dell’edificio vuoto l’avvolgeva, dandole l’illusione di essere al sicuro. Il battito del suo cuore rallentò, il respiro si fece più regolare. Tutto quello che doveva fare era trovare un pugnale e un po’ di denaro, e andarsene. Una volta fuori dai cancelli, sarebbe bastato un minuto per guadagnare la salvezza nella foresta. E la libertà.

    Ciò che cercava era sotto la grande sedia intagliata accanto al tavolo. Jankin le aveva candidamente raccontato dello scrigno nascosto, mesi prima, senza immaginare che... Mio Dio, Jankin! Era stato inviato in città, quella mattina. Era riuscito a nascondersi, oppure la sua giovane vita era già stata brutalmente recisa?

    Cancellando risoluta le orribili immagini che le si presentavano alla mente, Yvaine si diresse alla predella all’estremità della lunga sala. In ginocchio sotto il tavolo, tastò sotto lo scranno del marito.

    Lo scrigno era lì nella sua nicchia, piccolo, ma pesante. Lo estrasse con entrambe le mani e la base di legno scricchiolò, trascinata sul pavimento, coprendo per un istante i rumori esterni. Ma non soffocò del tutto il suono di passi che si avvicinavano.

    «E così, Anfride aveva ragione. Dama Yvaine di Selsey non è migliore di quei diavoli pagani là fuori. Anche tu cerchi di derubarmi.»

    «Per tutti i santi! Ceawlin!» Si rizzò in piedi, e attese che il battito del suo cuore si fosse placato prima di aggiungere altro. Anfride era perfida come suo fratello e l’aveva sempre detestata. Da tempo Yvaine aveva rinunciato al tentativo di farsela amica.

    Proprio come aveva sconfitto la paura di Ceawlin. Benché lui non l’avesse maltrattata fisicamente, a motivo della sua parentela con la potente casa reale del Wessex, era malevolo con tutta la meschinità dei deboli e dei codardi, crudele con i sottoposti, mentre amava indulgere nei propri piaceri. Ma ormai erano cinque anni che Yvaine era sposata con lui, e non era più l’insicura bambina che era giunta a Selsey.

    Lui la fissò con gli occhi ridotti a due fessure, prima di abbassare allusivamente lo sguardo sullo scrigno. Yvaine sollevò il mento. «Non ti derubo affatto, Ceawlin, recupero soltanto ciò che era mio.»

    «Che cosa era tuo, moglie? Che cosa? Qui tu non possiedi niente. O già speravi che fossi stato ucciso da quei selvaggi là fuori, lasciandoti libera e padrona dei miei beni?» Ceawlin le strattonò gli abiti con gesto sprezzante. «Pensi di nasconderti dietro i tuoi abiti da ragazzo mentre aspetti la mia morte? Stupida donna. La tua faccia ti tradisce, ed è troppo tardi per correre in chiesa.»

    «Troppo tardi anche per te, Ceawlin, se indugi oltre.» A quelle parole l’uomo gettò indietro la testa e rise, un riso acuto e chioccio che echeggiò paurosamente nella sala vuota. Yvaine sentì il brivido gelido del terrore correrle lungo la spina dorsale. Così dovevano ridere i demoni, pensò: in quel modo folle, malvagio. Ma aveva il tavolo sulla sinistra e lui di fronte: se si fosse mossa verso destra, lui le sarebbe stato addosso come un levriero con una lepre.

    Ceawlin si chinò, il viso vicinissimo al suo. «Tu pensi che io non abbia intelletto per fare piani, Yvaine, ma prendi nota di questo: intendo usarti come salvacondotto per la mia vita.»

    Per un istante Yvaine riuscì solo a fissarlo. «Pensi che resterò qui per venire usata come oggetto di scambio?» esplose infine. «Lascia che ti chiarisca le idee: sono venuta qui a riprendermi la dote che ti ho portato, ma se devo andarmene senza...»

    «Andartene? Era questo che avevi in mente?» Ceawlin emise un’esclamazione di scherno. «Che idiozia. Io sono il tuo legittimo marito. Dico io quello che devi...»

    «Legittimo marito?» Le parole le sfuggirono incredule. La soddisfazione sulle fattezze aguzze, da ratto, di Ceawlin era intollerabile. Yvaine ripensò agli ultimi cinque anni: all’insolenza dei servi troppo spaventati dal padrone per servirla, al disprezzo e alle minacce, alla deliberata distruzione dei suoi amati manoscritti, alla sparizione di ogni animale a cui lei si fosse affezionata. Per un istante scordò il pericolo, mentre un torrente di emozioni le sgorgava dentro fino a traboccare in un impeto di furia. «Marito! Non conosci neppure il significato di questa parola. E la mia famiglia finalmente lo saprà. Non intendo restare oltre, affamata, oltraggiata, usata per celare la tua vera natura. Ho taciuto per tutti questi anni, ma ora basta. Non hai onore né decenza. Perciò odimi bene, signore di Selsey: andrò a Roma a piedi nudi per chiedere l’annullamento del nostro matrimonio

    Il viso di Ceawlin si fece paonazzo mentre la rabbia gli alterava i lineamenti. «Tu parli in questo modo a me?» urlò. «Dimentichi chi sei, moglie.»

    «Io non dimentico niente. Tu sì, Ceawlin. Dai così poco valore alla tua vita, da restartene qui a rimproverarmi?» Yvaine indicò lo scrigno. «Ecco qua il tuo tesoro. Prendilo e va’ a nasconderti.»

    Cercò di superarlo, ma rapida come un aspide la mano di Ceawlin l’afferrò per la vita. Gli occhi le si dilatarono mentre le sue dita l’artigliavano con deliberata crudeltà. «E così vuoi andartene, mia signora? Vuoi essere libera?» La sprezzante minaccia nella sua voce si insinuò nella rabbia di Yvaine come acciaio attraverso la nebbia. «Lo sarai» sibilò Ceawlin. «Quando lo dirò io, e nel modo che decido io. Ma prima...» Prese a trascinarla attraverso la sala, verso il grande pilastro centrale, slacciandosi allo stesso tempo la cintura con la mano libera. «... prima ti serve una lezione di rispetto coniugale. Te la meriti da tempo, e le tue nobili parentele non ti aiuteranno, ora.»

    «Sei pazzo?» gridò lei, cercando di sciogliersi dalla presa. Ed ebbe paura, realizzando che Ceawlin era più forte di quanto il suo corpo floscio e vizioso lasciasse trasparire. Gli artigliò con le unghie le nocche grassocce, e lui la colpì con un manrovescio. Stordita, tese l’altra mano cercando di riprendere l’equilibrio, solo per trovarsi entrambi i polsi legati con la cintura di Ceawlin. Lui le sollevò le braccia sopra la testa, agganciò le estremità della cintura attorno al pilastro, poi fece un passo indietro per ammirare l’opera.

    Come era potuto accadere così in fretta? Le orecchie le ronzavano ancora per lo schiaffo, quando aveva compreso di essere in trappola. Il gelido orrore mise in secondo piano la paura. «Sei davvero pazzo» sussurrò. «Quando il re lo saprà...»

    «Quando Edoardo lo saprà» ribatté Ceawlin, «sarà da una mia lettera che gli annuncerà la cattura della mia beneamata sposa da parte di pirati Norvegesi.» Ridacchiò all’idea. «Ho atteso a lungo questo momento, moglie. Le pozioni di Anfride non sono servite a nulla, ma questo funzionerà. E ben mi si adatta il ruolo dello sposo dolente.»

    Pozioni? «Ceawlin, ascoltami. Quei diavoli non ti risparmieranno solo perché mi hai legata per loro.» Ma Ceawlin si limitò a ridere di nuovo mentre tornava sui suoi passi e apriva lo scrigno. Yvaine strattonò i legami, senza badare al dolore quando il cuoio le morse la carne. Tese le mani, nel tentativo di raggiungere la fibbia. Poi i passi di Ceawlin risuonarono di nuovo alle sue spalle: aveva gli occhi lucidi di eccitazione e una spessa fune annodata a un’estremità gli pendeva dalla mano. Una preghiera per trovare forza lampeggiò nella mente di Yvaine e svanì. Non era la minaccia delle percosse a farle balzare il cuore in gola, ma il pericolo di essere lasciata lì, indifesa, in balia di quei barbari...

    «Perderai la vita per questo indugio» disse con voce strozzata. Aveva la gola così serrata da riuscire a stento a parlare, ma strinse i denti e chiamò a raccolta l’unico bene di cui Ceawlin non era stato in grado di spogliarla: il suo orgoglio. Non si sarebbe umiliata davanti a quel mostro depravato. Ma come una mano umidiccia artigliò i lacci sul dietro della tunica, Yvaine non riuscì a reprimere un brivido. Ceawlin le aprì l’indumento, lasciando pendere le maniche dai suoi polsi incatenati e denudandola fino alla vita. «Se sopravvivi a questa incursione, ti ucciderò con le mie mani» giurò Yvaine, la voce tremula per l’ira e la paura. «Non importa quanto dovrò aspettare.»

    Ceawlin si limitò a sorridere, il viso animato da un’eccitazione che le diede la nausea. «Vedremo quanto valgono le tue minacce quando avrò finito con te» gorgogliò esultante, e sollevò il braccio.

    La vista di una fanciulla accasciata contro il pilastro del salone fermò Rorik sui due piedi. Era immobile, e lui pensò per un istante che fosse morta. Certo non per mano di un Vichingo: i suoi uomini erano ancora affaccendati a saccheggiare la chiesa o a battersi con qualche mercante abbastanza stupido da opporsi a loro. Un funebre rintocco risuonò in fondo alla sua mente, a quel pensiero. Lo scacciò con un’alzata di spalle. I cristiani e le loro chiese non significavano niente per lui.

    Il suo sguardo trascorse rapido sugli arazzi che coprivano le rustiche pareti di ramaglie, per arrestarsi sul paiolo che pendeva sopra il focolare circolare alla sua sinistra. Sul tavolo vicino restavano le tracce di un pasto precipitosamente abbandonato: un coltello caduto a terra, spezie sparse sul legno, una brocca di vino rovesciata. Il liquido aveva raggiunto il bordo del tavolo e ne sgocciolava, lentamente, sui giunchi stesi sul pavimento. Un ricco maniero, pensò. E deserto, fatta eccezione per la ragazza. Benché sul tetto garrisse lo stendardo reale, nessuna guardia era apparsa quando Rorik era avanzato impunemente oltre i cancelli. Ma se tutti erano fuggiti, chi era costei, mezzo distesa, mezzo in ginocchio tra le ombre della grande sala?

    La spada pronta a colpire, Rorik si mosse con l’incedere silenzioso del cacciatore. Un raggio del sole di mezzogiorno piovve dall’apertura per il fumo nel tetto, immergendo la figura sul pavimento in un brillante cerchio di luce. La ragazza trasalì, come se il tepore del sole l’avesse riportata alla vita. Poi, con un movimento così lento da risultare quasi impercettibile, sollevò il capo e lo fissò. E Rorik quasi non s’accorse di arrestarsi, di abbassare la lama.

    Era una creatura di luce dorata. Magica. I capelli le piovevano in disordine attorno alle spalle, di un color miele ricco e profondo. La carne delle braccia riluceva di un oro più pallido. E gli occhi! Grandi e lievemente obliqui, in un volto di così delicata bellezza da sembrare più un sogno lontano che realtà, gli rammentarono un gatto selvatico che una volta aveva preso in trappola. Aveva fissato Rorik con quel medesimo fuoco dorato, e lui non era stato capace di ucciderlo, di distruggere l’orgogliosa fierezza di una creatura tanto libera e selvaggia.

    Poi il sole trascorse dallo zenit, il raggio di luce svanì, e con esso la magica creatura d’oro. Socchiudendo gli occhi contro la luce che spariva, Rorik vide che le sue braccia sollevate erano legate al pilastro, e che i suoi straordinari occhi erano ora spenti e senza vita. Rorik soffocò un’imprecazione e la raggiunse, posò un ginocchio a terra e sollevò una mano per scostarle i capelli dalla guancia. Qualcuno l’aveva colpita. Ma non fu il livido che già macchiava la fragile linea del suo zigomo a paralizzarlo. Scostando il velo dei suoi capelli rivelò ciò che era nascosto, e sentì il proprio corpo contrarsi in un istinto così potente da lasciarlo senza respiro. Lei era nuda fino alla vita, i seni che si sollevavano al ritmo ineguale del suo respiro, e tremante in tutto il corpo. La sua paura era palpabile, vibrante nell’aria tra loro, e ancora lui stava abbassando la mano senza pensarci: come se fosse privo di volontà oltre all’improvviso bisogno di toccarla. Era minuta, delicata, con un’intatta fragilità che lo colpì al cuore. E quando il suo morbido seno coronato dal capezzolo rosato colmò la mano di Rorik, lui sentì qualcosa lacerarsi nel profondo, come se parte di sé fosse diventata di lei e non potesse più essergli restituita.

    La ragazza non parlò né si ritrasse dal suo tocco, ma sotto la mano di Rorik il suo cuore frullava come le ali di un uccellino spaventato, e quei suoi aurei occhi da gatta ne tradivano l’angoscia. Scosso, Rorik ritirò la mano, e fu come strapparsi la propria carne, brano a brano. Aveva conosciuto la lussuria, ma questo...

    Di colpo furioso, balzò in piedi. Era lì per uno scopo, per tutti gli dei! E lei era una donna degli Angli.

    Goffamente tirò su le maniche sulle braccia della ragazza, con l’intenzione di coprirla prima di liberarle le mani. Prima che potesse toccare i lacci della tunica, il desiderio lo abbandonò come se non fosse mai esistito, e Rorik, che aveva curato le più crudeli ferite di guerra senza batter ciglio, fu colto dalla nausea. La ragazza era stata frustata crudelmente. Non con uno scudiscio, lo vide subito. La pelle era intatta, ma striature rossastre si incrociavano sulla schiena dalle spalle alla vita, circondate da lividi che già si stavano facendo porpora.

    La bocca di Rorik si indurì in una linea severa: sapeva riconoscere il marchio di uno knut quando lo vedeva. Per Thor: aveva dato ampia libertà ai suoi uomini, ma se era stato uno di loro...

    Piegandosi, sostenne il viso della ragazza con la mano a coppa. «Chi ti ha fatto questo, fanciulla?»

    Non vi fu risposta, ma lei batté le ciglia come se passasse lo sguardo da lui alle ombre in fondo alla sala. Rorik li udì nel medesimo istante: rapidi passi che si avvicinavano a una cortina di cuoio nell’angolo oltre la tavola. Non ci fu il tempo di ammonire la ragazza: sperando che il suo attonito silenzio continuasse, Rorik si rialzò, la spada sollevata e pronta a colpire.

    Ceawlin spinse da parte il tendaggio, infilandosi nella tunica un sacco ricolmo. Yvaine lo guardò avvicinarsi attraverso la nebbia che le offuscava la vista, chiedendosi se dovesse avvertirlo della presenza del Vichingo, ma il pensiero era stranamente distante. E svanì del tutto quando lui parlò. «Non ti hanno ancora trovata, mia signora? Forse è meglio così. Mi piacerebbe vedere quei barbari fare a pezzi il tuo orgoglio, ma non sarebbe saggio indugiare. Di’ loro che spero non mettano a fuoco il palazzo, visto il dono che ho lasciato loro. Un edificio è più costoso da rimpiazzare che una moglie sdegnosa e insolente.»

    «Dimmelo tu stesso, Anglo» suggerì il Vichingo, avanzando in piena vista. Studiò la figura bassa e gonfia davanti a sé e abbassò la spada in un lento arco, fino a puntarla proprio al cuore di Ceawlin. Il gelo del suo sguardo penetrò Yvaine fino alle ossa, e lei non si stupì che un cieco terrore cancellasse l’espressione compiaciuta dalla faccia di Ceawlin. Poté solo meravigliarsi di non provare la medesima paura. Il gigante del Nord che le stava davanti era una visione abbastanza formidabile, e le aveva fatto qualcosa... Yvaine non riusciva a pensare con chiarezza. Ma non aveva pensato affatto fino a quando, interrogandola con dolcezza, lui non l’aveva ricondotta indietro da un cieco abisso di sofferenza. Non ricordava le parole, ma con sua sorpresa aveva parlato in anglico, e la sua voce rauca e vellutata... quella la ricordava.

    Alzò lo sguardo: lui passava i sei piedi di svariati pollici, tutti di solida muscolatura, dalle lunghe gambe racchiuse in brache di lana e stivali di cuoio legati con corregge, su fino alle ampie spalle coperte da una cotta di maglia metallica senza maniche. Pesanti bracciali d’oro serpeggianti gli circondavano le braccia possenti, e altro oro gli adornava la cintura. Yvaine non riusciva a vederlo chiaramente in viso, né avrebbe saputo dire se fosse bruno o biondo. Un elmo di ferro gli copriva gran parte dei lineamenti: il paranaso, taglienti estremità ricurve e intarsi d’onice sul frontale gli conferivano un aspetto terrificante. Da quella maschera paurosa scintillavano occhi del colore di un cielo d’inverno, un grigio chiaro e gelido. E sotto il paranaso una bocca dura e severa. Indicò Yvaine con il capo, ma quello sguardo polare non lasciò Ceawlin. «Sei stato tu.» Non era una domanda.

    Non l’aveva ucciso all’istante, e ciò riportò un po’ di colore sul viso cinereo di Ceawlin, che azzardò un sorriso servile. «In quale altro modo si tratta una moglie che osa insultare il marito?» uggiolò. «Forse tu avrai più successo insegnandole il rispetto per i suoi padroni.»

    Il Vichingo sollevò lievemente il capo. «Mi stai cedendo tua moglie?»

    «Sì... certo, se la vuoi. Fa’ di lei quel che ti piace. Può essere un’insolente, ma non manca di attrattive. Guarda...» Tese una mano verso il viso di Yvaine.

    «Toccala e perderai quella mano

    Ceawlin strabuzzò gli occhi e rimase a bocca aperta mentre la spada del Vichingo lampeggiava con mortale destrezza per librarsi sopra il suo braccio. «N... non è abbastanza?» balbettò. «Ecco...» Con la mano libera estrasse il fagotto dalla tunica e lo tese con dita tremanti. «Prendi il mio tesoro.»

    Il Vichingo non accennò ad accettare la borsa. Il disprezzo si mescolò alla rabbia nella sua voce. «Per che cosa stiamo contrattando, Anglo? La tua vita? Il tuo ricco palazzo? O soltanto il tuo braccio?» Abbassò la lama fino a

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