Ricomincio da Matt: Harmony Destiny
Di Cindy Gerard
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Cindy Gerard
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Ricomincio da Matt - Cindy Gerard
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Prologo
Non era vero. Non completamente. La vita non ti scorreva tutta davanti, come un lampo, quando stavi per morire. Solo frammenti, scomposti, in tecnicolor, insieme alla consapevolezza di coloro i quali stavano per morire insieme a te.
Mentre l'equipaggio e undici altri uomini e donne sull'aereo che da Royal, nel Texas, era diretto in Europa, si preparavano al violento impatto con gagliardo ottimismo, preghiere bisbigliate, e gemiti sommessi, lady Helena Reichard pensava in silenzio ad Asterland, la patria che forse non avrebbe rivisto mai più. Pensava ai suoi genitori, il conte e la contessa di Orion, e al dolore che avrebbe loro procurato. Al gattino che amava come un figlioletto, ai progetti che non avrebbe portato a termine e a coloro che avrebbero sofferto per questo.
Stranamente, pensava pure al bel fusto texano dai sorridenti occhi verdi e i folti capelli scuri che aveva danzato un valzer con lei al Cattleman's Club, appena due sere prima.
Aveva conosciuto solo uomini boriosi fino ad allora. Sofisticati. Uomini di mondo. Pieni di titoli e di soldi. Non aveva mai incontrato uno come Matthew Walker. Con il suo sorriso mordace, e il suo brillante ingegno, era un uomo di gran fascino e, al tempo stesso, discreto. Era ovviamente una persona benestante, ma i calli alle mani che gli aveva sentito mentre ballavano testimoniavano fatica fisica. I suoi modi galanti e formali facevano risaltare la sua essenza di uomo della terra, e la cosa l'aveva a tal punto incuriosita e conquistata da rammaricarsi di aver lasciato il Texas.
Che peccato che non aveva avuto modo di conoscerlo meglio! Che peccato che il suo ultimo sguardo al Texas fosse in caduta! Chinò il capo, strinse le braccia attorno alle caviglie e attese il violento impatto.
Dietro di lei qualcuno urlava. Un urlo serrato, stridente si squarciò attraverso la cabina pressurizzata mentre tonnellate di acciaio e liquido infiammabile si riversavano per terra. Il rumore fu devastante. L'impatto agghiacciante. E la paura, la paura fu paralizzante mentre le fiamme che fino ad allora erano rimaste confinate ai motori di sinistra invasero d'improvviso la cabina, e un dolore cieco, fragoroso la consumò.
1
«Justin, ehi, Justin, aspetta!» Matt Walker si trascinava stancamente verso il Reparto Ustionati quando adocchiò Justin Webb, in camice verde, che si dirigeva verso l'ascensore.
Justin si voltò, sorseggiando da un bicchiere di plastica quel che Matt sapeva essere il peggior caffè del mondo. Dopo una rapida occhiata d'insieme, storse la bocca, mostrando a Matt la sua faccia da medico. «Ho ricoverato pazienti con una cera migliore della tua.»
Matt sapeva bene quel che vedeva il suo amico: una specie di spettro, con una camicia stropicciata e gli occhi rossi e cerchiati. Si strofinò una mano sulla barba incolta, roteando le spalle per scrollarsi la tensione di dosso. «Sto bene. Nottataccia.»
Justin storse il naso. «Tanto per cambiare.»
Quando gli allungò il caffè, Matt fece una smorfia disgustata. «Come fai a bere quella robaccia?»
«Stomaco di ferro.» Justin gli indirizzò un sorriso. «E poi... mi piace. Ma stavamo parlando di te. Ti stai logorando a furia di non dormire. Così non le servirai affatto, Matt.»
Entrambi sapevano esattamente di chi Justin stesse parlando. Erano trascorsi circa due mesi dall'incidente aereo che era costato il ricovero d'urgenza di lady Helena Reichard al Reparto Ustionati dell'o spedale di Royal. Si trovava con un gruppo di dignitari di Asterland e alcuni rappresentanti del luogo, tra cui Pamela Black e Jamie Morris, amici di Matt, in viaggio per Asterland dopo un elegante ricevimento diplomatico al Texas Cattleman's Club. Era già quasi un mese che Matt era stato incaricato di sorvegliare la stanza di Helena.
Non importava che lui fosse ridotto a uno straccio. Non era la sua vita a essere in pericolo, ma quella di lei. Desiderava solo sapere da chi, o da che cosa, la stesse proteggendo.
Oltre a Justin e Matt, solo altri tre membri del club erano a conoscenza dei misteriosi dettagli che circondavano l'atterraggio d'emergenza dell'aereo che aveva spedito Helena in ospedale. Benché, fortunatamente, non c'era stato nessun morto, persino ora, a distanza di due mesi, restava un boccone amaro da digerire. Lo schianto era stato terribile. Ma c'era anche stato un omicidio. Un furto di gioielli. L'ipotesi di un colpo di stato che riguardava il paese europeo di Asterland.
Helena Reichard, sembrava, vi era rimasta coinvolta, suo malgrado. Matt sapeva esattamente quanto lei fosse vulnerabile. E sapeva pure che niente, assolutamente niente le sarebbe più potuto succedere sotto la sua sorveglianza.
«Come sta?» chiese, mentre Justin finiva il caffè e gettava il bicchiere di plastica in un cestino.
«Be', a sentir lei, abbastanza bene.»
Matt esaminò il viso del suo amico. «Preferirei che me lo dicessi tu. Come sta?»
Justin incrociò le braccia al petto e gli rivolse un'occhiata attenta. «Abbiamo già affrontato l'argomento.»
«Accontentami. Facciamolo di nuovo.»
«Ascolta, non sono il primario, qui. Sono solo un consulente finché lei non sarà pronta per la chirurgia plastica. È Harding che si occupa delle ustioni. Chambers è il suo ortopedico. Ma la cartella clinica parla da sé.»
«Non per me.» Matt spostò il peso del corpo sull'altra gamba. «Supponi di dovermela spiegare.»
«Non sei della famiglia.»
«Oh, per la...»
«Aspetta, aspetta.» Justin sollevò una mano. «Calmati. Non sei un suo familiare, ma siccome sei colui che sta fra lei e chissà quale minaccia, forse hai il diritto di saperlo. E ciò mi dà licenza di parlartene.»
Dopo aver lanciato un'occhiata alla caposala impegnata in una telefonata, condusse Matt verso il divano in fondo al corridoio, con la pretesa di cercare un po' di privacy. Matt sospettò che volesse solo levarselo di torno. Ma era troppo stanco per opporsi, quindi si sedette.
«Come tu sai, la maggior parte delle sue ustioni è di secondo grado e ristrette al braccio sinistro e alla coscia.» Justin si sedette accanto a lui. «È quella brutta bruciatura di terzo grado sul dorso della mano sinistra che le crea dei problemi. I tendini sono gravemente coinvolti, quelli che controllano l'articolazione delle dita. C'è stato bisogno di un trapianto. Sfortunatamente, il punto è piuttosto problematico.»
Matt si appoggiò allo schienale, e si grattò la fronte. «Infezione, vero?»
Justin annuì. «Speravamo di evitarla, ma con un'ustione così profonda e con tanti residui di terreno, era un'utopia. Adesso l'infezione è stata debellata, però ciò ha ritardato il recupero. Solo il tempo potrà dire che tipo di mobilità riuscirà a riguadagnare.»
Matt pensò alla mano delicata che aveva stretto nella sua mentre ballavano al ricevimento al Cattle man's Club. Alla pelle soffice come un petalo. Alle dita sottili, affusolate. «E la caviglia?»
Justin scosse il capo. «Ci sono delle riserve pure lì. È una brutta frattura. Anche con l'intervento e l'inserimento di perni, Chambers non può garantire che non zoppicherà per sempre.»
Matt guardò oltre Justin, verso la porta semiaperta della camera di Helena. Pensò alla donna bella, vivace, con cui aveva volteggiato a passo di valzer per tutta la pista da ballo. La donna i cui splendidi occhi color fiordaliso sorridevano ai suoi con interesse. La donna che aveva pronunciato il suo nome in un inglese perfetto, pur facendolo suonare straordinariamente esotico. La donna al di là di ogni perfezione.
Non c'era bisogno di essere nella sua testa per capire che la donna in quel letto d'ospedale, benché ancora molto bella, era ora gravemente deturpata, potenzialmente una disabile, e che il processo di riabilitazione sarebbe potuto essere lunghissimo. E Matt non accettava l'idea di non poter fare un bel niente per aiutarla.
«Hai bisogno di dormire, amico.» La voce di Justin irruppe improvvisamente nei suoi pensieri. «Fatti sostituire.»
«Non ci penso nemmeno. Non stanotte, comunque. I miei uomini sono tutti impegnati, quindi tocca a me.»
Dopo una lunga occhiata, Justin si alzò. «D'accordo. Lascia almeno che ti sostituisca per qualche ora. Posso farlo.»
«Ti ringrazio, ma questo è il mio incarico, non il tuo.»
L'occhiata lunga, pensosa di Justin rivolse a Matt la domanda che lui stesso si poneva ormai da tempo. Sei sicuro che sia solo un incarico?
Non era sicuro di niente, eccetto che non era pronto ad ammettere, neppure con se stesso, che fosse qualcosa di più. Sapeva solo che si sorprendeva a pensare a lei troppo spesso.
Una cosa era certa. I cinque membri del club rimasti coinvolti nell'incidente erano stati tutti concordi nel sostenere che lady Helena Reichard fosse responsabilità sua. Era un compito che aveva preso molto sul serio. Soprattutto dopo quanto era successo la settimana prima. Si era assentato per un attimo e, al suo ritorno, aveva trovato un tizio sulla porta della stanza di Helena. L'uomo se l'era data a gambe quando lui si era avvicinato, ma nel buio del corridoio, non era riuscito a vederlo in faccia. Chiunque fosse, rappresentava ancora una minaccia non trascurabile.
«Non vado da nessuna parte, Justin» dichiarò con fermezza.
«Già.» Indicò la stanza di fronte a quella di Helena. «Lì c'è un letto libero. Usalo. Faccio la guardia io per qualche ora. Fine della discussione.»
Quando Matt aprì la bocca per protestare, Justin tagliò corto. «Usalo» ordinò e andò nella stanza delle infermiere a prendere delle cartelle.
Helena fissò lo sguardo fuori della finestra d'ospedale alle prime luci dell'alba. L'incubo l'aveva svegliata. Di nuovo. Come spesso faceva, si sedeva al buio e iniziava una battaglia disperata con i ricordi ossessionanti dell'incidente.
Ingoiò la nausea che le salì in gola. Erano trascorsi quasi due mesi di nottate interminabili, e ancora non era riuscita ad accettare quel che le era successo.
Non era morta. Miracolosamente, non era morto nessuno. In effetti, lei e Robert Klimt, un membro del gabinetto di re Bertram, erano gli unici a essere rimasti gravemente feriti. Sì, lei era sopravvissuta, ma le sue ferite erano un ricordo costante che la vita, così come lei la conosceva, non sarebbe più stata la stessa.
Una rabbia impotente le infiammò la pelle mentre staccava con cautela il guanto protettivo - il suo inseparabile compagno per almeno un altro anno - dalla mano sinistra. Guardò sotto. La porzione sfigurata di pelle consumata, la ferita repellente, le dita rigide e inutili, che forse non avrebbero più sorretto una coppa di champagne, che non avrebbero più portato un anello, né sarebbero state sollevate fino alla bocca di un