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Un inganno dal passato
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E-book175 pagine2 ore

Un inganno dal passato

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Info su questo ebook

Dopo un lungo periodo nell'esercito, Justin Slade è finalmente tornato a casa. E la prima persona che incontra, sulla soglia del Sunset Ranch, gli fa pulsare il sangue nelle vene. Il viso acceso dalla rabbia e gli occhi fiammeggianti, Katherine Grady è più bella che mai. Justin ricorda fin nei minimi dettagli la notte che hanno trascorso insieme, fino a quando il suo sguardo si posa sul fagottino che lei ha tra le braccia. Un bambino. Anzi, un Justin in miniatura. Katherine sa che lui l'ha sedotta con l'inganno, ma ora è pronta a combattere per ottenere ciò che le spetta di diritto, e per l'amore dell'uomo che non ha mai perdonato, né dimenticato.
LinguaItaliano
Data di uscita10 giu 2020
ISBN9788830515802
Un inganno dal passato
Autore

Charlene Sands

Risiede nel sud della California con il marito e i loro due figli. Scrittrice dotata di grande romanticismo, è affascinata dalle storie d'amore a lieto fine ambientate nel Far West.

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    Anteprima del libro

    Un inganno dal passato - Charlene Sands

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    Sunset Seduction

    Harlequin Desire

    © 2013 Charlene Swink

    Traduzione di Canovi Roberta

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    Harmony è un marchio registrato di proprietà

    HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.

    © 2014 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-3051-580-2

    1

    Justin Slade era a casa. Da tre giorni, ormai.

    Il suo Ford F-150 sfrecciava sulla carreggiata con tanti cavalli motore da pareggiare la potenza dei migliori purosangue di Sunset Ranch, la radio sintonizzata sull’ultima hit country di Luke Bryan. Era una musica di quelle che ti fanno battere il ritmo per forza, e in qualsiasi altro momento Justin avrebbe quanto meno segnato il tempo battendo la mano sul cruscotto.

    Quel giorno, invece, non riusciva a godersi né la musica, né il cielo azzurro del Nevada o l’aria fresca del mattino, così chiara e frizzante da prospettare l’arrivo ormai imminente dell’inverno. Quel giorno, aveva lo stomaco sottosopra all’idea di ciò che stava per succedere. Il marine che era in lui non aveva alcun dubbio: stava facendo la cosa giusta. Doveva parlare, per il bene di Matilda Applegate... e per Brett.

    Pigiò il pulsante dell’autoradio e la voce di Bryan scomparve, riempiendo l’aria di un appropriato silenzio. Un brivido freddo lo avvolse come un mantello invisibile, rifiutandosi di lasciarsi scrollare di dosso dalla musica o dal bel tempo. Brett Applegate era morto. Era colpa di Justin, e la zia di Brett, la sua unica parente ancora in vita, meritava di conoscere la verità.

    Schiacciò il piede sul pedale e alzò lo sguardo sui sobborghi di Silver Springs, mentre la sensuale voce femminile del GPS gli forniva le coordinate; la strada deserta cominciò a restringersi e il nodo allo stomaco si serrò al punto che provò una fitta di dolore. Aveva partecipato a pericolose missioni in Afghanistan, ma i territori di guerra non gli avevano provocato tanta ansia. Come fedeli compagni di strada, il senso di colpa e l’apprensione non erano un granché.

    Ingurgitò due pastiglie di antiacido – di recente anche quelle erano diventate fedeli compagne di strada.

    «Tra cinquanta metri, girare a destra» istruì il navigatore.

    Justin fece svoltare il furgoncino e imboccò una stradina polverosa che si dipanava verso una fattoria, il cui unico piano era visibilmente segnato da inverni troppo rigidi, estati più bollenti dell’inferno e una sfilza di pessimi mesi tra l’uno e l’altro. Vedere la casa di Brett in simili condizioni, a testimonianza della miseria che aveva afflitto gli Applegate negli ultimi anni, fu straziante; l’amico era solito ripetere che allo zio Ralph sarebbe venuto un colpo se avesse visto cos’era successo alla fattoria di cui era stato tanto orgoglioso.

    Avvicinandosi ancora, Justin notò un’auto in panne, la gomma posteriore più afflosciata di una medusa spiaggiata, e una donna con la testa infilata nel bagagliaio; il superbo fondoschiena puntato verso il cielo attirò immediatamente la sua attenzione. Diavolo, qualunque uomo con un minimo di sale in zucca si sarebbe fermato a dare una mano.

    Justin frenò, gli occhi fissi su una visuale che non apprezzava da fin troppo tempo: un gran bel sedere femminile. Bastò quello a fargli girare la testa. Per la miseria, dopo nove anni nei Marines non ci voleva molto – ma diamine, se era una splendida vista!

    Deglutendo, scese dal furgoncino e si avvicinò alla vettura. La camicetta della donna le era risalita fino in vita, mentre lei continuava a frugare nel bagagliaio, e gli occhi di Justin si incollarono sui quei centimetri di pelle morbida come burro.

    «Santo cielo, cos’altro c’è che non va?» La sua voce si riversò su di lui come bourbon corposo. Adocchiò ancora quella striscia di pelle.

    Ragazzi...

    Quindi si schiarì la voce – accidenti alla madre che gli aveva insegnato le buone maniere. Costringendosi a distogliere lo sguardo dallo splendido panorama, si concentrò sui capelli biondi come i raggi del sole. «Mi scusi, signorina. Posso esserle d’aiuto?»

    La ragazza si tirò su di colpo, sbattendo la testa contro il portellone. «Ohi.» Fece una smorfia mentre si portava una mano sul capo, sfregandolo per far passare il dolore. «Oh, non l’avevo vista...»

    I loro sguardi si incrociarono, la mano si immobilizzò tra i capelli. Arcuò le sopracciglia, le labbra che formavano una O perfetta. «Oh.»

    Era una bomba mozzafiato, ma qualcosa nella memoria di Justin interruppe il flusso di pensieri inappropriati: ricordava quegli occhi verdi come la giada, quella bocca sensuale e i capelli alla Marilyn che in poche potevano permettersi di portare. Avrebbe scommesso tutto ciò che aveva che non l’avrebbe mai rivista, eppure... se la ritrovava proprio davanti, in carne e ossa.

    Justin non credeva molto alle coincidenze, e quella era troppo assurda da ignorare. Lo stomaco si contorse, mendicando un altro antiacido.

    Forse si stava sbagliando, in fondo era passato più di un anno e mezzo. Forse assomigliava solo alla donna che aveva conosciuto a New York quel fatidico fine settimana...

    Quando tolse lo Stetson, gli occhi della ragazza brillarono.

    «Non volevo spaventarla, signorina.»

    I secondi scorsero lentamente, mentre lei prendeva nota dei suoi scintillanti stivali neri, jeans nuovi, cintura con fibbia d’argento e camicia col colletto aperto. Studiò il suo viso e fissò a fondo nei suoi occhi.

    Doveva essere lei.

    La mente di Justin ritornò a quella sera al bar del Golden Palace.

    «Non esco coi soldati» aveva detto lei, quando lui si era avvicinato al suo tavolo.

    Justin si era seduto comunque, sorridendole. «Ma farai un’eccezione per me.»

    «B-Brett? Sei davvero tu?» La speranza nella sua voce lo confuse, prima di essere stordito da un altro colpo. Oh diavolo, non era possibile. «Io non capisco» stava dicendo lei. «Ci avevano detto... ci avevano detto che eri morto. Ucciso in uno scontro a fuoco. Oh mio Dio, tua zia Mattie sarà così felice! C’è stato un fraintendimento? Che cos’è successo?»

    Lui inspirò a fondo, prima di distogliere lo sguardo dal suo, serrando gli occhi contro il sole pomeridiano. Farabutto. Si detestava per la bugia, e per il dolore che le avrebbe causato rivelando la verità.

    «Non sono Brett Applegate» spiegò alla bionda.

    Lei strinse le labbra e inclinò la testa da una parte, studiandolo a fondo. «Ma mi ricordo di te. Ti sei dimenticato di me? Sono Katherine Grady, Kat per gli amici.»

    Per la miseria, certo che la ricordava. Ma non aveva la più pallida idea del perché Kat si trovasse lì, splendida come sempre, davanti alla casa degli Applegate.

    A denti stretti, maledisse la scommessa che aveva fatto con Brett. Justin non avrebbe mai pensato di perdere a braccio di ferro col compagno d’armi, non era mai successo prima. Eppure, quella volta aveva perso tre volte su cinque, giusto prima che fossero selezionati per accompagnare un generale a un summit di tre giorni a Washington. Svolto il loro compito, avevano avuto libera uscita a New York prima di tornare in Afghanistan.

    L’oggetto della scommessa? Scambiarsi l’identità per il fine settimana. Avevano svuotato le tasche, e il buon vecchio Brett aveva fatto i salti di gioia all’idea di vivere la vita di Justin anche solo per un paio di giorni. Gli aveva sventolato la sua carta di credito in faccia, raccogliendo i settecento dollari che Justin aveva appena mollato sulla brandina. «Me la spasserò a essere te» aveva gongolato con un sogghigno un po’ maniacale.

    Da parte sua, Justin aveva investito i pochi contanti di Brett in una bottiglia di vino in albergo, dopodiché Kat l’aveva condotto al proprio piccolo appartamento al quarto piano senza ascensore. Justin aveva voglia di divertirsi, e aveva pensato che fosse lo stesso per lei. Si erano trovati. Non avrebbe mai immaginato che le cose si sarebbero complicate.

    «Mi ricordo di te, bellezza.»

    I suoi occhi si addolcirono. «Nessun altro mi ha mai chiamato così.»

    La tenerezza nella sua voce lo fece sussultare. «Il mio nome non è Brett. Sono Justin Slade e vivo a venti miglia da qui. Brett e io eravamo commilitoni.»

    La voce di Kat si fece tirata. «Hai detto Justin... Slade

    Annuì.

    «Justin Slade del Sunset Ranch

    Annuì di nuovo.

    «Ma, noi... Mi avevi detto che il tuo nome era Brett Applegate, che eri un marine in procinto di tornare oltremare. Mi hai raccontato di questo posto... Tu...»

    Justin fece una smorfia. Si sentiva una carogna; aveva mentito a una donna, approfittando della sua fiducia – cosa che non aveva mai fatto prima. Deglutì il rimorso e abbassò la voce. «Ho mentito.»

    L’espressione di Kat fu di per sé una condanna, e lui non poteva biasimarla. Era stata una scommessa stupida e una cosa ancora più stupida condurla a termine.

    Lentamente, Kat si portò una mano alla bocca, cominciando a scuotere il capo. «Oh... no. No, non può essere vero.»

    «Forse è meglio se entriamo. Posso spiegarti. Matilda Applegate è in casa?»

    Kat chiuse gli occhi e li tenne chiusi come se stesse pregando, e il tono di Justin si fece più deciso. «Kat.»

    Sbattendo le palpebre diverse volte, lei lo guardò a lungo prima di rispondere. «Non possiamo entrare in casa.»

    «Perché no?»

    Proprio in quel momento la porta d’ingresso si aprì e ne uscì una donna un po’ in là con gli anni, con in braccio un bimbetto. La donna si muoveva lentamente ma con precisione, come calcolasse ogni passo che faceva. Gli occhi azzurri erano quanto di più vitale c’era in lei, evidenziati da eye-liner e ombretto; il fondotinta, invece, sembrava mettere in risalto, più che nascondere, le rughe sul viso. Ma la gentilezza nel suo sguardo era autentica, e rivolta proprio a lui.

    «Mi è parso di sentire delle voci. Chi abbiamo qui?»

    Il bambino si voltò a guardarlo, ma subito tornò a girarsi per aggrapparsi al collo della donna, scalciando le gambette. Lei lo strinse mentre gli sussurrava rassicurazioni nell’orecchio. «Andiamo, Connor, tesoro mio. Non aver paura.»

    Kat si schiarì la voce. «Zia Mattie, questo è Justin Slade.»

    La donna inarcò le sopracciglia mentre cercava di collocare il nome. «Slade? Mi suona familiare.»

    «Ero un amico di Brett. Sono qui per parlare con lei.»

    Katherine Grady era in grado di cavarsela in parecchie brutte situazioni. Figlia unica, era cresciuta in una casa dove abusi e violenza erano all’ordine del giorno; insieme alla madre era passata da rifugio a rifugio, scappando dal padre bellicoso e facendo il possibile per impedire alla madre di cadere a pezzi. Non c’era niente di romantico o eroico nel vivere di elemosina, nel non sapere se nel giro di pochi minuti avrebbero dovuto darsi alla fuga, o se avrebbero avuto cibo e riparo sufficienti.

    Kat aveva imparato a sopravvivere, fin da piccola.

    Di solito celava bene le proprie emozioni, ma in quel momento la paura le serrò la gola, facendole battere forte il cuore. Tremava così tanto che le ginocchia vacillarono. Com’era possibile? L’uomo che per tutto quel tempo aveva pensato fosse Brett era in realtà Justin Slade. Buon Dio. Non riusciva a concepire la menzogna che le aveva raccontato, era troppo. Ma in quel momento, ciò che provava non aveva importanza; ciò che contava davvero era zia Mattie: la donna non poteva rischiare una ricaduta durante la convalescenza.

    Matilda invitò Justin a entrare e lui non esitò, e Kat si pietrificò all’idea di ciò che stava per succedere. L’avrebbe fatta morire di dolore, e lei non sapeva come impedirlo, come proteggerla dalla verità.

    «Siediti, figliolo» indicò zia Mattie quando furono in soggiorno. «Se non ti spiace, mi siedo anch’io. Il piccolo Connor, qui, è un bel daffare, mi fa stancare parecchio. Ormai pesa quasi nove chili – non è così, Kat?»

    Kat aveva lo stomaco annodato. Annuì, esitante, prima di sedersi sulla punta di una poltrona colorata a fiori; Justin, invece, prese posto sul divano e appoggiò il cappello accanto a sé, continuando a lanciare occhiate curiose al bambino.

    «Scusa la confusione» riprese zia Mattie. «Kat sta facendo meraviglie per sistemare questo posto con un budget limitato. Ci sa fare, non trovi?»

    Educatamente, Justin si guardò intorno. Kat si chiese se un uomo avrebbe notato i cuscini fatti a mano, i piccoli tappeti in tinta e i vasi di fiori che insieme alle fotografie erano sistemati in posizione strategica nella modesta dimora di tre stanze. La prima volta che vi aveva messo piede, Kat aveva trovato una casa in condizioni tremende; in due mesi era riuscita a riportarla in vita. E il suo arrivo – o meglio, l’arrivo di Connor – aveva dato nuova vita a Matilda Applegate.

    «È carina, accogliente» commentò Justin.

    Kat era frastornata. Comprendeva le bugie, fino a un certo punto: anche lei in qualche occasione aveva dovuto farvi ricorso. Poteva perdonarle, se significava non avere problemi o proteggere chi si ama. Ma

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