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100 personaggi che hanno fatto la storia di Firenze
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E-book416 pagine5 ore

100 personaggi che hanno fatto la storia di Firenze

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L’incredibile storia di Firenze emerge anche nei ritratti degli uomini e delle donne che l’hanno resa grandeSono molti i personaggi, attuali o del passato, che hanno fatto la storia di Firenze da un punto di vista artistico, politico, scientifico e culturale. Si tratta di figure che hanno influenzato in modo netto la storia della città – e in alcuni casi anche il resto del mondo. Non tutti sono nati sulle rive dell’Arno, ma qui hanno comunque lasciato la loro impronta (Leonardo, Galileo o Michelangelo, per esempio) e meritano di essere menzionati. Cento biografie per conoscere meglio le loro storie e, soprattutto, il legame straordinario che ha intrecciato vite di uomini e donne eccezionali alle vicende della città di Firenze. Non mancheranno aneddoti e curiosità in grado di stuzzicare curiosità nel lettore, spingendolo a desiderare di documentarsi ancora. Il libro è diviso in due parti. La prima comprende personaggi storici, come per esempio alcuni membri fondamentali della famiglia Medici, artisti e filosofi rinascimentali, ma anche viaggiatori, inventori, collezionisti, figure ecclesiastiche di rilievo, mecenati, musicisti e personaggi cardine per la storia fiorentina e mondiale. La seconda parte è dedicata ai personaggi della storia più recente e dà spazio ad attori, scrittori, musicisti, pittori, scienziati, sportivi, stilisti, politici che sono stati, o ancora sono, portabandiera della città.

I ritratti illustri di uomini e donne d’arte, di cultura, di potere e di spettacolo

Tra i protagonisti della storia fiorentina:

Dante Alighieri - Pellegrino Artusi - Gino Bartali - Roberto Benigni - Giovanni Boccaccio - Sandro Botticelli - Filippo Brunelleschi - Michelangelo Buonarroti - Carlo Collodi - Leonardo Da Vinci - Caterina De’ Medici - Donatello - Oriana Fallaci - Galileo Galilei - Artemisia Gentileschi - Margherita Hack - Niccoló Machiavelli - Aldo Palazzeschi - Raffaello Sanzio - Tiziano Terzani - Vamba - Amerigo Vespucci

…e molti altri indimenticabili personaggi
Ippolita Douglas Scotti
Figlia del nobile commissario del quartiere di San Giovanni nel Corteo del Calcio Storico, è nata a Firenze. Ha scritto libri di vario genere e collaborato con associazioni culturali volte a valorizzare la città e le sue dimore storiche. Con la Newton Compton ha pubblicato 101 perché sulla storia di Firenze che non puoi non sapere, I Signori di Firenze, 100 personaggi che hanno fatto la storia di Firenze e i manuali Zenzero e curcuma, Le miracolose virtù dei superfood, Bicarbonato tuttofare e La cucina regionale italiana vegetariana.
LinguaItaliano
Data di uscita2 ott 2020
ISBN9788822743589
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    100 personaggi che hanno fatto la storia di Firenze - Ippolita Douglas Scotti

    LEON BATTISTA ALBERTI

    (Genova, 14 febbraio 1404 – Roma, 25 aprile 1472)

    Una delle figure più eclettiche del Rinascimento, che pur non essendo nato a Firenze è stato fondamentale per la storia della città, è Leon Battista Alberti.

    Questo personaggio poliedrico dalla mente assai brillante è soprattutto noto per i suoi lavori architettonici ma Alberti, vera incarnazione dell’uomo rinascimentale, fu anche un filosofo umanista, un autore di testi vari e importanti, un linguista e un crittografo.

    Inoltre fu un appassionato di antiquariato e di archeologia, un fine musicista, un astronomo, un cartografo e un matematico. Proprio la matematica era una delle sue grandi passioni e la applicava sia in campo musicale, che nei suoi rivoluzionari progetti di architettura.

    Il Vasari ne fu un grande sostenitore, descrivendolo nelle sue Vite de’ più eccellenti architettori, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri con queste parole lusinghiere:

    Fu bonissimo aritmetico e geometrico, e scrisse dell’architettura dieci libri in lingua latina, publicati da lui nel 1481, et oggi si leggono tradotti in lingua fiorentina dal reverendo Messer Cosimo Bartoli, preposto di San Giovanni di Firenze. Scrisse della pittura tre libri, oggi tradotti in lingua toscana da Messer Lodovido Domenichi; fece un trattato de’ tirari et ordini di misurar altezze; i libri della vita civile et alcune cose amorose in prosa et in versi; e fu il primo che tentasse di ridurre i versi volgari alla misura de’ latini.

    Leon Battista Alberti nacque a Genova ed era il figlio illegittimo di Lorenzo Alberti, appartenente a una ricca famiglia di mercanti e banchieri fiorentini; suo nonno Benedetto fu bandito insieme a tutta la famiglia dalla città per problemi di ordine politico nel maggio del 1387.

    Sua madre era la nobildonna genovese Bianca Fieschi.

    In ambito architettonico e umanistico la prerogativa dell’Alberti era focalizzata sul rielaborare il concetto moderno dell’antico, considerando l’antichità come fonte suprema alla quale attingere, esempio inossidabile al quale ispirarsi, per adattarlo al suo tempo.

    Come architetto lavorò intensamente a Roma, a Ferrara, a Rimini, a Mantova, ma soprattutto a Firenze, che fu l’unica città che vide le sue opere compiute prima della sua morte.

    Leon Battista Alberti arrivò in città nel 1434 al seguito della curia papale, la stessa delegazione che poi partecipò al concilio ecumenico del 1438-1439, e rimase affascinato dalle opere del Brunelleschi, di Masaccio, di Donatello e dei Della Robbia.

    Il suo illuminato mecenate fu il nobiluomo Giovanni di Paolo Rucellai, un ricco mercante di impeccabile gusto, amico della sua famiglia, molto legato all’Alberti per affinità intellettuale e sostenitore dei Medici.

    Venne da lui commissionata all’Alberti la facciata di Palazzo Rucellai, in via della Vigna Nuova, e il sacello gerosolimitano. Era intenzione infatti dei Rucellai far costruire un monumento funebre che, per fattezze, ricordasse in miniatura il Santo Sepolcro, reinterpretato architettonicamente in una struttura classica. Nelle trenta tarsie marmoree bicromiche che si alternano nel sacello, tipiche della tradizione romanica fiorentina, oltre a decorazioni con alto valore simbolico, si notano anche gli stemmi araldici e i motivi decorativi con le imprese personali, non solo di Giovanni Rucellai, ma anche di Lorenzo il Magnifico, con i tre anelli intrecciati, di Cosimo il Vecchio, col mazzocchio a tre piume, e di Piero il Gottoso, con l’anello col diamante con tre piume infilate.

    Tutti personaggi storicamente correlati alla nobile famiglia fiorentina.

    Lo stemma dei Rucellai è rappresentato con la vela della fortuna a sartie sciolte, gonfiata dal vento, presente anche sulla facciata della basilica di Santa Maria Novella, a simboleggiare l’agiatezza dei facoltosi mercanti tessili che fecero la loro fortuna grazie alla scoperta del prezioso pigmento purpureo usato per tingere i tessuti proveniente dalla pianta dell’oricello, coltivata appunto negli Orti Oricellari.

    Il sacello del Santo Sepolcro fu l’ultima opera eseguita da Leon Battista Alberti. Oggi la chiesa di San Pancrazio, incastonata su via della Spada, proprio sul retro di Palazzo Rucellai, è sede del suggestivo museo Marino Marini, ma la cappella Rucellai che lo contiene è ancora l’unica porzione consacrata della chiesa.

    Un capolavoro fondamentale per Firenze apportato da Leon Battista Alberti fu la facciata marmorea della basilica di Santa Maria Novella, che rappresenta una delle opere più importanti del Rinascimento fiorentino. Sulla facciata sono anche presenti due oggetti astronomici notevoli: una sfera armillare e una meridiana. Entrambi gli strumenti sono stati messi all’epoca del granducato di Cosimo I, da un vescovo domenicano chiamato Ignazio Danti.

    Sul bel fregio marmoreo bicolore della trabeazione, si identifica l’arma dei Rucellai, che anche in questa opera architettonica dell’Alberti vuole commemorare il ricco mercante e mecenate Giovanni di Paolo Rucellai, che generosamente finanziò l’opera di completamento della chiesa, affidando l’incarico al suo architetto preferito. Anche sull’architrave superiore vi è un’iscrizione che ricorda il benefattore e un simbolico anno di completamento, il 1470:

    IOHA(N) NES ORICELLARIUS PAV(LI) F(ILIUS) AN(NO) SAL(VTIS) MCCCCLXX

    , ovvero Giovanni Rucellai, figlio di Paolo, anno 1470.

    Leon Battista Alberti non è ricordato unicamente come architetto, ma fu anche un prolifico scrittore e importantissimo teorico dell’arte. Sui suoi testi studiarono e si ispirarono gli artisti a lui successivi. In molte delle sue opere si nota la ricerca delle proporzioni e delle regole della prospettiva, come nel De pictura, la cui versione in volgare è dedicata al Brunelleschi, nel De statua o nel De re aedificatoria, che fu terminato nel 1452. L’opera fu stampata solo nel 1485 con una prefazione del Poliziano per Lorenzo il Magnifico e divenne il primo libro stampato di argomento architettonico della storia.

    Appassionato di lettere, nonostante scrivesse in latino, Leon Battista Alberti fu un accanito sostenitore della lingua volgare e indisse nel 1441, appoggiato da Piero de’ Medici, un Certame coronario a Firenze, componendo anche sedici Esametri sull’amicizia composti con stile e metrica innovativi.

    Nel 1470, un paio d’anni prima della sua morte, Alberti scrisse De Iciarchia, usando come sfondo la Firenze medicea.

    Come archeologo, Alberti scrisse una Descriptio urbis Romae, dove tentava di descrivere un’accurata ricostruzione della topografia della Roma antica.

    Il cardinale Prospero Colonna dette all’Alberti l’incarico di recuperare le due navi romane costruite da Caligola e affondate come damnatio memoriae nel lago vulcanico di Nemi, sui colli Albani, luogo sacro a Diana, dove si svolgevano in onore della dea, i Nemoralia.

    Alberti, per tentare il recupero, si servì di una zattera costruita con botti vuote e di alcuni esperti nuotatori genovesi che tentarono inutilmente di trainare con uncini di ferro la prima nave a riva, provocando però uno smembramento del fasciame ligneo e solamente il recupero delle fistole in piombo.

    Leon Battista Alberti fu anche crittografo: inventò un metodo di messaggi cifrati decodificabili con un apposito apparecchio, il disco cifrante, descritto nell’opera De Cifris del 1467, in cui propose per la prima volta il rivoluzionario passaggio da una lettura monoalfabetica a una polialfabetica, tramite due dischi mobili concentrici con lettere chiave inserite nel corpo del crittogramma. Alberti disegnò anche delle mappe, in collaborazione col famoso cartografo Paolo Toscanelli.

    Alberti musicista invece, viene ricordato come uno dei primi organisti del suo tempo.

    La figura di Leon Battista Alberti è davvero la summa delle doti e degli interessi che caratterizzarono l’uomo universale rinascimentale.

    Dopo una vita operosa e intensissima, Alberti si spense a Roma nel 1472.

    DANTE ALIGHIERI

    (Firenze, tra il 21 maggio e il 21 giugno 1265 –Ravenna, notte tra il 13 e il 14 settembre 1321)

    Riconosciuto anche come il sommo poeta, Dante Alighieri è stato la più importante figura mondiale della letteratura di tutti i tempi, nonché il padre della lingua italiana.

    Dante fu battezzato a Firenze come Durante di Alighiero degli Alighieri, il 27 marzo 1266.

    La sua precisa data di nascita è sconosciuta, ma da alcune allusioni riportate nella sua opera principale, la Divina Commedia, si deduce che era del segno dei Gemelli.

    Il nome Durante fu sincopato in Dante, in onore di un suo parente ghibellino.

    La famiglia Alighieri faceva parte della piccola nobiltà di Firenze. Il nonno di Dante, Bellincione, entrò nell’élite fiorentina come cambiavalute ed era un guelfo privo di ambizioni politiche, quindi non fu esiliato durante la battaglia di Montaperti, perché ritenuto innocuo.

    Di famiglia ghibellina invece, era la madre di Dante, Gabriella degli Abati, detta Bella, che morì quando il figlio aveva circa sei anni. Di lei si hanno pochissime notizie, ma si capisce da alcuni versi del poeta che Dante le era affezionato.

    Il padre Alighiero, anche lui compsor come il nonno di Dante, si risposò presto con madonna Lapa di Chiarissimo Cialuffi.

    Cacciaguida, come si sa dalla Divina Commedia, fu il trisavolo del poeta e molte delle informazioni che lo riguardano sono state fornite proprio da Dante nel suo poema immortale.

    Crociato e guerriero, Cacciaguida nacque nel 1091 e fu il capostipite della casata Elisei Alighieri; sua madre era Maria Alighieri, probabilmente ferrarese, e suo padre era della nobile schiatta degli Elisei; i suoi fratelli erano Aldighiero, da cui discese il ramo Alighieri della famiglia, Eliseo e Moronto. Cacciaguida fu investito cavaliere da Corrado

    III

    di Svevia e partecipò alla seconda crociata, ove trovò la morte. Aldighiero ebbe un figlio, Bellincione, da cui nacque il padre di Dante, Alighiero.

    All’età di dodici anni Dante venne promesso a Gemma di ser Manetto Donati, i due si sposarono poi, nel 1228. La famiglia di Gemma era una delle più influenti della città e divenne fondamentale quando si scatenò la guerra civile che divise Firenze fra le fazioni dei guelfi e dei ghibellini, schierandosi a capo dei guelfi neri, il partito opposto a quello di Dante.

    Dal matrimonio fra Dante e Gemma, nacquero i figli Jacopo, Pietro e Antonia e forse un quarto, Giovanni.

    Pietro, il figlio maggiore di Dante, fu ascritto alla nobiltà di Verona, fu magistrato e critico letterario e morì a Treviso nel 1346.

    Jacopo lo seguì nell’esilio e poi nel 1325 tornò a Firenze, ricevette da Tedici, vescovo di Fiesole, gli ordini minori e la tonsura e diventò chierico, impegnandosi a sistemare la situazione economica familiare e riuscendo a riottenere i beni paterni confiscati nel 1343.

    Ebbe una relazione con Jacopa di Biliotto degli Alfani, dalla quale ebbe una figlia di nome Alighiera, promise di sposarla, ma non lo fece mai, nonostante avesse già ottenuto la dote.

    Jacopo morì a Firenze durante la pestilenza del 1348, lasciando solo le sue opere letterarie.

    La figlia di Dante, Antonia, prese i voti e andò al monastero di Santo Stefano degli Ulivi a Ravenna. Da monaca si fece chiamare suor Beatrice. Conobbe Boccaccio nel 1350, che venne in visita per portarle dieci fiorini d’oro a nome dei capitani della compagnia di Orsammichele.

    Gli Alighieri vivevano nel centro storico dalle parti di via dei Magazzini, vicino alla chiesa, dove Dante si innamorò platonicamente di Beatrice Portinari, e a due passi dal duomo.

    Beatrice era figlia di Folco Portinari, sposata a Simone de’ Bardi, appartenente all’omonima importante famiglia fiorentina, e morta tragicamente di parto nel 1290.

    Dante apprese l’arte retorica e la personalizzò completamente creando la sua opera eterna, la Divina Commedia; egli fu legato a molti poeti dell’epoca, quali Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e Cino da Pistoia. Verso il 1280 Dante incontrò ser Brunetto Latini, un erudito scrittore autore del Tesoretto, che partecipò attivamente alla vita politica fiorentina e che ebbe molta influenza sulla sua educazione. Anche se nell’Inferno il poeta lo condanna confinandolo fra i sodomiti, non nasconde la stima e il grande affetto che nutre per lui.

    Poco dopo il matrimonio il giovane Dante combatté a cavallo nelle battaglie di Campaldino, del 1289 e di Caprona, vicino a Pisa, nello stesso anno.

    Dopo gli Ordinamenti di Giustizia propugnati da Giano della Bella, Dante venne escluso dalla vita politica fiorentina, in quanto nobile e non iscritto alle Arti.

    Dopo i Temperamenti, che rendevano possibili le cariche pubbliche agli aristocratici, purché iscritti alle Arti, Dante scelse di far parte dell’Arte dei Medici e degli Speziali.

    Prese parte allora, dal novembre del 1295 all’aprile del 1296, al consiglio del popolo e fu tra i savi nel dicembre del 1296 e fu anche membro del Consiglio dei Cento.

    Contemporaneamente avvenne la frattura intestina nella fazione dei guelfi che vide come protagonisti i Donati, che capeggiavano i guelfi neri, e i Cerchi, che invece erano guelfi bianchi. Dante si schierò fra le file dei più moderati guelfi bianchi.

    Nel 1300 il sommo poeta divenne uno dei sette priori e osteggiò papa Bonifacio

    VIII

    , vedendolo come l’emblema della decadenza morale ecclesiastica, e approvò a malincuore l’esilio di alcuni guelfi delle due fazioni, fra i qual c’era l’amico Guido Cavalcanti.

    Questa decisione, presa unicamente col diplomatico tentativo di riappacificare le parti, in realtà scatenò l’odio contro il poeta da entrambe le fazioni.

    La politica espansionistica del papa, combattuta aspramente da Dante, fece sì che, mentre in città le guerre intestine fra i guelfi si stavano infiammando, scattasse una subdola trappola architettata da Bonifacio

    VIII

    , dalla quale il poeta non ebbe scampo.

    I capi dei guelfi neri nel 1301 poterono rientrare in città, in quanto erano appoggiati dal papa, e si impadronirono del potere proprio mentre Dante Alighieri si trovava a Roma, a capo di una delegazione del Comune presso il pontefice, dove si era recato per convincerlo a desistere dai suoi propositi di interferire nella politica del comune di Firenze.

    Nel gennaio del 1302 Dante fu ingiustamente accusato di baratteria e concussione e bandito dalla città di Firenze. Non avendo mai accettato l’invito a rientrare in città, a patto di riconoscersi colpevole dei reati di cui era stato vigliaccamente accusato, Dante Alighieri venne condannato alla confisca dei beni di famiglia e all’esilio che avvenne il 10 marzo, provocando al poeta un grandissimo dolore.

    Fu proprio questa interiore e profonda delusione sofferta, che fece scaturire la nascita del suo capolavoro letterario: la Divina Commedia.

    Dante non fece mai più ritorno nella sua Firenze e trascorse il suo esilio insieme alla famiglia, ospite di Bartolomeo della Scala a Verona, dei marchesi Malaspina in Lunigiana nel castello di Fosdinovo, ancora a Verona da Cangrande della Scala e infine da Guido Novello da Polenta a Ravenna, dove trovò la morte nel 1321.

    Durante l’esilio i suoi ideali politici cambiarono, infatti si avvicinò alle posizioni dei ghibellini, confidando nell’unificazione di tutta l’Europa sotto il regno di un imperatore illuminato.

    Dante morì a Ravenna di febbri malariche e per commemorarlo, visto che fu negata la possibilità di riportare in patria le sue esequie, vi è una statua in suo onore all’ingresso della scalinata che porta alla chiesa di Santa Croce, pantheon degli ingegni italici.

    La statua commemorativa fu scolpita nel 1865 dallo scultore ravennate Enrico Pazzi. Anche dentro Santa Croce c’è un mausoleo ottocentesco, scolpito da Stefano Ricci nel 1826, ancora in attesa di accogliere le ossa del sommo poeta.

    Sono le sue opere a renderlo immortale.

    PIETRO ANNIGONI

    (Milano, 7 giugno 1910 – Firenze, 28 ottobre 1988)

    Pietro era figlio di Riccardo e della californiana Therese, nata a San Francisco, e aveva due fratelli.

    Il pittore si trasferì con la famiglia da Milano a Firenze nel 1925, per motivi di lavoro del padre un ingegnere al quale era stato affidato l’incarico di installare la rete telefonica automatica della città.

    A Firenze Annigoni conseguì il diploma di maturità classica al Collegio dei padri Scolopi.

    La sua fascinazione per le arti e soprattutto per gli studi di Leonardo da Vinci lo portarono a frequentare l’Accademia di Belle Arti, dove poté formare la sua personalità e affinare la sua predilezione per i ritratti realisti del passato, traducendoli però in un linguaggio contemporaneo molto personale e intenso.

    Fu proprio il modo originale con cui si approcciò alla ritrattistica, cercando di trasmettere tramite il pennello umori e sentimenti di coloro che ritraeva, a renderlo famoso e apprezzato in tutto il mondo.

    Pietro Annigoni si interessò moltissimo anche alle tecniche pittoriche rinascimentali come il carboncino, la sanguigna sfumata con i polpastrelli e la tempera grassa, prodotta artigianalmente seguendo la ricetta di Cennino Cennini, pittore dell’inizio del

    XV

    secolo, diventando così l’erede della sapienza dei maestri antichi.

    Bernard Berenson disse di lui: «Pietro Annigoni, non solo è il più grande pittore di questo secolo, ma è anche in grado di competere alla pari con i più grandi pittori di tutti i secoli e rimarrà nella storia dell’arte come il contestatore di un’epoca buia».

    Annigoni esordì facendo una prima mostra personale nel 1932 a Palazzo Feroni a Firenze nella Galleria Bellini, esposizione che fu acclamata dalla critica.

    Nel 1937 si sposò con Anna Maggini, una studentessa del Cherubini; ebbero un rapporto molto intenso, fondato su comuni ideali che però sfociò nel 1954 in una sofferta separazione consensuale. Anna restò comunque una figura di riferimento per il pittore, come dimostrano le commoventi pagine del Diario scritto da Annigoni dedicate alla morte della moglie, avvenuta nel 1969.

    Anna Maggini dette al maestro due figli, Benedetto, nato nel 1939, e Maria Ricciarda, nata nel 1948. Nonostante le lunghe assenze e le complicate vicissitudini familiari, Annigoni riuscì a costruire un solido rapporto affettuoso con i figli, tanto che nel suo testamento designò Benedetto come la persona a lui più vicina «nella sua vicenda di uomo e di artista».

    Negli anni della seconda guerra mondiale la famiglia Annigoni fu accolta a Serravalle Pistoiese da Alido Michelozzi e poi tornò a Firenze.

    Nel 1947 Pietro firmò, insieme a Xavier e Antonio Bueno e a Gregorio Sciltian, il Manifesto dei Pittori Moderni della Realtà, ponendosi in antitesi a tutte le varie forme di astrattismo imperanti nel primo dopoguerra. La tecnica antica della tempera grassa che rese famoso Annigoni era un chiaro segno del rifiuto delle nuove tendenze pittoriche usate in quel periodo.

    Annigoni restò per tutta la vita fedele al realismo e mai cedette a compromessi.

    Il Manifesto venne distribuito alla prima mostra collettiva ufficiale svoltasi a Milano, alla Galleria del Pittore Italiano. Ma il gruppo di artisti ebbe vita breve, anche se trovò il pieno appoggio di affermati pittori come Giorgio De Chirico. Pietro viaggiò e divenne celebre come ritrattista di personaggi famosi, esponendo all’estero. A Londra espose anche alla Royal Academy ed eseguì nel 1955 il ritratto dalla regina Elisabetta

    II

    , rendendo perfettamente sia la nobiltà del portamento che la carica interiore del quadro, con una maestria che lo portò a diventare il pittore delle regine e non solo.

    Il ritratto della regina di Inghilterra divenne così famoso da essere riportato in francobolli e su una banconota delle isole Mauritius. Annigoni ritrasse anche la regina madre, la principessa Margareth, il duca di Edimburgo, Margherita

    II

    di Danimarca, Farah e Reza Pahlavi, ultimo scià di Persia, John Fitzgerald Kennedy, papa Giovanni

    XXIII

    , Alcide de Gasperi, ma anche personaggi più umili, e sé stesso. Amante della paesaggistica, il maestro si espresse nelle sue gouache di luoghi visitati durante i suoi viaggi in Africa, in Iran, in India, in America e in Europa, cogliendo nelle sue opere gli aspetti più profondi della natura.

    Sua musa e seconda moglie, sposata nel 1977, fu la modella Rossella Segreto, conosciuta sulla nave Raffaello durante uno dei suoi viaggi, alla quale dedicò il suo ultimo ritratto.

    Abilissimo nella tecnica pittorica dell’affresco, fra il 1950 e il 1980, Annigoni si dedicò a decorare il convento di San Marco a Firenze, l’abbazia di Montecassino con la vita di San Benedetto, la chiesa di San Martino a Castagno d’Andrea, il santuario della Madonna del Buon Consiglio a Ponte Buggianese e la basilica di Sant’Antonio a Padova. Fece anche un disegno per un affresco nel santuario di Fontelucente a Fiesole.

    Negli ultimi anni solitari, nella sua casa delle Cure Alte, Annigoni si dedicò a dipingere grandi tele in cui l’artista viene rappresentato come un manichino.

    Tra i tanti riconoscimenti onorifici e accademici in Italia e all’estero, si ricordano quello di Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica Italiana e quello di Cavaliere all’Ordine Civile di Savoia.

    Dopo una lunga malattia, durante la quale il maestro ebbe il conforto amorevole di Rossella e dei figli Benedetto e Maria Ricciarda, Pietro Annigoni morì il 28 ottobre 1988 a Firenze, dove riposa nel cimitero monumentale delle Porte Sante a San Miniato al Monte.

    GIANCARLO ANTOGNONI

    (Marsciano, 1º aprile 1954)

    Qualsiasi tifoso viola e non conosce le incredibili gesta di Giancarlo Antognoni, magico centrocampista soprannominato affettuosamente a Firenze Antogno, che dagli inizi degli anni Settanta fece la storia del calcio italiano con le sue mirabolanti imprese sportive.

    Antognoni è stato bandiera e capitano della squadra della Fiorentina, alla quale è rimasto fino all’ultimo fedele, giocando con la maglia viola per l’intera carriera professionistica, per poi concludere la sua attività in Svizzera.

    Giancarlo Antognoni è stato ed è ancora oggi il simbolo di un’intera città, un amore viscerale corrisposto fra Firenze e il numero 10 della squadra viola.

    Il grande campione però ha origini umbre e milaniste: suo padre gestiva il bar dello sport di Perugia, che era anche la sede del Milan Club, squadra in cui Giancarlo, da bambino, sognava di giocare e come eroe aveva il calciatore Gianni Rivera.

    Il presidente Ugolini acquistò Antognoni per la sua Fiorentina nel 1972 per 435 milioni di lire e Giancarlo esordì in serie

    A

    ad appena diciotto anni, segnando una vittoria per i Viola sul campo del Verona. Antognoni scese in campo con la maglia numero 8 affermandosi come protagonista di un esaltante primo tempo e, nel resoconto della partita, il «Corriere dello Sport» lo elogiò paragonando Antognoni all’idolo della sua infanzia, descrivendolo come «un giovanissimo Rivera».

    Presto Antognoni divenne il capitano della squadra gigliata, che nel 1975 vinse la Coppa Italia.

    Questo indimenticabile campione detiene il record di presenze fra i giocatori viola con 341 gare in serie

    A

    . Ha fatto 61 reti in campionato e 10 in Coppa Italia.

    Con 73 partite in Nazionale, il grande Antogno è anche il giocatore della Fiorentina con più presenze negli Azzurri.

    Con la maglia nazionale ha esordito il 20 novembre 1974 con la partita Paesi Bassi-Italia (3-1) e ha concluso a Praga nella partita dell’Italia contro la Cecoslovacchia, persa 2-0 il 16 novembre 1983.

    Nel 1978 Antognoni ha giocato il Campionato del Mondo in Argentina chiuso dagli azzurri, che furono la rivelazione del torneo, piazzandosi al quarto posto.

    Il grande fuoriclasse ha giocato anche nel successivo Campionato d’Europa del 1980, ospitato in Italia.

    Il ruolo di capitano fu confermato anche due anni più tardi nel glorioso e indimenticabile Campionato del Mondo del 1982 svoltosi in Spagna, dove l’Italia sollevò euforica la Coppa del Mondo vincendo contro la Germania.

    Durante il campionato Antognoni segnò una rete, quella del 4-2 contro il Brasile, annullata per un fuorigioco inesistente, poi un fallo di Matysik nella semifinale con la Polonia lo privò della possibilità di scendere in campo nella vittoriosa finale contro la Germania Ovest.

    A proposito dell’occasione mancata del Mundial spagnolo, Giancarlo si è così pronunciato: «Non mi fu possibile giocare e fu la più grande delusione della mia vita calcistica. Quella volta mi girarono parecchio le scatole. Vidi Italia-Germania dalla tribuna stampa».

    Negli anni Ottanta, sotto la gestione di Pontello, la sfolgorante carriera del centrocampista ha avuto vari arresti dovuti a gravi incidenti in campo.

    L’11 novembre 1981, durante uno scontro col giocatore del Genoa Silvano Martina, Antognoni ha riportato un trauma cranico da frattura e una temporanea interruzione del battito cardiaco.

    Tre anni dopo il campione si è rotto, con una frattura scomposta, tibia e perone sempre durante una partita in cui si scontrò con Luca Pellegrini della Sampdoria e così ha saltato l’intera stagione 1984-1985. Dopo quindici anni nella Viola, diventato ormai una leggenda del club, Antognoni ha lasciato Firenze nel 1987, facendo tramontare la sua sfolgorante carriera in Svizzera.

    Tornato a Firenze, nel 1990 Giancarlo è diventato dirigente e allenatore per la Fiorentina sotto la gestione di Mario Cecchi Gori e poi del figlio Vittorio. Da team manager ha poi ricoperto cariche di dirigente e fra le sue più riuscite operazioni è da ricordare quella dell’acquisto di Rui Costa. Giancarlo ha abbandonato il club viola nel 2001, dopo uno scontro con Vittorio Cecchi Gori.

    In seguito a questa decisione, la Federcalcio gli ha affidato molti incarichi nell’ambito del calcio giovanile fra i quali, nel 2005, la mansione di coordinatore degli osservatori delle nazionali giovanili e nel 2015 il ruolo di capo delegazione dell’Italia Under 21.

    Dal 2017 svolge compiti di rappresentanza per la Fiorentina ed è club manager.

    Sposato con la romana Rita Monosilio, conosciuta mentre era in ritiro a Roma con la Nazionale, ha due figli, Alessandro e Rubinia. Giancarlo Antognoni si è sempre distinto per la sua educazione, determinazione e umiltà, doti preziose nell’ambiente sportivo e non.

    La

    FIGC

    nel 2018 lo ha inserito nella Hall of Fame come veterano italiano.

    PELLEGRINO ARTUSI

    (Forlimpopoli, 4 agosto 1820 – Firenze, 30 marzo 1911)

    Nello scaffale dei libri di ricette, in ogni casa che si rispetti, svetta il capolavoro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene chiamato più comunemente L’Artusi, che viene considerato come la prima trattazione gastronomica dell’Italia unita e rappresenta un felicissimo connubio fra la lingua e il palato italiani. Il libro viene definito dal suo autore come «talmente pratico e usabile da tutti, purché si sappia tenere in mano un mestolo».

    Pellegrino Artusi nacque a Forlimpopoli, ma la sua città d’adozione fu Firenze.

    Critico letterario, gentiluomo, connoiseur, gastronomo e scrittore, l’Artusi è considerato, a ragion veduta, il padre della cucina italiana.

    Pellegrino era figlio di un droghiere benestante di nome Agostino, soprannominato el buratel, ovvero l’anguillina, e della signora Teresa Giunchi e fu battezzato Pellegrino in onore di un venerato santo forlivese.

    Agostino el buratel non ritenne necessario dare un’educazione scolastica al figliolo, in quanto secondo lui era destinato a lavorare nella sua avviatissima bottega, quindi Pellegrino visse un’infanzia fra profumi di spezie, zucchero, caffè e canditi, apprendendo come per osmosi, e sviluppando un gusto raffinato. Fece solo i primi studi al seminario di Bertinoro e in seguito diventò autodidatta, si appassionò ai classici e viaggiò.

    Nel 1851 Pellegrino e la sua famiglia furono segnati da una terribile disavventura quando subirono una brutale rapina dalla banda del brigante Stefano Pelloni, conosciuto come il Passatore, dal mestiere del padre che faceva il traghettatore del fiume Lamone.

    Quella notte il malfattore aveva depredato molte agiate famiglie della città che si erano riunite a teatro per assistere al dramma La morte di Sisara. Gli Artusi non erano andati allo spettacolo ma i tredici briganti minacciarono con i «tromboni» un amico di famiglia, Ruggero Ricci, per introdursi con l’inganno nell’abitazione. Picchiarono Pellegrino e le sorelle Maria Franca e Rosa e «dopo una lotta disperata con alcuni

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