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Sòcc’ mel... che canzone!: Racconti ispirati alle canzoni dei cantanti bolognesi
Sòcc’ mel... che canzone!: Racconti ispirati alle canzoni dei cantanti bolognesi
Sòcc’ mel... che canzone!: Racconti ispirati alle canzoni dei cantanti bolognesi
E-book338 pagine4 ore

Sòcc’ mel... che canzone!: Racconti ispirati alle canzoni dei cantanti bolognesi

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Info su questo ebook

Racconti ispirati alle canzoni dei cantanti bolognesi
I cantanti e le cantanti bolognesi hanno suonato la chitarra nelle osterie, hanno cantato nelle piazze, qualcuno ha esteso la sua fama oltre le mura calcando palchi internazionali, altri sono conosciuti a livello locale. 
Poeti e menestrelli, moderni cantastorie o rivoluzionari, contestatori arrabbiati o teneri innamorati, tutti però, a modo loro, hanno celebrato la loro città, ponendo Bologna come ascoltatore privilegiato, come scenario o protagonista. 
Ascoltare una canzone non suscita in tutti le stesse emozioni, ciascuno di noi viene investito dalle note e dalle parole, le quali provocano nella nostra mente immagini e ricordi che sono solo nostri. 
Perché allora non metterli su carta? Perché non trasformare queste sensazioni in storie e vedere cosa ne salta fuori? 
È quello che la casa editrice “Edizioni del Loggione” ha chiesto agli autori, e il risultato è questa antologia di racconti ispirati alle canzoni dei cantanti e delle cantanti bolognesi, dove la stessa canzone ha fatto scaturire storie diverse e sorprendenti. 
Racconti così belli che a leggerli viene spontaneo esclamare: sócc’mel… che canzone!
LinguaItaliano
Data di uscita1 dic 2018
ISBN9788893470766
Sòcc’ mel... che canzone!: Racconti ispirati alle canzoni dei cantanti bolognesi

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    Anteprima del libro

    Sòcc’ mel... che canzone! - autori vari

    Socc’mel… che canzone!

    Prima Edizione Ebook 2016 © Edizioni del Loggione, Modena-Bologna

    ISBN: 978-88-9347-076-6

    Foto copertina:  Claudio Tosi

    Edizioni del Loggione

    Via Paolo Ferrari 51/c - 41121 Modena

    http://www.loggione.it  e-mail: loggione@loggione.it

    SÓCC’MEL…

    CHE CANZONE!

    Racconti ispirati alle canzoni dei cantanti bolognesi

    Table Of Contents

    BENTORNATA LEOPOLDINA

    LUCA

    GRAND SOIRÉE

    HO PERSO IL FILOBUS

    UNA STORIA DI BOLOGNA E DI CANZONI

    LA MATTINA IN PIAZZA GRANDE

    DISPERATA, EROTICA, VOGLIA DI TE

    NEW YORK È UNA SCOMMESSA D’AMORE

    FREAK

    CHICCO E SPILLO

    TENENDOSI PER MANO

    STELLA, FLIPPER, LUNA E BILIARDO

    QUANDO CHIAMI?

    (RISPOSTA A DINO SARTI QUANDO TORNI?)

    QUI DOVE IL MARE LUCCICA

    ALIGI NEL PAESE DEI PUFFI

    AGOSTO

    NON MI DIMENTICARE MAI

    PRESENZE

    IL VAGABONDO DI PIAZZA GRANDE

    MARIA

    CURIOSITÀ INOPPORTUNA

    QUALE ALLEGRIA

    PUNTA D’INCHIOSTRO

    PICCOLO ALFREDO

    BRICIOLE DI PRECARIA E ORDINARIA FELICITÀ

    VI RACCONTO DI SILVIA

    SONO UN RIBELLE, MAMMA

    LIES

    CHISSÀ SE LO SAI

    SUNSHINE SRL

    DENTRO LE SCARPE

    KILL GIANNI

    A SON SFIGHÉ E HO PURE VISTO UN MARZIÀN

    MA ASCOLTAVA GIANNI MORANDI

    LUI, LEI E LA ROSSA

    FUTURA

    QUELLA VOLTA DELLA CINQUINA

    NON APRIRE MAI

    MARE MARE

    QUATTRO, CINQUE, DIECI GRADINI

    DELLA CASA DI BOLOGNA

    UOMINI

    IN COSA CREDE DIO

    4/3/1943: NINNA NANNA DI TAVERNA

    LUCA SI BUCA ANCORA

    RITORNARE

    L’ELETTRICITÀ DI UN BACIO

    MUSICA E MARE

    CON ALTRI OCCHI

    ANNA E MARCO

    TOEKOMS

    GLI AUTORI

    Catalogo Edizioni del Loggione

    BENTORNATA LEOPOLDINA

    di Marco Addati

    Ispirato alle canzoni di Cristina d’Avena

    La foresta di Ogni Colore era in fibrillazione e si respirava aria di grande attesa. Ogni abitante di quel luogo incantevole era intento nei preparativi della grande festa che di lì a poco avrebbe allietato tutti gli animaletti del bosco. Già, il primo giorno del nuovo mese avrebbe fatto rientro a casa la signorina Leopoldina, una dolce volpe molto avanti con gli anni e a cui tutti volevano molto bene. Leopoldina aveva avuto non pochi problemi di salute dovuti all’età avanzata ed era stata lontana da casa per molto tempo. Aveva seguito delle cure particolari per sanare i suoi dolorini sparsi qua e là. Grazie alle attenzioni di un medico del bosco vicino, la cara volpe si era ripresa del tutto e finalmente sarebbe tornata a casa. Com’era bella la casa della dolce volpe. Tutta gialla, con il tetto dalle tegole rosa e la staccionata dipinta di blu. Le tendine in raso e decorate con motivi floreali confondevano le farfalle, che le scambiavano per veri e propri prati fioriti. Attorno alla casetta c’era un piccolo giardino in cui erano sbocciate margherite, viole e orchidee.

    Tutti gli abitanti di quel luogo, molto affezionati alla volpe, decisero di comune accordo di organizzare per la loro meravigliosa amica una grande festa di bentornato. Lei era davvero tanto amata dalla comunità perché dispensava per ognuno un consiglio, una parola di conforto, e per i più golosi c’erano sempre una porzione di biscottini e torte. Era un punto di riferimento per tutti lì nel villaggio e durante la sua assenza non c’era animaletto che non avesse sentito la sua mancanza.

    Passarono così i giorni, uno dietro l’altro, e mentre i preparativi andavano avanti a gonfie vele giunse finalmente il fatidico dì del rientro della dolce Leopoldina. Mamma Coniglio, aiutata dai suoi cuccioli, aveva sfornato tanti dolcetti a base di carote; le altre mamme della foresta avevano preparato gustosissimi manicaretti da leccarsi letteralmente i baffi, mentre zio Orso Bruno aveva costruito con i suoi arnesi una comoda sedia a dondolo sulla quale Leopoldina avrebbe potuto rilassare i propri pensieri. Volenterosi scoiattoli avevano disposto, da un ramo all’altro degli alberi, festoni colorati fatti di foglie e fiori, mentre passerotti e usignoli erano intenti nelle prove del grande concerto che si sarebbe svolto lì sul prato di margherite, dov’era stato allestito un palco dipinto da tutti i cuccioli con i colori dell’arcobaleno.

    A un tratto giunse dal sentiero principale il Leprotto Senzafiato che, correndo senza fiato, da cui il suo nome, annunciava che Leopoldina era in prossimità del Bosco di Ogni Colore e sarebbe giunta a momenti, accompagnata dal buon dottor Lupo Ettore. Era finalmente giunto il momento tanto atteso di aprire i festeggiamenti; i più piccoli si nascondevano sotto cespugli di more selvatiche e nell’attesa, raggomitolati lì sotto e stringendo grandi mazzi di fiori, gustavano i deliziosi frutti.Altri, con un sorriso compiaciuto, si nascondevano dietro gli alberi dalle verdi fronde e, armati di palloncini e fischietti, erano pronti a venir fuori per far grandi girotondi. Tlin. Una goccia bagnò il nasino del castoro Gigi e poi ancora tlin… un’altra goccia e poi tlin, tlin, tlin sempre più… tlin, tlin, tlin, tlin, tlin. Gocce di pioggia scesero giù, prima lentamente e poi sempre più fitte e copiose, sino all’improvviso scrosciare di acqua che investì tutto il verde bosco. Gli animaletti cominciarono a correre riparandosi ognuno nella propria casetta.

    Quando Leopoldina giunse nella radura fece appena in tempo a entrare nella propria casa, sempre in compagnia del buon dottor Lupo Ettore. La pioggia, ormai, veniva giù a catinelle. Palloncini, festoni e palco rimasero lì sotto l’acquazzone che picchiettava dappertutto. Che tristezza… il giorno di festa tanto atteso era stato rovinato da quell’improvviso tempaccio. La sorpresa per la dolce Leopoldina era andata letteralmente in fumo.

    Mentre la pioggia battente e incessante veniva giù, un cinguettio si unì ai suoni prodotti da quelle gocce spaventosamente grandi. Il verso di quell’usignolo canterino si amalgamava bene al rumore della pioggia. Un altro cinguettio, stavolta di un passero, si unì al primo, poi un terzo, poi un quarto. Il piccolo tasso iniziò a picchiettare dietro i vetri con un cucchiaio. Lo seguirono a ruota la mamma e il papà, che utilizzarono dei piatti e delle pentole. I fringuelli si unirono sfoggiando la loro meravigliosa voce, accennando le note della canzone che avevano provato tante e tante volte i giorni precedenti, il cui ritornello faceva così: Bentornata a casa dolce Leopoldina. I papà con voce da baritono e le mamme con voce da soprano gorgheggiavano, creando bellissime melodie arricchite da sublimi ghirigori musicali. Le mani battevano a tempo, un ritmo che andava all’unisono diventando un unico clap clap che giungeva non solo alle orecchie ma anche al cuore della signora Leopoldina che, piena di commozione, ammirava fuori dalla finestra la danza delle gocce sulla ghiaia. Non poté fare a meno di asciugarsi una lacrima che le rigava il viso. Era tornata dalla sua famiglia. La festa non fu interrotta dal maltempo, anzi quella pioggia inaspettata rese ancora più divertente e originale quella meravigliosa giornata.

    Quando si sta insieme a qualcuno che ci vuole bene, anche il giorno più grigio e uggioso può trasformarsi, colorandosi con i colori dell’allegria e della spensieratezza.

    LUCA

    di Roberto Bardoni

    Ispirato alla canzone Silvia lo sai di Luca Carboni

    I ragazzini urlavano nel cortile inseguendo il pallone.

    «Lucio, dai, dalla che sono libero» urlò Luca.

    Lucio non ci pensava proprio, anche se iniziava a mancargli il fiato per lo scatto dopo il passaggio del portiere. Vedeva con la coda dell’occhio Luca che si sbracciava, ma lui continuò a ignorarlo. Dribblò il difensore e capì di non avere più fiato. Appoggiò il piede sinistro accanto alla palla e con il destro cercò di calciare con più precisione e potenza possibili. Il portiere si tuffò. La palla mancò del tutto la porta di lattine e centrò la finestra del palazzo. I vetri saltarono in aria come coriandoli a carnevale. Pochi istanti e tutti i giocatori erano scomparsi dal luogo del misfatto, mentre il proprietario della finestra lanciava imprecazioni a Dio e ai quegli stramaledetti ragazzini che tutti i giorni schiamazzavano sotto le finestre.

    Quando si fermarono, certi di essere al sicuro, Luca sgridò Lucio non di aver rotto la finestra, ma di non avergli servito la palla per un goal degno di Roberto Baggio. Era l’estate del 1997 e il codino era appena arrivato dal Milan al Bologna. Per due ragazzini come loro, tifosi da sempre della squadra della loro città, era come vincere uno scudetto.

    Lucio non fece in tempo a ribattere che arrivò col fiato corto anche il loro portiere, Silvia.

    «Ragazzi! Possibile che facciate solo danni?» scherzò lei.

    Lucio rise, Luca no.

    «Ma cosa c’entro, io?» cercò di rispondere imbarazzato.

    Fra loro era sempre così. Lei e Lucio avevano un carattere solare, ridevano e scherzavano sempre. Luca, invece, non parlava quasi mai con nessuno a parte loro, che erano nati e cresciuti insieme a lui. Loro tre erano come quel film western di Sergio Leone: Luca era Il Cattivo, la testa calda del trio, sempre sicuro di sé e sempre pronto a prendersi a botte anche con i ragazzi più grandi, per dimostrare a tutti (e a se stesso) di avere coraggio. Questo suo coraggio, però, sembrava svanire davanti all’amica. Con Silvia diventava goffo, buffo. Lucio era Il Buono, quello che ti fa compagnia alla fermata dell’autobus anche se lui non lo prende, solo per non farti aspettare da solo. Era anche il più estroverso e matto, con quelle sue idee che a volte sembravano davvero bizzarre. Silvia, quindi, avrebbe dovuto essere Il Brutto, ma era esattamente l’opposto. Lucio aveva capito da qualche tempo che a Luca piaceva e anche lei sembrava ricambiare. Solo che quel somaro non riusciva nemmeno a tenerle la mano nei lunghi pomeriggi trascorsi ad ascoltare la radio.

    «Dai, Farfallina» disse Lucio a Luca, «andiamo a prenderci un gelato».

    Lucio era l’unico a chiamarlo così. Gli aveva dato quel nomignolo affettuoso all’asilo, la prima volta che lo aveva visto mentre inseguiva una farfalla, saltando da un angolo all’altro.

    Le giornate dei tre ragazzini passavano così, fra una canzone alla radio, due calci al pallone e il giocare a Dire, Fare e Baciare. Sempre insieme. Col tempo, Lucio vide crescere l’amore fra i suoi due amici e, come un contadino osserva una piantina crescere, ne sorrideva.

    Purtroppo il peggior nemico di Luca era sempre stato se stesso.

    Al primo anno di università Lucio andò a studiare fuori Bologna. Quell’allontanamento fu negativo per Luca, che aveva perso la sua spalla di sempre, quello che lo teneva sulla strada giusta. Finì in un giro brutto con gente ancora peggiore, e mentre Lucio dava i primi esami, Luca provava le prime vertigini del buco.

    Quel buco per lungo tempo se lo inghiottì e con lui la sua storia d’amore con Silvia, che alla fine decise di lasciarlo.

    Lucio la incontrò una sera di pioggia. Le lezioni era finite e lui era tornato a Bologna per preparare la sessione estiva. Passeggiarono per un po’ sotto i portici vicino a Piazza Grande. Lui le chiese se pensava ancora a Luca. Erano passati già un paio di mesi da quando era finita fra loro, ma si vedeva che lei ci teneva ancora. Eppure non poteva continuare con quel Luca.

    Lucio sapeva che l’amico passava le giornate a casa, a stare male un po’ per lei e un po’ per il circo di sostanze che ballavano nelle sue vene.

    Aveva cercato con le buone di parlargli, di riportarlo sulla retta via. Luca, però, non lo stava a sentire. In quei mesi di lontananza si era chiuso ancora di più in se stesso.

    «E ora come facciamo?»

    Era la madre di Luca, che aveva chiamato Lucio un pomeriggio tardi. Luca era tornato a casa sconvolto dall’ennesimo buco e la donna non sapeva più cosa fare. Lucio capì che era giunto il momento di scattare di corsa, a testa bassa, e cercare di fare goal, a rischio di spaccare una finestra.

    Arrivò a casa loro e spiegò il suo piano alla madre, che acconsentì. Caricò di peso Luca sulla macchina e lanciò una borsa da palestra con la sua roba nel portabagagli. Con la prima oscurità della sera salutarono Bologna.

    «Dove andiamo?» sibilò Luca, più svenuto che sveglio.

    «Tranquillo Farfallina, ti riporto da lei.»

    Quando Luca si svegliò, si rese conto di essere in una stanza che non conosceva, in mutande. Si alzò oscillando sulle gambe e lentamente si avviò alla porta. Quando la spalancò credette di sognare.

    «Ma che cazzo…?»

    La porta si apriva su di un ballatoio che dava sulla spiaggia e una vastità di mare che sembrava infinito. Il sole caldo di giugno illuminava il panorama da cartolina. Le case vicine avevano tutte uno stile arabo, sembravano tanti cubi colorati sulla sabbia finissima.

    «Buongiorno, Farfallina» lo salutò Lucio appoggiato alla ringhiera del ballatoio in camicia aperta e pantaloni corti, intento a sorseggiare caffè in una tazza bianca.

    «Ma dove cazzo siamo?»

    «Non te lo ricordi?»

    «No.»

    «Siamo a Cuba» rispose Lucio prendendo un sorso.

    «Come, scusa?»

    «Sto scherzando. Siamo in Liguria, nella casa di una mia zia.»

    «In Liguria dove? Perché siamo qui? Non ci voglio stare qui» urlò.

    Lucio non fu per nulla colpito dalla sfuriata. Anzi, rispose con una calma e una fermezza assolute.

    «Siamo qui perché stai buttando la tua vita nel cesso. Ed è ora di tirare l’acqua, pulirsi le mani e ritornare a vivere.»

    «Non dire stronzate, devo tornare a Bologna!»

    «Provaci. Ho lasciato a casa il tuo portafoglio e i tuoi vestiti. La macchina è nascosta lontano, non c’è una stazione ferroviaria, non sai dove siamo e in autobus non sapresti dove andare. Senza contare che entro poco tempo sarai in crisi di astinenza da quella merda e non ti reggerai in piedi. In sintesi, tu non mi scappi.»

    «Cos’hai in mente?»

    «Te l’ho detto. Stai naufragando ed è ora che la smetti! Dimmi la verità, tu vuoi ancora Silvia?»

    Luca restò in silenzio e abbassò lo sguardo sulla spiaggia incontaminata. Dentro di lui qualcosa urlava alla ribellione, gli ordinava di prendere e andarsene, di non farsi comandare da Lucio. Fece un sospiro profondo pensando a lei. L’odore del salino gli entrò nelle narici. Non servì rispondere alla domanda, quando tornò con lo sguardo sull’amico Lucio capì che Luca era pronto a scattare con lui verso la porta avversaria.

    I primi giorni furono durissimi. Le crisi di astinenza non facevano dormire Luca, anche se era a pezzi e distrutto. I muscoli restavano in tensione, i denti digrignavano. Quel poco che mangiava lo vomitava e moriva di freddo con venticinque gradi all’ombra. Fu dura, ma Lucio non lo lasciava mai, né di giorno né di notte. Più di una volta Luca gli aveva chiesto in lacrime di dargli qualcosa, anche solo una assaggio di morfina per sopportare meglio le crisi. Luca rimase inflessibile, sicuro che quel dolore e quelle lacrime sarebbero state lavate via dal mare.

    Una mattina Lucio si svegliò e lo trovò alla finestra. Luca era dimagrito e si era disidratato in quelle due settimane, ma il colore rosso di quell’alba dava una nuova luce ai suoi occhi.

    «Va bene, Apollo Creed. E adesso?» chiese Luca.

    «Ti facciamo venire un fisico bestiale! Sembri un bambino del terzo mondo.»

    «Non torniamo a Bologna?»

    «È il 20 giugno! Insomma, è estate. Non ti vuoi godere il mare?» scherzò Lucio.

    «Quanto deve durare questo sequestro?»

    «Facciamo così, ti porto a casa quando l’Italia esce dal mondiale. Tanto a Berlino ci andranno Germania e Francia.»

    A Berlino, due settimane dopo, c’era la Francia, ma c’era anche l’Italia. Per la gioia e il dolore di Luca, che aveva visto la sua permanenza in Liguria allungarsi sempre di più partita dopo partita. Aveva scoperto che in realtà la macchina era sempre stata a non più di dieci minuti a piedi e che nel suo portabagagli c’erano anche i suoi vestiti. Aveva perfino scoperto di trovarsi a Varigotti, un paesino a una trentina di chilometri da Savona.

    Avevano iniziato a seguire le partite in un locale sempre pieno. L’entusiasmo sportivo aveva portato a essere tutti amici di tutti, a fare gli scemi, a cantare l’inno azionale tutti in piedi abbracciati. Fu così, durante la semifinale con i padroni di casa, che Luca e Lucio avevano conosciuto le ragazze.

    Un sorriso, una chiacchiera, la leggerezza dell’estate che si stava per aprire dopo gli esami di maturità e la spiaggia di Varigotti, ancora più bella se non si ha voglia di studiare.

    Lucio fu subito attratto da Anna. La sera della finale l’andò a prendere a casa da solo. Luca lo avrebbe aspettato nel locale con il resto delle amiche. Gli aveva detto di fare con calma, ma non troppo, che novanta minuti volavano. Lucio si ritrovò davanti al suo portone a cercare il cognome per suonare. Lei lo fece salire, doveva finire di prepararsi. Appena la vide col suo vestito giallo sentì una festa dentro il cuore e una voglia incredibile di invitarla.

    Al goal dell’1 a 1 di Materazzi, Lucio la baciò nella gioia generale. Lei era rimasta senza fiato per quel gesto inaspettato, ma ricambiò più che volentieri. Lui capì di aver perso la testa per lei, un po’ come Zidane pochi minuti dopo.

    Gli istanti che precedettero la rincorsa di Grosso videro Luca e Lucio abbracciati, nella testa un rigore simile, calciato alle stelle, proprio nel paese delle stelle e strisce.

    Una nazione in silenzio.

    Pochi secondi dopo ci fu l’urlo unanime di chiunque nel raggio di chilometri.

    Lucio ricordò per sempre quella notte: la notte del loro primo bacio, la notte in cui divennero campioni del mondo. La notte in cui Luca capì, vedendo Lucio con Anna, che doveva tornare a Bologna. Doveva, voleva rivedere Silvia.

    Lucio gli lasciò la macchina il giorno dopo.

    «E tu come ci torni a Bologna?»

    «La scorsa estate per venire al mare ho comprato una moto, usata ma tenuta bene. Fra qualche giorno faccio il pieno e ti raggiungo in autostrada.»

    Luca mise in moto, l’autoradio si accese. Nell’abitacolo partì il cd che aveva ascoltato Lucio portandolo lì un mese prima.

    "…taquattro gatti

    in fila per sei col resto di due

    si unirono compatti

    in fila per..."

    Luca guardò Lucio.

    «Ma… veramente?» chiese scherzoso Luca.

    «È una raccolta, mi piace.»

    I due ragazzi si salutarono ancora una volta, poi Luca partì.

    Arrivò a Bologna nel primo pomeriggio, non passò nemmeno da casa e andò subito da lei. Riuscì a convincerla a uscire per parlare.

    «Come stai?» le chiese.

    «Sto bene, stavo studiando.»

    Luca notò che era fredda.

    «Cosa studi?» chiese.

    «A settembre voglio provare a entrare a veterinaria.»

    «Hai sempre amato gli animali.»

    «Loro sono migliori degli umani.»

    «Sarebbe bello un mondo di soli animali…»

    Lei si bloccò di colpo e lo fissò dura.

    «Cosa vuoi, Luca?»

    Lei sapeva cosa voleva lui. Luca capì che era il momento del giudizio finale. Doveva dimostrare che quel mese di esilio lo aveva cambiato.

    «Sei venuto a dirmi che mi ami ancora?» sibilò Silvia.

    Lui non capì se ci fosse rabbia o meno in quelle parole.

    «Sai che non te l’ho mai detto…» iniziò lui.

    «Sì, lo so. Mentre io l’ho fatto fino all’ultimo giorno» lo incalzò.

    «Da quando eravamo due ragazzini stupidi…»

    «Quanto vorrei che tu fossi ancora così stupido» commentò lei con un nodo alla gola.

    «Silvia, amami ancora. Adesso. Sono sempre Luca, lo stesso.»

    «Lo stesso che si bucava? Che cosa credi?! Solo perché una squadra di calcio vince, il mondo sarà…»

    Lui le prese il viso fra le mani e la baciò.

    «Silvia, lo sai?» le sussurrò.

    «Cosa?» chiese lei in un filo di voce.

    «Che Luca ti ama ancora» e la baciò di nuovo, con tutta la dolcezza che aveva nel cuore.

    GRAND SOIRÉE

    di Alberto Becca

    Ispirato alla canzone Piazza Maggiore, 14 agosto di Dino Sarti

    Non fu certo facile quel viaggio, quell’ultimo terribile viaggio verso una meta disattesa, ingloriosa e definitiva: il fisico a pezzi, la mente lacerata e appannata, la voglia di guarire ormai svanita nel nulla, l’ambiente circostante disconnesso, la memoria sempre più imprecisa, lacunosa, l’afflato vitale che lentamente si spegne, come un fuoco nel caminetto al quale manca la legna (rimane solo qualche piccola brace rossastra che emette un rumore poco percettibile, un crepitìo, quasi un presagio).

    L’ospedale è un mondo a sé, con tempi, regole e prospettive percepibili solo da parte di chi ci si trova a vivere. È un mondo in cui la persona è in balìa di altre persone, oggetti, situazioni ed esperienze finalizzate a combattere l’assurda guerra della salute contro la malattia.

    Non fu certo facile ritrovarsi in quel letto ormai sfinito, privo di ogni ragionevole umana speranza. Tutto cambia, anche l’alfabeto (a come antibiotici; b come blefarite; c come citologia, d come duodenoscopia…). La vita si mette in viaggio verso mete sconosciute, la presenza diventa lentamente una assenza, i rapporti interpersonali via via rallentano e si interrompono, i desideri giorno dopo giorno si confondono con la rassegnazione o l’indifferenza.

    Oltrepassando il confine fra sano e malato, fra il se stesso più intimo (il dentro) e il fuori, gli altri, il mondo, si entra quasi inconsciamente in un limbo, uno stato intermedio fra vita e morte che può durare anche a lungo.

    La stanza era impersonale, scontata, popolata da un coacervo di sofferenze, lamenti, scoramenti e disabilità, da ostilità inconsuete; le pareti bianche e anonime, poi le cure sempre più palliative, l’assistenza, i farmaci inghiottiti a fatica, la pelle ormai esausta, anelastica, il morale a pezzi, poche frasi dette a caso intervallate da lunghi interminabili silenzi, lo sguardo perso nel vuoto, la bocca semiaperta, le ossa come sfibrate, le forze che ti abbandonano: subentrano disfacimento e sconfitta. Eppure in questo marasma, in questo vicolo cieco, all’improvviso comparve quasi un bagliore, un lampo, un sottile fascio luminoso che illumina un ricordo, intrusivo ma benefico: quella serata magica a Bologna che divenne suo mito e orgoglio. Una città trionfante e diversa, più intima ma più vera e legata alle vicende insignificanti della gente comune, arricchita dalla musica, dalle canzoni, da quello spirito petroniano che poi nel tempo (e anche oggi) sembrò svanire nel nulla, come disperso negli anfratti colorati del Mercato di Mezzo.

    Il palco, le luci, la gente, le mani che battono all’unisono, i musicisti, il brusìo di sottofondo, i muri della basilica di San Petronio e dei palazzi circostanti (palazzo dei Notai, palazzo Re Enzo, i Banchi, il palazzo Comunale) che sembravano anch’essi incantati, impietriti da quello spettacolo inusuale; il tutto cucinato a dovere, cotto al punto giusto come i tortellini in brodo a Natale, mescolato in una unica entità, un groviglio indistinto, un magma inestricabile, un guazzabuglio ove i cinque sensi si perdevano e si confondevano, un tutt’uno di corpo, anima, sentimento, musica, realtà e finzione, attualità e storia, pianoforte, sospiri, cielo stellato agostano, passato, presente e futuro di un artista.

    Forse il tempo si era fermato; la città era risorta: San Carlino era diventata, almeno per una sera, una strada meravigliosa, elegante, orgogliosa; era come se fosse iniziata una nuova vita, era la rivincita, la conquista, l’apoteosi, la Grand soirée di chi, partito dal basso, uno qualsiasi, uno come tanti, era giunto tanto in alto da esserne quasi oppresso o consapevolmente ma genuinamente a disagio.

    Non c’era più posto in piazza. Trentamila bolognesi, uno accanto all’altro, avevano incoronato un nuovo re, avevano reso omaggio e onore al loro nuovo beniamino autore-cantore popolano.

    Qualche ora… qualche ricordo… il prima… l’attesa, i dubbi, il dopo… la meraviglia… non potrei dire la felicità, meglio la consapevolezza di un incontro fortunato fra un bolognese e la sua gente…

    Come in ogni stanza di ospedale si alternano medici, infermieri, fleboclisi e termometri; la terribile routine (visite, cure, pulizie, cibo) venne bruscamente interrotta da una domanda di una infermiera: «Dino... cosa fai? Calmati! Non agitarti! Cosa è successo… cerca di riposare… vedrai… così andrà meglio!». Questa grand soirée durò poco e si concluse in silenzio, senza applausi, senza musica… Si spengono le luci sul palco, il pubblico in sala defluisce. Gli artisti se ne vanno.

    Cosa rimane? La sua voce, le sue canzoni, una misteriosa e mirabolante vicenda umana.

    HO PERSO IL FILOBUS

    di Lara Bizzarri

    Ispirato alla canzone Ho perso il filobus degli Skiantos

    Filobus numero 13. Le chiavi cadono dalle mani per la terza volta. Acciuffate dallo zerbino blu sul pianerottolo sembra abbiano lanciato una sfida, pare abbiano messo in atto un percorso a ostacoli in accordo con il caffè che gli ha sporcato i pantaloni, costringendolo a un cambio improvviso di abiti, e il telefono finito chissà come sotto al cuscino a righe arancioni del divano.

    Considerati tre minuti persi cercando il cellulare e almeno cinque per il cambio di vestiti - indossando i pantaloni verdi al posto di quelli blu avrebbe dovuto cambiare pure il maglione se non voleva sembrare una felce ambulante - Carlo stima un ritardo di otto minuti abbondanti sulla tabella di marcia. Per questa ragione, ancor prima di mettere il naso fuori dal portone del palazzo, l’agitazione lo avvolge e, quando l’agitazione lo avvolge, suda, e quando suda si agita ancora di più. Sa bene che per via di questo circolo vizioso il suo destino è segnato. Ma, dal momento che non vuole emanare cattivo odore prima delle otto e un quarto, per cercare di sfuggire a questa condanna si toglie la giacca, ignorando il rischio di beccarsi una polmonite e, con passo più spedito del solito, si dirige

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