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Come combattere l'ansia e trasformarla in forza
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Come combattere l'ansia e trasformarla in forza
E-book493 pagine5 ore

Come combattere l'ansia e trasformarla in forza

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Info su questo ebook

L’ansia è inquietudine, sgomento, panico, il suo significato è multiforme. Comprenderla aiuta ad affrontarla.

Sconfiggi l’ansia e trasformala in forza!
L’ansia è un sintomo preciso, determinabile, che paralizza. L’ansia è paura. È un segnale di un rapporto problematico con noi stessi che ha radici nel passato, si proietta nel futuro e ci tortura nel presente. Luca Stanchieri, con estrema chiarezza e professionalità, ci aiuta a comprendere il giusto modo per fronteggiare e combattere quest’inadeguatezza di vivere. L’ansia va superata attraverso la scelta di una vita che tenda soprattutto all’autorealizzazione come forma di benessere, alla prefissione di obiettivi raggiungibili e all’elaborazione di mete concrete. Il modo per vincerla è riuscire ad allenare le nostre potenzialità, dedicarci senza remore allo sviluppo dei talenti che albergano dentro di noi, coltivare la nostra capacità di amare ed essere amati.


Luca Stanchieri
life coach, conduce seminari orientati alla realizzazione dell’individuo. Ha partecipato come esperto a numerosi programmi TV e ha condotto la trasmissione Adolescenti: istruzioni per l’uso. Con la Newton Compton ha pubblicato Come combattere l'ansia e trasformarla in forza, 101 modi per allenare l’autostima, 101 cose che devi sapere per difenderti dai bugiardi e dai traditori e Come liberarti dagli stronzi.
LinguaItaliano
Data di uscita11 apr 2014
ISBN9788854166547
Come combattere l'ansia e trasformarla in forza

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    Anteprima del libro

    Come combattere l'ansia e trasformarla in forza - Luca Stanchieri

    187

    Prima edizione ebook: aprile 2014

    © 2012 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-6654-7

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Luca Stanchieri

    COME COMBATTERE L’ANSIA

    E TRASFORMARLA IN FORZA

    Newton Compton editori

    Introduzione

    L’ansia è un sentimento che nasce da una modificazione corporea dovuta alla percezione del pericolo. Rappresenta, in breve, le mille forme della paura. Può avere una funzione di adattamento finalizzata alla sopravvivenza, una funzione di attivazione che aiuta la determinazione di una performance, una funzione di inibizione che ostacola il raggiungimento di uno scopo. A seconda dell’intensità e della situazione, possiamo sentirla lieve o invasiva. Ma in generale l’ansia non è per niente piacevole. Il corpo infatti si prepara alla fuga perché si percepisce in pericolo. E le sensazioni che scaturiscono sono quelle di una persona sotto minaccia.

    Nello studiare l’ansia dunque dobbiamo tenere presente tre componenti: la percezione del pericolo; il cambiamento fisico; il sentimento che li accoglie.

    Conoscere l’ansia è determinante. La percezione del pericolo da cui scaturisce è sempre corretta? Come è cambiato il concetto di pericolo? Che ruolo gioca la cultura? Che conseguenze ha sulla mente un corpo preparato a fuggire?

    L’ansia è il disturbo psicologico più diffuso, ma la sua origine è nella maggior parte dei casi culturale. Comprenderne i meccanismi interiori facilita il suo superamento. Ma per governare l’ansia, per valorizzarne la funzione creativa e adattiva, per evitare che si trasformi in attacco di panico, è necessaria una strategia di autosviluppo che faccia perno sulla vocazione. Quando parliamo di vocazione, non dobbiamo pensare solo alla chiamata di stampo religioso o alla dedizione a un mestiere. Questo insieme di attitudine e passione, di talento e amore può assumere le vesti dei sistemi simbolici più diversi. È una delle strade per la felicità. E la felicità può riguardare il rapporto con se stessi e la vita in genere; si può manifestare nelle relazioni affettive; può essere inerente l’espressione di sé nelle opere.

    L’ansia è strettamente legata alla vocazione. Sorge nel momento in cui sentiamo di poter spendere la nostra vita in funzione di un senso e di un significato che non riusciamo a decifrare. Risorge come paura di non riuscire. Si manifesta in ogni processo di apprendimento. Indica un rapporto problematico con noi stessi. Può avere radici nel passato, proiettarsi nel futuro, torturarci nel presente.

    L’accostamento ansia-vocazione può sembrare strano. In effetti è originale e deriva da una lunga riflessione e applicazione professionale. Difficile trovarlo in un farmaco o in uno studio terapeutico. Questo libro è un viaggio dentro l’ansia, un’avventura difficile e rischiosa. Cerchiamo di comprenderne il funzionamento fisico, l’incipit culturale, le conseguenze psicologiche. Un primo aspetto con cui ci siamo dovuti confrontare per parlare e scrivere di ansia è l’analisi di come una certa nomenclatura di esperti ha trattato la materia, e il contributo che ha offerto nel formare un inadeguato senso comune. L’ansia era trattata come un sintomo dentro un paradigma individualista. Tutto dipendeva dall’individuo e dal suo mondo interno. Le sue paure, le inquietudini, le angosce erano il riflesso dei suoi limiti intrinseci. Il modello della mente poteva essere molto diverso: andava dall’inconscio freudiano al monismo delle neuroscienze. La terapia proposta poteva indagare sui conflitti interiori, i traumi rimossi, oppure incidere sui neurotrasmettitori. Ma tutti avevano lo stesso fine: sviluppare la capacità di adattamento anestetizzando le ansie individuali.

    Uscendo dal paradigma individualista, ho cercato di comprendere come le ansie di fondo, quelle primarie e quelle sociali, fossero condizionate dal rapporto fra individuo e contesto. La nozione di contesto è estremamente complessa. Concerne il periodo storico in cui una persona vive, il suo paese, la sua comunità, le relazioni affettive. Usando fonti differenti (storia sociale, storia della psichiatria, storia della medicina, storia della psicologia ecc.), ho cercato di verificare come le nostre ansie siano mutate nel tempo. In particolare distinguo due periodi dal dopoguerra a oggi. Il primo periodo è caratterizzato dalla corsa al successo di stampo maschile e dalla mistica della femminilità. L’ansia deriva dalla paura del fallimento della performance o dall’incapacità di adattarsi ai compiti che la società patriarcale impone alle donne. Il paradigma culturale prevalente è quello dell’obbedienza. Il sistema, poggiando sui suoi educatori e terapeuti, richiede adeguamento alle regole e alle norme sociali. L’ansia è il sintomo di un’incapacità di adattamento e al contempo lo stimolo più potente a cambiare. I movimenti sociali e culturali degli anni Sessanta e Settanta modificano i paradigmi di base. All’egemonia dell’obbedienza, subentra la spinta ad autodeterminare e autorealizzare la propria esistenza. Si passa dalla necessità di adattamento a un contesto forte alla possibilità di autorealizzazione in un contesto fragile. Comincia una seconda fase dove l’individuo viene chiamato a diventare pieno sovrano di se stesso.

    L’ansia accompagna questo lungo, lento, inesorabile e complesso processo di individuazione. La complessità dell’obiettivo non ferma il cambiamento. Tornare indietro, alla scuola autoritaria, alla famiglia oppressiva, alla condizione della donna come angelo del focolare, al sistema produttivo fordista, ma anche al sistema di ricompense, promozioni, crescita economica, che premiava l’obbedienza, appare impossibile. Quel contesto e quel paradigma si stanno estinguendo. D’altra parte, il concetto di autodeterminazione trova sulla sua strada tutta la complessità del compito. L’ansia emerge come ricerca della propria vocazione, come paura di non riuscire, come incompetenza nel realizzare desideri, sogni e passioni.

    Su questa strada, sorgono nuovi ostacoli. Le vecchie difese terapeutiche e molecolari rinascono come medicine di performance. Un nuovo doping si profila all’orizzonte come scorciatoia che conduce a nuovi vicoli ciechi. La complessità dell’essere si deforma nell’economica possibilità dell’avere e si insinua nelle relazioni sociali. Creando nuove ansie e paure.

    La fragilità del contesto induce ansie di fondo che creano ansie relazionali e le alimentano. Di fronte alla possibilità di elaborare nuovi obiettivi, creare nuove regole e incontrare le persone tramite lo scambio e la conoscenza, nuove pretese, diffidenze, controlli si candidano come soluzioni facili ma alla fine alimentano l’ansia invece di attenuarla.

    L’ansia continua a essere un potenziale fattore di cambiamento, una straordinaria alleata, che va ascoltata e interpretata. Ci allerta sui pericoli, ci spinge a essere attenti, ci offre un indicatore sulla qualità delle nostre scelte.

    Per affrontarla, possiamo incrementare e allenare le nostre principali potenzialità, scegliere di seguire le nostre vocazioni più autentiche, allenare il coraggio della scelta e della responsabilità, abbandonare le vecchie e dannose soluzioni, affrontare in modo creativo il compito di autorealizzare le nostre vite.

    Oggi non si richiede capacità di adattamento, ma creatività e integrità. L’ansia permane fino a che gli obiettivi di autorealizzazione e liberazione non sono portati a compimento. Possiamo anestetizzarla con i farmaci più recenti o imprigionare la nostra mente nel rincorrere e sciogliere i nodi del passato. È solo questione di tempo, perché l’ansia ritorna fino a che il pericolo che percepiamo e che la genera non è stato affrontato e superato.

    I pericoli che intravediamo sono i più disparati. Ci fa paura non trovare il vero amore o lasciare un posto sicuro che disprezziamo per un’avventura imprenditoriale che non ha un esito garantito. Ci rende inquieti l’estraneità dell’altro e abbiamo bisogno di continue conferme su noi stessi. Come emozione di fondo, siamo esposti a ideologie che minacciano futuri catastrofici, climi invivibili, malattie e infezioni sconosciute, emergenze economiche continue. Come ansie primarie, ci ritroviamo a doverci mettere continuamente in discussione senza sapere quando questa discussione finirà. Come ansie relazionali, cerchiamo amore e amicizia, ma, abbandonata la sicurezza dei legami di sangue, abbiamo difficoltà a scambiare, costruire, conoscere l’altro come amico fino a prova contraria.

    La difficoltà nell’affrontare l’ansia deriva da una combinazione di fenomeni complessi. L’ansia nasce da una percezione di pericolo, che prepara il corpo alla fuga. La percezione del pericolo è talmente raffinata da farci cogliere elementi essenziali che riguardano il rapporto con noi stessi, con il nostro corpo, con le relazioni affettive e con il contesto. Se riusciamo a discernere, comprendere, avvalerci degli allarmi, possiamo usare l’ansia come alleata in un percorso di autosviluppo. Purtroppo l’ansia ci induce anche alla fuga e questa spinta all’azione, che il nostro corpo prepara perché allenato da millenni a sopravvivere, risulta inadeguata di fronte ai pericoli moderni. Il corpo reagisce allo stesso modo sia se ci bracca una belva sia se dobbiamo fare un esame all’università o parlare in pubblico. La fuga allora si sposta sul piano simbolico e genera rimuginazioni e nuovi comportamenti ansiogeni. A meno che non ci alleniamo a sentire l’ansia e a pensare comunque.

    Il primo passo è acquisire consapevolezza su come funziona il nostro corpo, comprendere la funzione culturale e ansiogena del contesto, scoprire le nostre risorse, individuare le nostre passioni, mettere all’opera il nostro coraggio.

    Di fronte a un nemico che è superiore in numero e forza, il vecchio generale cinese Sun Tzu non aveva dubbi: bisogna scappare. Ma se facciamo un inventario delle nostre forze, possiamo scoprire i punti di debolezza del nemico, affrontare il pericolo e vincere.

    L’ansia può essere trasformata in una domanda di cambiamento, il pericolo percepito in un obiettivo di sviluppo, il corpo in un santuario pronto a renderci felici.

    Quando la capacità creativa sviluppa la vocazione, allora l’ambizione permette l’eccellenza, la tecnica fornisce gli strumenti, l’attitudine e l’atteggiamento garantiscono l’energia, le paure si attenuano e l’ansia si trasforma in attivazione. Certo, il contesto è difficile, e la cultura dominante ci incute il terrore dell’impotenza e la tristezza della rinuncia. L’ansia ci avverte degli ostacoli, dei problemi, dei rischi nel nostro rapporto con la realtà. Abbiamo allora bisogno di nuove strategie di adattamento. Dovremo imparare a individuare i nostri maestri, a scovare i nostri allenatori, a riconoscere gli alleati, a costruire i nostri contesti e le nostre affinità elettive. Il rapporto con la realtà diventa una risorsa. Possiamo scoprire che non siamo soli, che le nostre paure sono condivise, che le soluzioni strategiche possono emergere.

    Trasformare l’ansia in una risorsa positiva per la nostra felicità e la nostra realizzazione personale è l’obiettivo di questo lavoro.

    1. Il teatro biologico dell’ansia

    Un corpo magnifico e complicato

    Come creature del pianeta Terra, noi umani abbiamo risorse incredibili che sono racchiuse nei segreti e meandri del nostro corpo. Le miriadi di neuroni e le infinite correnti di energie che ci attraversano sono complessi come un intero universo. L’essere umano è dotato di straordinaria bellezza, intriso di misteri e aperto a ogni trasformazione. Una creatura formidabile capace di pensare e pensarsi, di emozionarsi e di agire plasmando il proprio territorio, le sue relazioni e persino il proprio corpo. Un cervello che sa pensare se stesso mentre pensa; un corpo che sa mutarsi in ragione delle sue idee. Una vera meraviglia, che sappiamo ammirare e apprezzare quando ne viene esaltata l’essenza, come nelle opere di Michelangelo, ma che nella quotidianità spesso ci inquieta. Questo essere straordinario capace di trasformare gli ambienti più malsani in villaggi di benessere, è anche capace di distruggere, distruggersi e mettere in pericolo l’intero pianeta. Se la specie degli insetti si estinguesse, tutte le altre specie morirebbero. Se la meraviglia del cosmo che è l’essere umano sparisse come i dinosauri, ogni specie potrebbe espandersi all’infinito. Ma questa ambivalenza, lungi dall’imprigionare la meraviglia, la esalta. La complessità contraddittoria dell’incedere millenario di questo bipede ne esalta il carisma e lo rende protagonista del pianeta in cui è nato.

    Siamo in grado di pensare la complessità del nostro corpo. Sono secoli che ne studiamo i segreti. A volte per impegno, altre volte per fortuna, ne abbiamo scovato le risorse. Esse ci hanno permesso di sconfiggere numerose malattie e incrementare il nostro tempo di vita. La lotta per la scoperta, la conoscenza e la consapevolezza non è stata un semplice guardare dal buco della serratura i dialoghi fra le molecole del nostro corpo. La voglia di scoprire si è sempre nutrita di amore: amore per il sapere sempre, amore per la vita spesso. È così che i migliori fra noi hanno cominciato a spiegare come funzioniamo. E hanno scoperto che la biologia è insufficiente. Non basta comprendere i segreti del DNA, dell’adrenalina o del cortisolo. Questi dottori hanno compreso che il nostro ammasso inestricabile di cellule quando si vede allo specchio si trova bello, mediocre o decisamente brutto. Il funzionamento di una cellula non è sufficiente a scoprire cosa passa per la mente del suo nucleo per dare siffatti giudizi. Il segreto sta nel dialogo fra le cellule. Dialogo che avviene fra una moltitudine infinita di elementi nello sprazzo di alcuni nanosecondi. Cellule del corpo che incontrano cellule di altri corpi e infinite molecole dello spazio circostante. E dialogano fra di loro in una babele di lingue diverse, come una fiera di milioni di persone intenta a confrontarsi per dare un senso, un significato, un giudizio estetico, etico, filosofico, valoriale, fisico a ogni avvenimento. In milioni a confrontarsi, prendere una decisione, stabilire un’azione, raggiungere un obiettivo. In questa moltitudine di viventi e non viventi, le cellule umane sono sempre protagoniste. Ma spesso esse stesse non riescono a comprendere ciò che ognuna di loro fa in determinate situazioni.

    Piacere e dolore, una faccenda complicata

    Quando parliamo di ansia, intendiamo una moltitudine indescrivibile e infinita di soggetti biologici che si mobilitano. Hanno una causa e una finalità, che le comunità limitrofe capiscono, ma che altre moltitudini devono decifrare. L’ansia è la risultante delle comunità preposte a generare emozioni.

    Le nostre emozioni ci accompagnano nell’arco di tutta l’esistenza. Per i filosofi, i letterati, gli scienziati, ovvero coloro maggiormente preposti a pensarci, le emozioni sono sempre stato oggetto di attente valutazioni.

    Qualche giorno prima di cominciare a scrivere questo libro, sono stato a Londra per partecipare a un evento tenuto da Anthony Robbins, un formatore e imprenditore americano che si occupa da circa trent’anni di organizzare seminari sullo sviluppo personale in ogni parte del mondo. Tony è un tipo determinato. Uno a cui piacciono gli obiettivi sfidanti. Un uomo da palcoscenico con l’ossessione di trasformare la scienza in intervento, l’intervento in sviluppo personale, e lo sviluppo personale in moneta sonante. È così che è diventato ricco…

    Tony afferma che l’essere umano vuole evitare il dolore e raggiungere il piacere. Fosse così facile, Tony! Purtroppo non lo è. L’essere umano non ricerca il piacere o la felicità in sé. Ricerca i motivi, il senso e il significato che lo rendono felice. Quando è animato da forti ideali, è capace di affrontare il dolore fino a sacrificare la sua vita. La figura mitologica dell’eroe è sempre tormentata ed è affascinante proprio perché assume su di sé dolori inimmaginabili. L’essere umano se è convinto di determinati obiettivi, affronta ansie e paure di ogni sorta. Se motivato, è capace di sostenere qualunque dolore. In tante religioni e filosofie, il dolore come sacrificio di sé è la via della purificazione. Inoltre non dimentichiamo che determinati esseri umani sono stati e sono protagonisti di indicibili atrocità.

    Mi piace Tony, lo ritengo un pioniere in questo campo, spesso sfruttato per il suo stesso successo. In Italia è considerato un seguace della Programmazione NeuroLinguistica, ma lui è per il Neurocondizionamento Associativo. La differenza fra i due? Vedetela su internet, questo libro serve ad altro.

    Dicevamo le emozioni. Tony ha ragione su un punto. Il dolore non ci piace. Possiamo dare atto a decenni di studi psicologici e ai modernissimi neuroscienziati, nel dire che il dolore non ci è gradito. E mi fa piacere che la scienza lo abbia verificato nei laboratori.

    Vorremmo passare tutta la vita senza dolore. Pensate che bello se i dentisti si estinguessero per mancanza di lavoro! Eppure il dolore è essenziale. Ci sono malattie congenite, per fortuna molto rare, del sistema nervoso caratterizzate da assenza di dolore. Queste malattie si riscontrano nei bambini e comportano evidenti difficoltà a regolare i propri comportamenti. I traumi e le patologie che possono contrarre sono difficilmente riconoscibili, perché queste persone non sentono né il dolore, né il caldo, né il freddo. Le ferite interne possono portare alla morte perché il soggetto non ne avverte la presenza, anche se può camminare, pensare, decidere e svolgere qualunque tipo di attività. Il dolore dunque ha un suo senso. Ogni emozione ha una sua ragione di esistere. Il nostro scopo è comprenderne la scaturigine, interpretarla, valorizzarla e superarla. Se volessimo evitare il dolore a tutti i costi, vivremmo molto meno. Non solo.

    Diamo un’occhiata a questi dati:

    1. 10 milioni di bambini muoiono ogni anno a causa di malattie dovute alla malnutrizione loro o delle loro madri;

    2. altri 10 milioni vivono in condizioni prossime alla morte per fame;

    3. un miliardo di persone non ha accesso a fonti di acqua potabile e due milioni di bambini all’anno muoiono per mancanza di acqua o per acqua insalubre;

    4. 25.000 bambini ogni giorno nel mondo muoiono per malattie che sarebbero innocue in bambini ben nutriti.

    Milioni di bambini sono deprivati del diritto all’acqua e al cibo, e spesso sono in condizioni di schiavitù. Vedere e sapere genera dolore. Evitare di esporsi a questi dolori, significherebbe volgere la testa dall’altra parte, come è successo con il nazismo: l’Europa democratica faceva finta di niente e partecipava alle Olimpiadi del regime, mentre si costruivano i campi di concentramento e si annientavano gli oppositori.

    Il dolore ci serve, per vedere le ingiustizie e cercare di combatterle. Evitare il dolore sì, ma non a tutti i costi.

    Non una, ma mille emozioni

    La nostra caratteristica principale non è quella di evitare il dolore e raggiungere il piacere. Il sentire è un vissuto complesso, che non è mai disgiunto dal pensiero. Nessun riduzionismo o esemplificazione può soddisfarci quando parliamo di noi stessi.

    Proviamo a fare un breve esercizio.

    Scegliete un posto dove potete stare a vostro agio, senza interferenze esterne, in silenzio e rilassati. Ripensate alla vostra ultima settimana. Scegliete un evento per voi particolarmente significativo. E ascoltate le emozioni che lo hanno accompagnato visualizzando di nuovo l’evento con gli occhi della mente: ecco voi siete lì, lo vedete, lo vivete, lo sentite. Che cosa avete provato?

    Faccio un esempio di un evento a me caro che ho rivisitato. Sono le sei di mattina, l’estate sta cominciando, il sole è già alto, la mia famiglia dorme, mentre i miei gatti giocano rincorrendosi e facendosi agguati. Mi trovo davanti al computer. Devo scrivere questa pagina, una fra le oltre duecento che mi aspettano. Il mio editore mi ha dato una scadenza che devo rispettare. Ho studiato e riflettuto per mesi prima di cominciare la stesura. So qual è il fine ultimo del mio scritto. Ho deciso lo stile. Ho strutturato un indice. Mi accingo a dipanare la matassa delle idee per renderle comprensibili. Cosa provo? L’aria che entra dalla finestra è pura e fresca (Roma dorme ancora); sono concentrato perché mi sento focalizzato nell’esplorare ed elaborare un argomento importantissimo; sono insicuro, perché ogni concetto è una sfida da affrontare e non so quale sarà l’esito; sono sotto pressione, perché la mia creatività è soggetta a vincoli di spazio, di tempo e di contenuto (non potrebbe essere altrimenti); sono disorientato, perché non sono certo che la mia scaletta sia valida (e chissà quante revisioni subirà); sono irrequieto perché vorrei che fosse già tutto scritto; sono determinato e convinto, perché, comunque vada, so di avere delle cose importanti da dire e da condividere; sono grato, perché un insieme complesso di persone del mio presente e del mio passato mi sta permettendo di creare ciò che più mi interessa e mi gratifica; ho paura di non riuscire a organizzare il luogo della stesura, perché scrivere è un impegno che richiede la massima dedizione e, purtroppo o per fortuna, non è un’attività a cui mi posso dedicare a tempo pieno; sono felice, perché ho ricevuto il dono di fare quello che mi piace, circondato dall’affetto e dall’amore dei miei cari, che dormono serenamente a pochi metri da me. Questo stato d’animo dunque non è caratterizzato da una sola emozione; il mio corpo è attraversato da un flusso di molteplici energie: in alcune parti teso, in altre rilassato, in altre ancora in movimento; è attivo, ma fino al punto da poter rimanere seduto. Insicurezza, inquietudine, stress, disorientamento, irrequietezza, paura si mescolano insieme a concentrazione, determinazione, gratitudine, gratificazione. Mi soffermo su quello che provo. Le emozioni mi scorrono attraverso il corpo, la mente le discerne, le riconosce e ne sintetizza il significato. I sentimenti determinano il mio sguardo, la danza delle mani sulla tastiera, il ritmo dei miei pensieri, l’incurvatura della mia schiena, il rilassamento dei muscoli delle gambe. Il mio pensiero le rintraccia, le divide, le separa per identificarle. Sono tante, e spesso le parole non le rispecchiano. Indugio ancora, mi fermo, chiudo gli occhi, cerco il dialogo con il mio corpo. Le individuo. Di alcune sono certo, di altre faccio delle ipotesi.

    In qualsiasi momento della giornata e di fronte a qualunque evento, le emozioni che proviamo sono molteplici, chiare e al tempo stesso indefinite. Non proviamo mai solo dolore o solo piacere. Le emozioni positive e negative si miscelano come i colori primari di un artista e quello che viviamo è l’affresco che ne risulta: dalla serenità del giardino di Monet all’urlo di Munch. L’ansia è un’emozione primaria o un sentimento complesso? Sappiamo che non è mai sola e mai uguale a se stessa. Cambia di tono, colore, dinamica, tempo e intensità. E si miscela a compagne di viaggio sempre diverse, a seconda delle persone, degli eventi e persino dei contesti storici in cui la si prova. Per affrontarla, dobbiamo soffermarci ancora di più sul mistero delle emozioni.

    In principio, le immagini

    All’origine del flusso emozionale ci sono le immagini. Sono la rappresentazione cerebrale di oggetti, eventi, situazioni. Mediano il rapporto con la realtà e la giudicano. Nel caso dell’ansia, le immagini rappresentano un pericolo e una minaccia. L’oggetto ricostruito in una mappa mentale può essere esterno (esiste al di fuori di noi) o interno. Può essere specifico o generale, determinato o indeterminato. Ad esempio: possiamo essere di fronte a una situazione di rischio oggettivo; oppure evocare una situazione di rischio accaduta nel passato; o ancora essere prede di una concezione diffusa della propria vita come esposta a pericoli più o meno mortali (per esempio la paura di rimanere senza affetti). Il pericolo mette in discussione il corpo o la persona. È minaccioso nella misura in cui ci espone a un dolore fisico o psichico, parziale o totale. La rappresentazione mentale avverte il corpo che si trova in una brutta situazione, da cui dovrebbe tirarsi fuori. L’accadimento può riguardare una minaccia fisica: una situazione giudicata pericolosa, un nemico (una persona aggressiva), un animale (un predatore, o un piccolo insetto) o una situazione d’emergenza (un terremoto) che può ferirci o distruggerci. Può riguardare una minaccia psichica: l’incapacità di affrontare un obiettivo che mette in discussione i nostri progetti, incidendo sulla nostra felicità o sulla nostra autostima; il disorientamento nel non sopportare una situazione sociale (la casalinga che vorrebbe lavorare), economica (la minaccia del licenziamento) o affettiva (una relazione d’amore o familiare negativa). Questi accadimenti possono essere attuali, evocati dal passato, immaginati nel futuro. Mentre il pensiero è caratterizzato dalla consecutio temporum, le immagini mentali sono caratterizzate da contemporaneità e spesso non sono pienamente coscienti. Non sono nemmeno inconsce. Sono pre-consce, veloci, immediate e complesse. Per dipanarle, bisogna renderle oggetto di dialogo e pensiero. La percezione di un oggetto presente può divenire una minaccia perché associato a un avvenimento passato. Passato nella nostra vita oppure nella nostra specie e sedimentato e tramandato di generazione in generazione, come nel caso degli archetipi. L’immagine può essere la risultante di esperienze pregresse che si accompagnano a immaginazione e prefigurazione del potenziale futuribile e si legano ad accadimenti della vita presente. I tempi dialogano, si intrecciano e si confondono e ciò che è stato diventa una probabilità del futuro prossimo. O ancora, ciò che prevediamo ricrea il passato e determina l’immagine del presente. L’immagine mentale affianca presente, passato e futuro. Il suo è il tempo infinito della contemporaneità, come nel sogno. Il vivo dell’esperienza reale si avvale della storia e dell’avvenire. Al contempo l’immagine non è solo visiva. Tutti i sensi sono coinvolti seppure in termini figurativi. L’immagine è una configurazione mentale con una struttura composta di elementi di ciascuna delle modalità sensoriali: visiva, uditiva, olfattiva, gustativa e somatosensoriale. La modalità somatosensoriale comprende varie forme di senso: tattile, muscolare, della temperatura, del dolore, viscerale e vestibolare. Quando le immagini divengono nostre per effetto della coscienza, sono un flusso in movimento, che avanza, arretra, scorre lento o velocissimo, procede a sbalzi o a spirale. Non c’è un solo flusso: si tratta di correnti che all’inizio sono parallele, ma poi convergono, divergono, si sovrappongono, si ramificano. Il pensiero è il flusso di queste immagini.

    Le immagini mentali dipendono dalla storia personale e vengono alimentate dalle fantasie e dalle realtà che caratterizzano il contesto storico in cui l’individuo vive. Tra la prima e la seconda guerra mondiale, gli stati di paura come l’isteria subirono una brusca diminuzione e lasciarono il posto a una proliferazione delle nevrosi di angoscia. La paura generata da una guerra dove lo scontro fisico era stato in parte sostituito dalla tecnologia diventava angoscia paralizzante scatenata dall’impossibilità dell’azione individuale (attacco/fuga) più che dalle molteplici minacce alla sopravvivenza. Se un combattente non poteva agire, era molto più soggetto alla paura. I piloti dei bombardieri medi, che erano costretti a portare a termine il loro compito senza curarsi del pericolo, mostravano livelli di paura maggiori dei piloti da combattimento, che perlomeno potevano avere l’illusione di avere un certo controllo sul proprio destino. Questo a dispetto del fatto che appena un quarto di tutto l’equipaggio dei bombardieri medi perdeva la vita contro la metà dei piloti di caccia. Si assisteva così allo scollamento fra il rischio e la paura.

    Le immagini scatenano le emozioni, cioè i cambiamenti fisiologici nel nostro corpo.

    Emozioni, ovvero fai qualcosa!

    Le emozioni sono le modificazioni corporee che derivano dalle rappresentazioni della mente. Perlomeno quando siamo sani. In caso di malattia, cambia tutto. Il corpo acquisisce autonomia dalla mente. Nella normalità le immagini modificano la fisiologia, i sentimenti le codificano con la coscienza. Le emozioni avvengono prima nel corpo e poi vengono lette dalla mente.

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    Le emozioni vengono prima dei sentimenti. Perché? La storia della nostra specie è molto lunga. Ci è voluto molto tempo perché diventassimo umani. Ci trasformammo in bipedi circa cinque milioni di anni fa. Ci vollero altri due milioni e mezzo di anni prima che inventassimo i primi rudimentali strumenti di sopravvivenza. Per domare il fuoco, ci abbiamo messo un altro milione e mezzo di anni. Dopo tre milioni e mezzo di anni, eravamo ancora Homo erectus, un essere già dotato di formidabile talento rispetto agli altri animali, ma non ancora umano. Non ci somigliava fisicamente né pensava come noi. La sua mente era incredibilmente lenta, e probabilmente era molto più ansioso di noi. L’animale che i paleoantropologi definiscono Homo sapiens apparse solo 200.000 anni fa. L’emergere di un essere umano capace di usare il fuoco, di costruire rifugi, di forgiare alcuni strumenti utili alla sopravvivenza e dire alcune parole essenziali, è avvenuto dopo altri 160.000 anni. L’agricoltura, ovvero la coltivazione dei cibi e la loro conservazione, la prima grande innovazione tecnologica, viene fatta risalire a circa 10.000 anni fa. In quell’epoca, il mondo era simile a quello attuale, anche geograficamente. In tutto eravamo solo 4 milioni, più o meno la popolazione di Milano e provincia. Il corpo aveva messo a punto le emozioni prima della costruzione di strumenti di difesa. Avevamo bisogno di reagire prontamente ai pericoli. Eravamo pochi. La vita era preziosa e precaria. La natura non nasce con un progetto. Tutti gli organismi viventi, dall’ameba all’essere umano, nascono dotati di meccanismi progettati per risolvere automaticamente i problemi, senza aver bisogno dell’intelligenza creativa o emotiva.

    Questi meccanismi si sono sedimentati nei secoli in strati che, seppur dialoganti, hanno funzioni differenti.

    Al livello più basso ci sono:

    1. il nostro metabolismo (con le sue componenti chimiche e meccaniche che controllano gli equilibri chimici, la frequenza cardiaca, la pressione ematica, il deposito e la mobilizzazione delle proteine, dei lipidi e dei carboidrati);

    2. i riflessi fondamentali (come il trasalimento per reazione a un rumore o a uno stimolo tattile);

    3. il sistema immunitario (che è la prima linea di difesa da una minaccia all’integrità dell’organismo, sia interna che esterna, come virus, batteri, parassiti e molecole tossiche).

    Al livello intermedio ci sono i comportamenti associati all’idea del piacere (e della gratificazione) o del dolore (e della punizione). Comprendono le reazioni di avvicinamento o allontanamento del corpo da oggetti o situazioni specifiche. Si tratta di pacchetti di azione automatici, come l’allontanarsi del corpo da una fonte di disturbo, l’atto di tenersi una mano ferita, ed espressioni facciali di allarme e sofferenza, ma anche reazioni chimiche interne, che noi sperimentiamo come dolore. In situazioni di serenità, il corpo si rilassa, compaiono espressioni di fiducia e benessere, si producono endorfine, si facilita l’avvicinamento agli altri; in poche parole si sperimenta il piacere. La cosa straordinaria è che le modificazioni corporee e comportamentali avvengono prima che la nostra mente prenda consapevolezza del piacere e del dolore.

    Al livello superiore ci sono gli impulsi e le motivazioni: la fame e la sete, la curiosità e l’esplorazione, il gioco e il sesso.

    Più in alto ma non ancora in cima, ci sono le emozioni. Qui troviamo la meraviglia delle meraviglie: la gioia, il dolore, la paura, l’orgoglio, la vergogna, la compassione. Il genoma che li garantisce è pronto sin dalla nascita. Il pacchetto di azioni che costituisce il pianto non è soggetto ad apprendimento. Sono i motivi del pianto che cambiano con il corso della vita.

    Al livello più alto ci sono i sentimenti. È qui che si colloca l’esperienza dell’ansia. I sentimenti sono l’espressione mentale di tutti

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