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La storia di Roma in 100 luoghi memorabili
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E-book589 pagine8 ore

La storia di Roma in 100 luoghi memorabili

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Info su questo ebook

Cento storie per raccontare un’unica storia: quella della Città Eterna

In una città millenaria come Roma non c’è monumento che non sia stato teatro di un avvenimento importante, non esiste strada che non sia stata percorsa da un personaggio celebre, ogni angolo ha la sua piccola o grande storia da narrare. Questo libro ripercorre, attraverso cento luoghi, l’intera storia di Roma: dallo scontro tra Ercole e Caco, antecedente alla fondazione stessa della città, alle architetture del XXI secolo, dal Ratto delle Sabine al rapimento Moro, dallo scontro tra gli Orazi e i Curiazi a quello del ‘68 a Valle Giulia tra studenti e polizia, dalle capanne sul Palatino alla street art a Tor Marancia, da papa Silvestro a papa Francesco, da Augusto a Mussolini, dalla battaglia di Porta Collina alla breccia di Porta Pia, dal Teatro di Pompeo al Teatro Argentina. Un viaggio lungo duemilasettecentosettantuno anni attraverso monumenti e fonti antiche, passando per la letteratura del Grand Tour, il cinema neorealista e i “sandaloni” di Cinecittà, fino alle prime pagine dei quotidiani di oggi. Cento storie per raccontare un’unica grande storia: la Storia di Roma.

Tra i 100 luoghi memorabili:
Il Tempio di Giano
Il Monte Sacro
Porta Collina
La Colonna Antonina o Aureliana
L’elagabalium
Il Campo Barbarico
Le Case del Foro di Nerva
La Casa dei Crescenzi
S. Pietro in Montorio
Villa Pamphilj
Il Museo Napoleonico
La Casa-museo di Keats
Lo Studio di Canova
Villa Ada
Il Portico d’Ottavia
Via Veneto
Cinecittà
Il Verano
Lo Stadio Olimpico
La Casa di Alberto Sordi
Tor Marancia
Flavia Calisti
è laureata in Topografia antica e Scienze storico-religiose. Dopo aver conseguito un dottorato in Storia religiosa e vinto una borsa di perfezionamento, ha lavorato per alcuni anni in ambito accademico. Dal 2008 è guida turistica abilitata della Provincia di Roma e fa scoprire le bellezze della sua città a grandi e bambini. Ha al suo attivo molte pubblicazioni sia scientifiche che divulgative. La Newton Compton ha pubblicato Alla scoperta dei segreti perduti di Roma, Storie segrete della storia di Roma antica e La storia di Roma in 100 luoghi memorabili.
LinguaItaliano
Data di uscita24 ott 2018
ISBN9788822726667
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    Anteprima del libro

    La storia di Roma in 100 luoghi memorabili - Flavia Calisti

    Introduzione

    Quella che avete tra le mani non è una guida di Roma, non è un saggio di storia, non è un diario personale, è piuttosto un’antologia nel senso etimologico del termine, ovvero una scelta di fiori. Quella che avete tra le mani è la mia personale scelta di cento luoghi, più o meno noti, capaci di raccontare la storia di Roma dai tempi degli dèi a oggi. Vi troverete monumenti e personaggi, testi letterari e fatti di cronaca, aneddoti e leggende, tanti modi diversi per raccontare un’unica città, una città unica.

    I luoghi che hanno ispirato i singoli capitoli non sono descritti puntualmente, non troverete molte indicazioni sulla lunghezza, altezza, superficie dei diversi monumenti, non troverete molte date, i luoghi saranno semplicemente lasciati parlare. Saranno il palcoscenico su cui si alterneranno gli attori. Ognuno di essi vi racconterà una storia, un episodio, un personaggio. A volte un luogo ne chiamerà a sé altri, per questo, a ben vedere, i luoghi citati alla fine saranno ben più dei cento indicati dai singoli capitoli, le storie saranno più di cento, perché per me le storie sono come le ciliegie, perché ogni racconto entra in risonanza e ne genera di nuovi. Come Shahrazād ho cercato così di raccontare una lunga e avvincente storia, quella della mia città.

    Già, perché quella che trovate qui è la mia Roma. Sono gli studi fatti, le esperienze di vita vissuta, i ricordi, i miei personalissimi gusti ad aver guidato la scelta dei luoghi da visitare insieme. Vi porto con me per le sue strade, per i suoi vicoli, come ora che abito ormai lontano, da un po’ non posso più fare. Andiamo?

    1. Il tempo degli dèi (l’altare sacro a un dio o a una dea all’Antiquarium del Palatino)

    Quando ero piccola, il sabato mattina mio padre mi portava in giro per la città. In realtà non mi importava molto dove si andasse – anche se il momento in cui mi proponeva la terna di mete tra le quali poter scegliere mi faceva sentire importante – mi piaceva semplicemente sapere che quella mezza giornata era dedicata a me, era il mio momento speciale. La sera poi mi raccontava le favole, il più delle volte le leggeva, un po’ le inventava facendo incontrare in situazioni improbabili i miei eroi dei cartoni animati, poi c’era il suo cavallo di battaglia: Ulisse e la maga Circe. Non so se semplicemente non gli venissero in mente altri passi altrettanto avvincenti dell’Odissea o se fossi io a chiederla in loop come solo i bambini sanno fare. Un giorno, forse per ampliare il suo repertorio di racconti mitologici, mi regalò un libro, un libro che ormai non so più dove sia, ma del quale ricordo vividamente le immagini. Era un libro di mitologia romana. In copertina la lupa allattava i due paffuti gemelli, all’interno alberi e ruscelli prendevano forma di dèi. Quanto quel volume, quelle storie, quelle mattine trascorse nei musei o in giro per la città abbiano colpito la mia fantasia lo dicono le mie scelte accademiche. Innaffiate le menti dei vostri bambini, educateli al bello, all’arte, alla musica, alla lettura, sono tutti semi che germoglieranno. Non riempiteli di nozioni per farne degli adulti vincenti, riempiteli di bellezza per farne delle persone felici. Proprio pensando a quelle immagini mi è venuta voglia di cominciare questo racconto parlandovi di quella Roma piena di dèi, di ninfe, di quella mitologia romana che, a ben vedere, meriterebbe fiumi di inchiostro per essere spiegata e contestualizzata, ma che spero qui mi perdonerete come una personale licenza poetica.

    E allora seguitemi, ritroviamoci tra le pagine di quel libro, sulle sponde del Tevere, ai piedi di quella che non è ancora Roma, ma solo un susseguirsi di colli e vallate popolati da fauni e ninfe. Il fiume è un dio, il placido Tiberino, festeggiato poi ogni anno l’8 dicembre, dies natalis di un suo tempio sull’Isola Tiberina oggi scomparso. La sua raffigurazione più celebre fu rinvenuta presso la chiesa di Santa Maria sopra Minerva e decorava l’antico Iseo del Campo Marzio, oggi adorna invece una sala del Louvre. Presso l’approdo stava suo figlio, il benevolo Portumno, cui fu poi dedicato il tempietto a lungo detto della Fortuna Virile al Foro Boario. Alle loro spalle, sul Gianicolo, risiedeva il padre Giano, il dio della ianua, la porta, il passaggio. Dio dai due volti, effigiato sulle più antiche monete romane. A lui il re Numa dedicò un tempio-arco le cui porte erano (raramente) chiuse in tempo di pace. Fu lui ad accogliere l’esule Saturno sul colle che prese il suo nome, prima che il tradimento di Tarpea, prima, e il ritrovamento di una testa mozzata appartenuta al re Aulus ne mutassero il nome¹; oggi lo conoscete infatti come caput-oli: Campidoglio. A tale dio furono poi dedicati i Saturnalia, festa che si celebrava nel periodo del solstizio d’inverno, durante la quale ci si scambiavano i doni e i ruoli sociali. Sul Palatino c’era Pale, la dea che i pastori festeggiavano il 21 aprile, ai suoi piedi Conso, il dio della conservazione del farro, durante la cui annuale festa i Romani rapirono le ospiti Sabine. Romani che qualche volta arrivarono a rapire anche le dee (come forse la Minerva Capta di Falerii²) o quantomeno a invitarle gentilmente a seguirli a Roma prima di distruggerne templi e fedeli³. Uomini e dèi continuarono infatti a vivere insieme anche dopo la fondazione della città.

    Quando Romolo divenne un dio, forse con l’aiuto dei senatori⁴, trovò posto sul Quirinale, cui regalò il suo nome. Il suo successore Numa si innamorò di una delle Camene, la bella Egeria, e Servio Tullio incontrava la sua amata Fortuna presso la porta Fenestella al Foro Boario. Vesta se ne stava nel Foro Romano, mentre il povero Vulcano doveva risiedere fuori dall’abitato, anche se un altare a lui dedicato si trovava alle pendici del Campidoglio. Le due triadi, quella di Giove-Giunone-Minerva e quella di Cerere-Libero-Libera si dividevano tra Campidoglio e Aventino. C’erano poi divinità meno note e dai nomi curiosi: Robigo (dea della ruggine dei cereali), Pomona (dea dei frutti), Furrina (legata alle acque, che possedeva un bosco sacro ai piedi del Gianicolo). Insomma una miriade di divinità delle quali probabilmente voi, come già Cicerone, avrete a malapena sentito il nome e che davano motivo di scherno a sant’Agostino il quale scriveva: «Ma in verità, se hai voglia di ridere, trovi presso di voi grande materia di facezie: il dio Stercuzio, la dea Cloacina, Venere calva, il dio Timore, il dio Pallore, la dea Febbre ed innumerevoli altri di questo genere, ai quali i Romani antichi, adoratori di idoli, innalzarono templi e stabilirono che si dovevano onorare: se tu li trascuri, trascuri gli dèi di Roma»⁵. Un dio per ogni cosa, dalla prima parola detta dai bambini allo stipite della porta, dal dio Vermino alla dea Carna, proprio come nel mio libro di bambina, ogni angolo del paesaggio si animava di vita e di sacro.

    Terra di dèi e terra di eroi, quella su cui poi nacque Roma. Qui giunse Ercole con le mandrie di Gerione, provvidenzialmente trovò alle pendici dell’Aventino un comodo luogo di sosta, e ne approfittò per uccidere il mostruoso Caco⁶. Venne Enea, di Oreste arrivarono le ceneri, di Priamo lo scettro, di Iliona – regina di Tracia figlia di Priamo ed Ecuba – il velo (tutti pegni della futura grandezza di Roma). Quando Roma divenne poi la grande metropoli del Mediterraneo, gli dèi iniziarono ad arrivare anche per nave: come Esculapio e la Magna Mater⁷.

    Quale luogo, quale oggetto preferire dunque come rappresentativo di questo primo capitolo? Io ho scelto l’Antiquarium del Palatino e un’ara di travertino, alta poco più di un metro e larga poco meno, trovata presso la chiesa di Santa Anastasia alle pendici del colle nel 1829. Vi si legge: sei deo sei deivae sac / c sextium c f calvinus pr / de senati sententia / restituit, ovvero: Sacro o a un dio o a una dea. Caio Sestio Calvino, figlio di Caio, pretore, restaurò per sentenza del senato. La dedica è di età sillana e rimanda a formule analoghe usate dai Fratelli Arvali (Sive deo sive deae in cuius tutela hic lucu lucusque est: Al dio o alla dea sotto la cui tutela si trova questo luogo) e alla celebre dedica al Genius Loci della città, cui era dedicato uno scudo in Campidoglio⁸ (in cui si poteva leggere: Genio Urbis Romae sive mas sive femina, Al Genio della città di Roma, o maschio o femmina). Questa per noi curiosa formula riassume in sé una peculiarità tutta romana. Andate a vedere dunque questo – etimologicamente – anonimo altare, e approfittatene magari per regalarvi una passeggiata sulla sommità del Palatino, «tra le rovine del palazzo dei Cesari, simili a grandi dirupi», lassù dove «non si sa cosa sia piccolezza» come ebbe a osservare Goethe⁹. Infine sedetevi, e ascoltate, anche nel suo angolo più remoto e solitario, dopo aver letto questo capitolo, vi sarà impossibile sentirvi soli!

    2. Prima di Roma (l’area sacra di Sant’Omobono)

    Cantavano i Morcheeba: «Don’t you know that Rome wasn’t built in a day», e avevano ragione. Al di là del fatto che anche il buon Romolo, tra avvistamento degli uccelli, lite per decidere con il fratello chi ne avesse visti di più, realizzazione del solco, lite con il fratello che aveva scavalcato il sacro limite conclusasi con l’uccisione di quest’ultimo, fine della realizzazione del tracciato, istituzione dell’Asilo, rito della fossa di fondazione, rapimento delle donne, guerra e successiva alleanza con i Sabini, un po’ di tempo ci impiegò. Bisogna infatti considerare che il primitivo nucleo urbano, cui noi diamo il nome di Roma, non sorse dal nulla. Fu un lento processo, del quale non conosciamo se non le lente tappe, quello che i Romani immaginarono culminare nella fatidica data del 21 aprile 753 a.C., indicata da Varrone e scelta poi come ufficiale tra molte altre (Timeo pensava fosse l’813 a.C., Catone il 751 a.C, Cincio Alimento il 728 a.C., solo per citarne alcuni). Eh sì, perché di date, così come di miti sulla fondazione, ne esistevano moltissimi, basti considerare le diverse varianti sull’origine del nome raccolte dal solo Plutarco all’inizio della Vita di Romolo: riferimento alla forza bellica dei Pelasgi (rhome come forza, vigore), che le avrebbero dato questo nome appena giunti nel Lazio, o piuttosto nome della donna troiana di nome Roma che diede fuoco alle navi per interrompere il girovagare dei profughi e che avrebbe così regalato involontariamente loro tale sede. O Roma la Troiana che sposò Latino, figlio di Telemaco forse. Roma era però anche il nome della figlia di Italo e Leucaria, o la nipote di Ercole, che fu moglie di Enea. O forse Roma era la nipote di Enea, figlio di Ascanio o forse di Emilia, nata da Enea e Lavinia, e del dio Marte. Poi c’erano le versioni maschili del nome: Romano, nato da Circe e Ulisse, oppure Romo, figlio del re d’Etiopia, o ancora Romi, un potente re latino. Poi sì, i più dicevano da Romolo, ma Romolo chi? Il figlio di Enea e Dessitea, fratello di Romo? O il figlio di un’esule troiana di nome Roma che, una volta giunta sul litorale laziale, avrebbe sposato il re Latino (figlio di Telemaco), dando poi alla luce un bambino di nome Romolo, il quale avrebbe fondato una città cui diede il nome della madre? C’era poi la storia del fallo igneo apparso a Tarchezio, che su consiglio di un oracolo costrinse la figlia a unirsi con lui. La giovane non avendone alcuna intenzione si fece sostituire da un’ancella. Il re scoperto l’inganno le fece rinchiudere, costringendole a fare una tela in attesa che, finitala, potessero sposarsi. La pancia però cresceva, ma la tela no, perché Tarchezio la faceva disfare di nascosto durante la notte. Alla nascita dei gemelli poi… il racconto prosegue come sapete. Tante, tantissime ipotesi, ma forse l’origine sarebbe etrusca, dalla parola ruma, mammella, o dal latino ruo (precipitare, scorrere) e dal suo fiume che un tempo si sarebbe chiamato Rumon. Insomma vige una certa confusione sul tema (indice dell’interesse che l’argomento suscitava già tra gli antichi).

    I miti e le paretimologie però, a saperli ascoltare, hanno sempre qualcosa da raccontarci e possiamo anche noi credere che il buon Tevere sia stato in fondo il primo padre della città. Il suo approdo, ai piedi del Palatino, non trattenne forse la cesta dei gemelli, ma accolse benevolo le navi di mercanti fenici e greci, vide sfilare pasciute mandrie dai pascoli al mare e ritorno, assistette placido al sorgere del primo emporio e delle prime capanne sulle cime dei colli. Di fronte all’Anagrafe, ai piedi della chiesa di Sant’Omobono, sono state rinvenute le tracce storiche di questo vivace brulicare di popoli della media età del bronzo (xiv-xiii a.C.). Sono piccoli frammenti certo, a vederli insignificanti, ma che ci ricordano come ogni giorno ci troviamo a passeggiare inconsapevoli sopra trentacinque secoli di storia. Ci raccontano di popoli che attraversavano il Mediterraneo e risalivano il Tevere per portare le loro merci nel cuore della Penisola. In basso l’emporio e in alto, sui colli, le prime capanne (sul Palatino si possono ancora osservare le tracce lasciate dai pali lignei sul banco di tufo). Nell’viii secolo a.C. poi, con un preciso atto politico-sacrale, del quale i ventennali scavi di Andrea Carandini avrebbero identificato nell’area del Foro e delle pendici del Palatino le tangibili tracce, nacque infine Roma.

    Questa piccola area archeologica, che conserva i resti di una ricca sequenza stratigrafica, ci racconta però anche di un altro momento fondamentale della storia di Roma: il passaggio dalla monarchia alla Res Publica. Qui i resti più antichi attribuibili a una capanna dell’viii secolo a.C. sono sostituiti nel vii a.C. da un’area di culto con altari (presso la quale è stato rinvenuto un frammento ceramico riportante l’iscrizione etrusca più antica rinvenuta a Roma). Agli inizi del vi secolo a.C. vengono edificati due templi: da quello ubicato sotto la chiesa di Sant’Omobono proviene la ricca decorazione conservata ai Musei Capitolini, nelle teche accanto al grande basamento del tempio capitolino, cui appartiene il celeberrimo gruppo acroteriale raffigurante Atena che introduce Eracle nell’Olimpo. Si tratterebbe forse del santuario edificato dal re Servio Tullio, il re-servo, figlio di una schiava e di una scintilla del focolare, per legittimare il suo potere. Potere donatogli in seguito all’assassinio di Tarquinio Prisco da Tanaquil-Fortuna. Alla fine del secolo, epoca tradizionale della cacciata dei re, il tempio viene volontariamente distrutto, segno che tale divina investitura è ormai rifiutata e, solo dopo un secolo di abbandono, l’area è interessata da nuovi lavori edilizi. Il piano di calpestio viene rialzato (è in questo livello che si trovano conservati i nostri preziosi e antichissimi frammenti ceramici, qui dilavati dalla sommità del colle) e si ha la ricostruzione dei due templi gemelli dedicati a Fortuna e Mater Matuta¹⁰, dei quali oggi potete osservare gli scarsi resti.

    Se vi trovate a passeggiare da quelle parti fermatevi a guardare questi bassi muretti (quelli del tempio della Fortuna, giacché la cella del tempio dedicato a Mater Matuta è stata riutilizzata come chiesa a partire dal V secolo d.C., prima con il nome di San Salvatore in Portico, poi dal Cinquecento di Sant’Omobono, protettore dei sarti) e riflettete su come, anche dei lacerti murari apparentemente così anonimi e insignificanti, se lasciati parlare, ci raccontino di momenti così importanti per la storia della nostra città.

    3. La lupa (il Lupercale)

    Roma è una città che non smette mai di stupire, è un grande iceberg che tiene nascosta sotto la superficie gran parte di sé. Per gli archeologi è una grande fortuna sapere che il suolo conserva ancora storie, documenti, risposte; per la pubblica amministrazione talora è un incubo sapere che a ogni cantiere l’attendono statue, mosaici, affreschi (e già da questa constatazione potete dedurre che ci sia qualcosa di fortemente sbagliato nel rapporto della nostra classe dirigente con i nostri preziosi Beni Culturali!). Tra i ritrovamenti che più hanno fatto sensazione negli ultimi anni c’è la scoperta, avvenuta nel 2007 tra il tempio di Apollo sul Palatino e la chiesa di Santa Anastasia, di quello che per alcuni sarebbe niente meno che il famoso Lupercale, la grotta nella quale, secondo la tradizione, sarebbero stati allattati dalla lupa Romolo e Remo. Si tratta di una cavità (di 9 m di altezza per 7,5 m di diametro), rinvenuta a 16 m di profondità sotto la Casa di Augusto grazie a una sonda, impiegata durante dei lavori di consolidamento. La ricca decorazione presente nell’antro (realizzata con mosaici policromi e conchiglie, e coronata da un’aquila bianca al sommo della volta) e il suo stretto legame con la dimora di Augusto (che del continuo richiamo al suo ruolo di novello Romolo aveva fatto uno dei punti chiave del suo programma politico-iconografico) ha portato alla sua identificazione con la famosa grotta nella quale la lupa avrebbe accolto i due cuccioli umani.

    Del resto in quel periodo l’imperatore andava riempiendo la città di immagini della sacra grotta – basti pensare all’Ara Pacis (un’altra sua bella raffigurazione, ma di epoca adrianea, la trovate nella sala v di palazzo Massimo, si tratta della cosiddetta Ara di Venere e Marte proveniente dal piazzale delle Corporazioni di Ostia Antica) – e di richiami ai miti di fondazione.

    L’identificazione non è però univoca: ninfeo neroniano della Domus Transitoria, resti di un tempio di Nettuno, Lupercale sì, ma fatto ex-novo da Augusto perché l’antico luogo di culto, a detta di Dionigi di Alicarnasso, era già in parte stato modificato (ad esempio era sparito il bosco sacro a Pan)¹¹ o appunto grotta simbolo della nascita di Roma, cui Costantino avrebbe poi sovrapposto l’antichissima chiesa di Santa Anastasia, in origine dedicata a sua sorella e destinata ad accogliere annualmente la celebrazione di un nuovo natale, quello cristiano (Carandini, cui si deve tale interpretazione¹², fa risalire l’edificazione del titulus a prima del 25 dicembre 326 d.C., data in cui proprio qui, per la forte simbologia evocata dal luogo, papa Silvestro avrebbe celebrato il primo Natale). I giudizi su quest’ultima suggestiva ipotesi? Sensazionalismo da archeo-star cui si contrapporrebbero critiche da ex-sovraintendenti-risentiti… che dire: il dibattito è aperto e direi mai noioso.

    A me viene da pensare a Lévi-Strauss (l’antropologo francese, non quello dei jeans), che sosteneva che in fondo, nell’analisi del mito di Edipo, si doveva tenere conto di Freud quanto degli antichi tragediografi greci. Ecco, al di là di tutte le considerazioni storiche, che hanno sempre in sé la possibilità di essere poi smentite o confermate da successivi studi e scoperte, mi piace pensare che in qualche modo questa nuova mitopoiesi nasca da una necessità, la necessità di riempire ancora di senso il nostro mondo e di farlo con la forza del racconto, con il potere delle parole e delle immagini. Che sia archeologia o mitologia, io, personalmente, le amo entrambe.

    4. Romolo (il Lapis Niger)

    Nato da un dio e da una vestale, fondatore fratricida, augure, primo re, rapitore di donne e capo di eserciti, cosa poteva mancare nel curriculum vitae del nostro buon Romolo se non la divinizzazione? Tutti sanno che una buona uscita di scena è fondamentale per rendere un’opera perfetta e il fondatore di Roma fu certamente all’altezza. Tradizione vuole infatti che Romolo fosse improvvisamente sparito durante l’imperversare di una tempesta scatenatasi presso la Palude della Capra in Campo Marzio, alle none del mese di luglio (il 7) del 716 a.C. mentre il popolo era riunito in assemblea. Livio semplicemente commenta: Nec deinde in terris Romulus fuit¹³… puff, sparito in una nube, come un illusionista, e mai più rivisto. Mai più rivisto sulla terra, perché Romolo era asceso in cielo tra gli dèi, tra i quali fu accolto con il nome di Quirino. Aveva anche avuto lo scrupolo di avvisare Proculo Giulio del suo nuovo status e del fatto che Roma era comunque in buone mani e che sarebbe diventata la città più potente del mondo.

    Certo Dionigi di Alicarnasso dava un’altra versione dei fatti. I senatori, stanchi degli atteggiamenti tirannici del re, lo avrebbero circondato e fatto letteralmente a pezzi, pezzi che ognuno si sarebbe poi nascosto sotto la toga e avrebbe seppellito in seguito nel giardino di casa¹⁴. Anche questa fine aveva però qualcosa di divino, era la stessa morte patita da Osiride come dai mitici dèma della Nuova Guinea.

    Se anche Romolo era salito in cielo (o finito sotto terra in tante aiuole) come un dio, la tomba di un fondatore doveva di prassi essere mostrata ai visitatori nell’agorà, pardon nel Foro. Ed infatti eccola lì, davanti alla Curia. Fu rinvenuta il 10 gennaio del 1899 da Giacomo Boni, sotto una porzione di pavimentazione che si distingueva chiaramente dal lastricato della piazza in travertino per il suo colore nero. Era il Lapis Niger di cui parlava Festo. Tale luogo era stato indicato come tomba di vari personaggi della più antica storia di Roma, dal pastore Faustolo a Osto Ostilio, ma alla fine era sembrata perfetta per il fondatore.

    Sotto la nera pavimentazione fu rinvenuto un antichissimo sacrario con un altare, una base di statua e il celeberrimo cippo in latino arcaico che costituisce la più antica iscrizione monumentale latina ad oggi rinvenuta (data infatti al vi secolo a.C.). Tale area sacra è stata identificata con il Volcanal descritto da Dionigi d’Alicarnasso¹⁵. Il cippo, ve lo ricordo, altro non sarebbe se non un pubblico avviso volto a preservare la pulizia del luogo sacro¹⁶.

    Ecco allora che la geografia del mito è completa: abbiamo la grotta della lupa, ovvero la nursery del fondatore, la sua casa sul Palatino e la tomba nel Foro, e una città, Roma, non solo ricca di storia, ma che trabocca di miti in ogni suo angolo.

    5. Remo (l’Aventino)

    Devo ricordarvi che nel Medioevo però Romolo cambiò di tomba. Si immaginò infatti che il suo corpo riposasse sotto la cosiddetta Meta Romuli o Meta di Borgo, piramide rivestita di marmi policromi (poi riutilizzati nella pavimentazione della vicina basilica di San Pietro e del suo antico cortile, il cosiddetto paradiso¹⁷). La presunta tomba del fondatore (che tomba fu davvero, come la Piramide Cestia, ma di qualche nobile romano), venne distrutta a più riprese per il miglioramento della viabilità di Borgo a partire dalla realizzazione nel 1499, ad opera di Alessandro vi, della via che portò il suo nome (come mostra la pianta di Leonardo Bufalini del 1551¹⁸), fino ai lavori che portarono allo spostamento della chiesa di Santa Maria in Traspontina alla metà del secolo successivo¹⁹. Fortunatamente ne abbiamo diverse riproduzioni, su molteplici supporti.

    Vi è l’affresco dedicato alla crocifissione di san Pietro di Cimabue sul finire del xiii secolo, conservato nel registro inferiore della parete nord del transetto destro della basilica superiore di San Francesco ad Assisi; la medesima scena compare anche sul retro del Polittico Stefaneschi di Giotto alla Pinacoteca Vaticana; c’è l’affresco di Deodato Orlandi databile all’inizio del xiv secolo nella navata centrale della chiesa di San Pietro a Grado di Pisa; lo scomparto di predella con la Crocifissione di san Pietro di un Anonimo fiorentino (identificato da F. Zeri con il Maestro del Crocifisso Corsi) dell’inizio del xiv secolo conservato al Museo Horne di Firenze, c’è quello attribuito al Robiccia/Jacopo di Cione (secondo altri opera di Simone Martini), databile al 1371 e conservato nella Pinacoteca Vaticana e quello di Spinello Aretino, dell’inizio del Quattrocento e per finire quello di Lorenzo Monaco, di poco più tardo, conservato al Walters Art Museum di Baltimora; vi è poi la lastra di marmo con medesimo soggetto di un Anonimo romano della seconda metà del xv secolo, nelle Grotte Vaticane; vi è la bellissima tempera su tavola di Masaccio del 1426 proveniente dal polittico di Pisa ed oggi conservata a Berlino; di poco posteriore è il riquadro della porta del Filarete della basilica di San Pietro a Roma (unica sopravvissuta delle porte della basilica costantiniana); al 1472 data la carta topografica di Pietro del Massaio; degli inizi del Cinquecento è l’affresco della Visione della croce nelle Stanze di Raffaello, su progetto del Sanzio ma opera di Giulio Romano; vi è poi l’affresco di Anonimo bolognese del xvi secolo conservato nella sacrestia della chiesa di San Michele in Bosco di Bologna e infine il disegno ad inchiostro su carta di Giacomo Grimaldi ormai dell’inizio del xvii secolo conservato alla Biblioteca Apostolica Vaticana, ma qui ormai la piramide, da tempo scomparsa, è poco più che un motivo ornamentale caratterizzante²⁰.

    Dunque i Romani diedero al loro fondatore ben due tombe, e al povero Remo? Dopo il suo brutale assassinio anche lui ebbe la sua, o meglio le sue tombe in città.

    La storia la sapete tutti, ma facciamo un breve ripasso.

    Racconta Livio (i, 7):

    Tradizione vuole che Remo scorgesse per primo i sei avvoltoi. Quando già la visione augurale era stata annunciata, Romolo ne vide un numero doppio. Le schiere dei fautori dell’uno e dell’altro salutarono entrambi re, attribuendo il diritto di regnare a Remo per aver scorto prima gli uccelli e a Romolo per averne scorti di più. Per questo nacque una zuffa, e, sotto la spinta dell’ira, si arrivò a spargere sangue. Colpito a morte nella mischia, Remo cadde. È comunque più diffusa la leggenda secondo cui Remo, in segno di scherno verso il fratello, fosse saltato oltre le mura che stavano sorgendo. Romolo, trasportato dall’ira, lo avrebbe ucciso e avrebbe inveito contro di lui gridando: «Patisca la stessa sorte chiunque abbia ad oltrepassare le mie mura».²¹

    Ucciso in una rissa o punito per la sua empia violazione del solco primigenio, Remo venne sepolto, si diceva sull’Aventino (il colle che dagli aves – gli uccelli da lui avvistati –, secondo una delle svariate paretimologie, aveva forse tratto il nome). Con il tempo però, proprio en pendant con la tomba del fratello, anche a lui venne data una più sontuosa sepoltura: la Piramide Cestia.

    Poggio Bracciolini nel De varietate fortunae rimproverava Petrarca per il grossolano errore di attribuzione in cui anche lui era incorso, dovuto alla pigrizia – così sosteneva l’umanista – di non aver semplicemente scostato i rovi che all’epoca evidentemente coprivano l’iscrizione dedicatoria dell’epulone Caio Cestio.

    Dopo la recente scoperta a Pompei del povero romano schiacciato da un blocco di marmo durante la sua disperata fuga dalla furia del vulcano²², non riesco a togliermi dalla testa l’immagine del povero Remo, schiacciato sotto la sua maestosa piramide… Una piccola rivincita però la ebbe lo sfortunato gemello, la sua piramide è ancora lì, mentre quella – probabilmente più bella – attribuita a Romolo fu sacrificata al chimerico sogno di migliorare la viabilità capitolina.

    6. Numa (il tempio di Giano)

    Mala tempora currunt lamentavano secoli fa i Romani. Sarà l’avanzare dell’età, sarà l’attuale situazione geo-politica ed economica, sarà il montare dell’animosità e il gusto diffuso dell’aggressione verbale e non, ma – nonostante il mio ottimismo – devo ormai dirmi d’accordo con loro. E mi viene da pensare al buon vecchio Numa. Avete presente? «C’ho l’anni der cucco, me scrocchiano l’ossa, so vecchio bacucco, sto ’n pizzo alla fossa»… scusate, ma da quando ho visto i Sette re di Roma di Proietti io me lo immagino mentre canticchia così! Torniamo seri, mi riferisco al secondo re, il re amato dagli dèi e dalla ninfa Egeria, che per lui si consunse in un mare, o meglio una sorgente, di lacrime²³. Il re che aveva saputo superare l’esame in teologia davanti al grande Giove, che in premio gli diede l’ancile e gli svelò il piacolo con cui espiare i suoi fulmini senza più ricorrere al sacrificio umano. Colui che «cercò di rifondare, sulle basi del diritto e delle leggi, una città che era basata sulla violenza e sulle armi»²⁴. E che per farlo si rese subito conto che si doveva in primo luogo portare la pace in quella città che aveva fino a quel momento conosciuto solo scontri e battaglie. Fu così che Numa decise di edificare un tempio-porta al dio Giano, il dio dai due volti, il dio dei passaggi. Da quanto possiamo dedurre dalle riproduzioni presenti sulle monete dell’epoca di Nerone e dalle descrizioni che ne fanno occasionalmente le fonti, doveva trattarsi di una sorta di passaggio coperto fatto ad arco, chiuso da porte a due battenti sui due lati, al cui interno era ubicata la statua di culto del dio. La struttura era ubicata in fondo all’Argileto²⁵. La particolarità di questo tempio, oltre alla sua originale planimetria, era legata all’uso di aprirne le porte in tempo di guerra e di fermarle invece in tempo di pace.

    Per il bellicoso popolo dei figli di Marte tale circostanza era assai rara. Avvenne con Numa e in seguito una sola volta in epoca repubblicana (ad opera di T. Manlio Torquato nel 235 a.C.) poi grazie ad Augusto, che lo chiuse per tre volte (nel 29 a.C. – post bellum Actiacum ab imperatore Caesare Augusto pace terra marique parta, scrive Livio²⁶ –, nel 23 a.C. e in una data non certa dopo il 10 a.C.). Lo chiuse poi Nerone, dopo l’atto di sottomissione di Tiridate (Svetonio, Nero, 13), celebrando l’evento con una serie di coni monetali utilissimi per avere un’idea dell’aspetto avuto dall’edificio, del quale non sono rimaste tracce. Le ultime notizie che ne abbiamo riguardano l’apertura sotto il regno del giovane e sfortunato Gordiano iii. La ritualità del solenne gesto, che per certi versi potrebbe ricordare la solennità con cui oggi il papa apre e chiude la Porta Santa, era così spiegata dalla viva voce del dio a Orazio che lo interrogava nei Fasti sul perché il suo tempio presso i due fori (quello Romano e quello di Cesare) fosse considerato sacro.

    Giano ricorda allora al poeta la guerra contro Tazio e il tradimento di Tarpea che permise ai Sabini di avvicinarsi pericolosamente al Campidoglio²⁷ (Fast. i, 265-282):

    «…E già Tazio aveva toccato la porta, le cui spranghe

    aveva rimosso malevola la dea Saturnia,

    quand’io timoroso di combattere con un nume così potente,

    presi astutamente l’iniziativa suggerita dalla mia arte,

    e secondo le mie competenze aprii gli sbocchi delle sorgenti

    facendo scaturire un repentino fluire di acque.

    Ma prima gettai zolfo sotto le liquide correnti

    affinché l’acqua bollente chiudesse il varco a Tazio.

    Visto il buon effetto di ciò, scacciati i Sabini,

    restituii al luogo ormai sicuro la forma precedente.

    In mio onore fu costruita un’ara congiunta col tempietto;

    su di essa ardono tra le fiamme il farro e le focacce».

    «Ma perché in tempo di pace ti celi, e ti apri allo scuotersi delle armi?».

    chiede allora il poeta, cui il dio subito risponde:

    Affinché al popolo partito per la guerra sia aperto il ritorno,

    l’intera nostra porta rimane spalancata senza sbarre.

    La chiudo durante la pace affinché ella non ne possa uscire,

    e per volontà suprema dei Cesari la terrò chiusa a lungo.

    Il colloquio si chiude con il dio che ammira benevolo ciò che i Romani hanno donato al mondo: pax erat.

    Anche Macrobio riprende il racconto (Sat. i, 17-18):

    Durante la guerra sabina, provocata dal ratto delle vergini, i Romani avevano fretta di chiudere la porta ai piedi del colle Viminale, che in séguito fu per questo chiamata Gianuale, perché i nemici facevano impeto in quel punto. Appena chiusa, si aprì da sola; e il fatto si ripeté una seconda e una terza volta. Visto che non era possibile chiuderla, rimasero di guardia armati in gran numero davanti alla soglia. Mentre da un’altra parte si combatteva molto aspramente, all’improvviso corse la voce che i nostri erano stati sbaragliati da Tazio. A questa notizia i Romani che difendevano l’accesso fuggirono atterriti. Quando però i Sabini stavano per irrompere attraverso la porta aperta, si dice che dal tempio di Giano uscirono attraverso questa porta torrenti impetuosi dalle acque gorgoglianti e molte schiere nemiche perirono bruciate dai flutti bollenti e inghiottite dai gorghi travolgenti. In seguito di ciò si decretò che in tempo di guerra le porte del tempio restassero aperte, come se il dio fosse partito in aiuto della città.²⁸

    Del resto già Virgilio nell’Eneide, nel passo dedicato alla celeberrima profezia di Giove, farà così preconizzare la pace augustea (i, vv. 293-296):

    […] le funeste porte di guerra saranno serrate

    con dure sbarre e all’interno, seduto

    sulle sue ferree armi, incatenato

    con cento nodi e più dietro le spalle,

    l’empio Furore fremerà tremando,

    con la bava alla bocca insanguinata.²⁹

    Il tempio custodiva dunque la forza guerriera, aprirne le porte scatenava il Furore, per questo, a quanto racconta Procopio, durante l’assedio di Vitige i Romani cercarono di forzarne le porte. È proprio dal ricordo di questo episodio che ci viene una delle descrizioni più ricche dell’edificio (i, 25):

    Allora avvenne pure che alcuni Romani sforzassero le porte del tempio di Giano tentando aprirle di soppiatto. Questo Giano era il primo di quegli dèi antichi che i Romani nella lingua loro chiaman «Penati». Egli ha il suo tempio nel Foro di contro al senato, poco più in là di Tria Fata, ché così chiamano i Romani le Parche. Quel tempio è tutto di bronzo, di forma tetragona e grande tanto da coprire la statua di Giano. Questa statua di bronzo è alta non meno di cinque cubiti, in tutto il resto ha figura umana salvo che ha la testa con due facce, delle quali una è volta ad oriente, l’altra ad occidente. Dinnanzi a ciascuna faccia sonvi porte di bronzo, le quali secondo l’antica costumanza romana in tempo di pace e di bene si chiudevano, quando invece si stesse in guerra si aprivano. Venuta però quanto mai in onore presso i Romani la fede cristiana, queste porte non aprivano mai più, neppure quando fossero in guerra; in quell’assedio tuttavia alcuni che avevano in mente, secondo io credo, l’antica religione, si attentarono ad aprirle di soppiatto, senza però riuscirvi totalmente, salvo che le porte non combaciavan più fra loro come prima.³⁰

    Numa non aveva dunque solo riportato la pace, l’aveva resa visibile. In un’epoca senza media un Romano poteva passare nel Foro Romano e stupirsi del fatto che in tutto il suo mondo regnasse la pace (come ebbe a dire entusiasticamente Elio Aristide nel suo A Roma). Certo, come ebbe a notare Calgaco: «Ovunque passano [i Romani], lasciano un deserto e lo chiamano pace»³¹ e a ben vedere la pace romana era comunque una pace armata (non a caso l’adagio latino recita: si vis pacem, para bellum).

    Personalmente mi viene da pensare se non sarebbe utile avere oggi un tempio dedicato alla pace, un costante monito che ci ricordi costantemente tutte le guerre che ancora ci sono nel mondo, di quelle dichiarate e di quelle – forse più terribili – che non lo sono e che ci porti a sperare, un giorno, di chiuderle.

    A protezione del diritto e delle leggi Numa istituì anche nuovi sacerdozi e nuove pratiche religiose, riformando poi il calendario. Fu così che alla sua morte, dopo quarantatre anni di regno, Livio poteva sostenere che «la più importante delle sue opere fu la tutela, per tutto il tempo del suo regno, della pace ancor più del regno stesso» (Livio i, 21)³².

    Bell’epitaffio per un re, un presidente, un politico, un uomo, oggi in pochi potrebbero aspirarvi, perché mala tempora curruntsed peiora parantur!

    7. La cacciata dei Tarquinii (l’Isola Tiberina)

    Un tempo Roma era la terra dell’accoglienza e dell’integrazione. Nata da un melting pot come New York, crogiuolo di popoli e di genti raccogliticce – quando non di avanzi di galera – trasformava i nemici in cittadini e gli stranieri in re. Avvenne così per Lucumone, figlio di un greco espatriato in Etruria. Eh sì perché a quanto racconta Livio, poiché «gli Etruschi disprezzavano Lucumone perché era figlio di uno straniero esule» questi, spinto dall’ambiziosa moglie etrusca Tanaquil,

    prese la decisione di allontanarsi da Tarquinia. Roma le sembrò [alla moglie, perché già all’epoca erano le donne a decidere tutto!, n.d.a.] fornire le migliori possibilità: quello era un popolo di fresca formazione dove, per un atto di valore, si poteva diventare nobili all’improvviso e quello era il posto giusto per un uomo forte e valoroso. Lì aveva regnato Tazio che era sabino, lì, da Curi, era stato chiamato a regnare Numa. Anco poi era figlio di una donna sabina ed era nobile solo da parte di Numa.³³

    Tanaquil aveva ragione (come sempre l’hanno le mogli!) e Lucumone, che aveva intanto romanizzato il suo nome in Lucio Tarquinio, entrò nelle simpatie del re, che lo fece per testamento tutore dei figli. Quando poco dopo il re morì Tarquinio si lanciò nella prima campagna elettorale di Roma e il popolo romano, riconoscendo i meriti dell’Etrusco, lo elesse suo re. Tarquinio condusse quindi a termine vittoriose guerre contro i Latini e i Sabini, rese stabili i giochi e per ospitarli individuò l’area dove poi sorse il Circo Massimo. Bonificò le valli ai piedi dei colli e aprì il cantiere per l’erezione del tempio di Giove Capitolino. Come se non bastasse, visto che nella sua casa un prodigio aveva indicato il favore divino per un bambino figlio di una sua schiava, lo accolse e lo crebbe come fosse suo, e quando sopraggiunse la sua morte violenta, ad opera dai figli di Anco che si sentivano depredati dal trono, Tanaquil fece in modo che il trono toccasse a lui. Si chiamava Servio Tullio. Anche Servio fece moltissimo per la città, e altro avrebbe fatto, se la cattivissima figlia e il perfido genero non lo avessero ucciso. Il genero si chiamava Lucio Tarquinio, figlio (o nipote) del primo, il Prisco, e aveva un caratteraccio, come dimostra questa sua criminale apparizione nella storia (che a ben vedere aveva un altro delittuoso antecedente, visto che sposata Tullia Maggiore, placida figlia di Servio Tullio, la uccise per sposare l’altra Tullia, la figlia cattiva, sua cognata, che nel frattempo aveva fatto fuori il fratello di lui, il pacifico Arrunte Tarquinio, cui il padre Servio l’aveva data in sposa!).

    Preso il potere Tarquinio fece uccidere i senatori che erano rimasti fedeli al vecchio re, creò un suo personale corpo di guardia e iniziò a far eseguire a suo piacimento condanne capitali. Non consultava più il senato, amministrava la politica interna ed estera a suo capriccio. Per vendetta fece ingiustamente condannare a una terribile morte il povero Turno Erdonio, con l’inganno prese anche Gabii (con il celebre messaggio in codice che dava il segnale al figlio di eliminare i papaveri).

    Con il bottino di guerra esaudì il voto fatto dal padre e portò a termine il tempio di Giove, e le fonti attribuiscono a lui i primi impianti stabili per il Circo Massimo e i lavori per la Cloaca Massima, nei quali impiegò i cittadini Romani, crocifiggendo quelli che si rifiutavano di prestare la loro opera per un lavoro ritenuto degradante. Insomma, non è un caso se i suoi concittadini lo avessero ribattezzato il Superbo. La proverbiale goccia che fece traboccare il vaso, e che portò i Romani alla rivolta, fu la drammatica violenza perpetrata dal figlio Sesto contro Lucrezia e il suo conseguente suicidio. Il re venne allora esiliato insieme ai figli, Sesto fu ucciso a Gabii. Dopo duecentoquarantaquattro anni finiva la monarchia, Lucio Tarquinio riparava a Cerveteri dopo venticinque anni di regno³⁴.

    Visto però che già all’epoca non si lasciava a cuor leggero una poltrona, o meglio un trono, Tarquinio tentò di tornare, con un colpo di mano che però fallì. Fu allora che probabilmente il tempio di Sant’Omobono, dal quale gli ultimi re avevano tratto la loro legittimazione, venne distrutto. Fu allora che il tempio Capitolino, lo vedremo, venne inaugurato, inaugurando anche il computo della nuova era repubblicana. Fu allora che si decise di cancellare ogni legame con i Tarquinii lasciando al saccheggio della plebe i loro beni e consacrandone poi i terreni a Marte. Nasceva così il Campo Marzio. Ma poco distante nacque qualcosa di ben più stupefacente: un’isola. Era infatti il periodo del raccolto e il farro cresceva copioso sui terreni consacrati. Venne allora raccolto, o meglio strappato via, e ammassato in delle ceste che furono poi gettate nel fiume. Fu così che esse, nel fiume in secca per il caldo estivo, si arenarono e vennero ricoperte di fango, fino a formare un’isola, l’Isola Tiberina.

    8. Inizia la Repubblica (il tempio della triade capitolina)

    Il tempio che i Tarquinii avevano voluto dedicare a Giove sulla sommità del Campidoglio divenne con la loro cacciata il tempio della Res Publica. I prodigi che ne avevano accompagnato la costruzione – il rifiuto del dio Terminus e della dea Iuventas di abbandonare il sito, il ritrovamento della testa recisa che prometteva a Roma un futuro da caput mundi, la quadriga del povero Ratumena e la quadriga fittile che decorò la sommità del tempio – erano stati chiari e molteplici e indicavano che Roma era designata dagli dèi come dominatrice del mondo.

    Il tempio doveva allora essere dedicato e a farlo sarebbe stato il nuovo capo dello Stato. Ora che il re era stato cacciato vi erano però due consoli, Valerio Publicola e Marco Orazio Pulvillo: chi scegliere? I due decisero di giocarsela a sorte. Vinse Orazio, a lui toccò l’onore della dedica, a Valerio l’onere della guerra contro Veio. I Valerii erano una potente famiglia e non

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