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Una sconvolgente eredità: Harmony Destiny
Una sconvolgente eredità: Harmony Destiny
Una sconvolgente eredità: Harmony Destiny
E-book162 pagine2 ore

Una sconvolgente eredità: Harmony Destiny

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Info su questo ebook

Bugie milionarie 1/4
Quando la vita che hai conosciuto finora si rivela una menzogna, il passato può aiutarti a costruire il tuo futuro.

Sconvolta dalla scoperta di essere stata scambiata in culla alla nascita, Jade Nolan è costretta a chiedere aiuto al suo ex fidanzato, l'esperto di sicurezza Harley Dalton, per trovare la sua famiglia di origine. Mentre cercano delle risposte, Jade e Harley riscoprono la passione che li aveva uniti e i sentimenti che per troppo tempo si sono ostinati a negare. Ma è possibile che la ricerca della verità comprometta il loro nuovo inizio?
LinguaItaliano
Data di uscita20 ott 2020
ISBN9788830520196
Una sconvolgente eredità: Harmony Destiny

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    Anteprima del libro

    Una sconvolgente eredità - Andrea Laurence

    successivo.

    Prologo

    Non poteva essere.

    Jade Nolan esaminò il risultato del test genetico che aveva appena ricevuto per posta; il kit per il prelievo del DNA era stato un'idea di suo fratello Dean, che quel Natale l'aveva regalato a tutti, in famiglia. Aveva pensato potesse essere divertente scoprire da che parte del mondo venivano: erano abbastanza sicuri delle origini irlandesi e tedesche della famiglia, perciò non avrebbero dovuto esserci grosse sorprese.

    Ma le parole che Jade stava leggendo... definirle sorprendenti era dire poco. Erano scioccanti.

    «Jade? Stai bene?»

    Alzò gli occhi dal foglio di carta che aveva in mano e li fissò, vacui, sull'amica, Sophie Kane.

    Come ogni giovedì sera, si erano trovate per bere un bicchiere di vino e guardare insieme il programma preferito da entrambe. L'attimo che Jade aveva letto il risultato, però, la serata aveva preso una piega del tutto inaspettata.

    «No» rispose scuotendo la testa. «Non sto bene.»

    Come poteva stare bene? Secondo il resoconto, non era imparentata con nessuna delle persone che avevano inviato il test a quello specifico laboratorio. Considerato che lei era stata l'ultima della famiglia a spedire il campione del DNA, la cosa non aveva senso. Entrambi i genitori e il fratello l'avevano fatto diverse settimane prima di lei; il loro nome sarebbe dovuto comparire nella sezione Parentela del risultato.

    E invece non c'era.

    Senza contare che nel suo DNA non c'era alcuna traccia di origini irlandesi o tedesche: risultava invece in parte inglese, in parte svedese e in parte olandese. Aveva visto il risultato del fratello, e quello che aveva in mano non gli assomigliava neanche lontanamente.

    «Che cosa c'è scritto?» indagò Sophie. Posato il bicchiere di vino, si avvicinò per appoggiarle una mano sulla spalla, in gesto di conforto. «Parlami, Jade.»

    Lei deglutì vistosamente, cercando di sciogliere il nodo che tutt'a un tratto le si era formato in gola. Non riusciva a parlare. In un istante, le era tornata in mente una vita di dubbi infondati, anni passati a essere la mosca bianca della famiglia; insicurezze dovute al suo aspetto fisico diverso; battute sul fatto di essere la figlia del lattaio, dato che era bionda con gli occhi scuri, mentre tutti i parenti più stretti avevano capelli castano scuro e occhi verdi. Quelle battute stavano assumendo un significato tutto nuovo.

    Perché per quanto la madre le avesse sempre assicurato che sua nonna era bionda, per quante vecchie foto ingiallite le avesse mostrato per comprovare che la struttura snella e sinuosa veniva dalla famiglia del padre, non era servito a niente. La nonna aveva avuto i capelli di un caldo color miele, in gioventù, mentre quelli di Jade erano biondo platino; le persone in quelle vecchie foto erano povere e malnutrite, non magre di natura come Jade, che aveva un corpo da ballerina.

    Jade si era sempre sentita diversa dagli altri. E, quella sera, aveva avuto la prova che dimostrava ciò che inconsciamente aveva sempre saputo: non era una Nolan.

    Si alzò all'improvviso e il foglio con il risultato le scivolò dalle dita, finendo per terra.

    Lei non lo notò nemmeno.

    «Penso di essere stata... adottata.» Finalmente riuscì a pronunciare le parole, anche se suonarono strane persino alle sue orecchie.

    Adottata. Una constatazione che fu come un pugno allo stomaco. Perché i genitori glielo avevano tenuto nascosto? Ormai aveva quasi trent'anni. Si era sposata e aveva divorziato. Quando lei e l'ex marito, Lance, avevano cominciato a parlare di figli, la madre le aveva persino raccontato di quando l'aspettava, di come il padre era svenuto in sala parto...

    Invece era stata tutta una menzogna. Un'elaborata, assurda menzogna.

    Ma perché?

    Non capiva cosa stesse succedendo, tuttavia in un modo o nell'altro avrebbe scoperto la verità.

    1

    Essere il capo era una vera noia.

    Seduto alla scrivania dell'ufficio all'ultimo piano del palazzo di Washington DC, Harley Dalton scorse rapidamente qualche rapporto. Non li stava leggendo sul serio, in realtà. Mandare avanti una compagnia non era il suo mestiere; ne aveva avviata una, solo perché era stufo di prendere ordini, dopo il congedo dalla Marina.

    Non si sarebbe mai aspettato di avere tanto successo. La Dalton Security possedeva quattro uffici negli Stati Uniti e uno a Londra, con centinaia di impiegati. Era la compagnia da contattare quando qualcuno aveva delle grane, o se c'era bisogno di gestire una determinata situazione. Niente di illegale, ovviamente, però le cose venivano risolte in una maniera rapida ed efficiente che a volte ricadeva in una sfocata area grigia.

    Di recente si erano occupati del rapimento di una ragazzina di quattordici anni. Era scappata con l'allenatore di calcio, che di anni ne aveva quasi cinquanta. La notizia era finita su tutti i telegiornali mentre si apriva la caccia per ogni angolo del Midwest. Anche la Dalton Security era finita nei notiziari quando aveva rintracciato, arrestato e consegnato il pervertito sulla soglia della stazione di polizia, salvo, tuttavia non troppo sano. La ragazzina era tornata a casa senza un graffio. Le azioni della Dalton erano schizzate alle stelle. Tutto si era concluso per il meglio.

    Un meglio relativo, visto che Harley si ritrovava tutto il giorno bloccato in riunioni con colletti bianchi inamidati seduti a grandi scrivanie. Non era più lui ad agire sul campo, e la cosa non gli andava a genio. Non era più un investigatore con il porto d'armi che arrestava i sospettati; era un dannato passacarte.

    Non avrebbe mai immaginato che diventare milionario fosse un tale strazio.

    «Signor Dalton?» La voce dell'assistente si fece sentire attraverso l'interfono del telefono.

    «Sì?» rispose, cercando di non aggredire Faye. Non era colpa sua se quel giorno si sentiva soffocare dalla cravatta.

    «Ho il signor Jeffries in linea per lei.»

    Jeffries? Il nome non gli era familiare. «Chi è?»

    «Dice di essere l'amministratore delegato dell'ospedale St. Francis di Charleston.»

    E perché il CEO di un ospedale di Charleston avrebbe dovuto chiamarlo? Harley era nato e cresciuto a Charleston, ma non ci tornava da più di dieci anni. La madre viveva ancora là; le aveva comprato una bella casa coloniale che non aveva mai visto di persona. Non sarebbe stato il CEO a chiamarlo, se fosse successo qualcosa alla madre. Perciò di cosa poteva trattarsi? Di solito Harley non rispondeva a telefonate di persone che non conosceva, ma si era incuriosito.

    «Me lo passi» istruì Faye.

    Il telefono squillò di nuovo un attimo dopo e lui sollevò la cornetta. «Dalton» si presentò.

    «Buongiorno, sono Weston Jeffries. Sono l'amministratore delegato del gruppo St. Francis di Charleston. Speravo di poter parlare con lei di una certa... situazione che ci ritroviamo tra le mani.»

    «Di solito i nuovi casi sono gestiti dal nostro reparto clienti» fece presente. Se volevano una particolare attrezzatura di sorveglianza o dovevano far svolgere delle indagini su qualche impiegato, non erano casi che dovessero finire sulla sua scrivania.

    «Lo capisco» convenne il signor Jeffries, «tuttavia da CEO a CEO, si tratta di una situazione molto delicata, per noi. E abbiamo già attirato più attenzione mediatica di quanta possa farci piacere.»

    Attenzione mediatica? Forse Harley avrebbe dovuto prestare più attenzione a ciò che succedeva a casa. «Be', perché non mi racconta cosa sta succedendo così le dico cosa posso fare.»

    «Siamo stati contattati da una donna che sostiene di essere stata scambiata alla nascita, qui da noi in ospedale, nel 1989. Sulle prime pensava di essere stata adottata, i genitori, però, insistono di aver partorito una figlia al St. Francis, quel giorno. Lei crede alla loro parola, perciò, a suo modo di vedere, l'unica possibile spiegazione è che sia stata scambiata con un'altra neonata. Cerchiamo una persona che possa investigare sull'accaduto, con la massima discrezione. La donna si è già rivolta alla televisione locale e non vogliamo che la situazione degeneri.»

    Anche se uno scambio alla nascita era un evento interessante, e potenzialmente dannoso per l'ospedale, Harley non capiva ancora perché l'uomo avesse voluto parlare direttamente con lui. D'altro canto, si stava annoiando a morte e sarebbe anche potuto starlo a sentire. «Lei crede che l'ospedale abbia qualche responsabilità?»

    «Difficile dirlo. La tecnologia e la sicurezza, all'epoca, non erano al livello di oggi. La donna, tra l'altro, è nata proprio durante l'uragano Hugo, perciò le circostanze non erano certo normali, in ospedale, in quel frangente.»

    Uragano Hugo? Che coincidenza: la sua ragazza del liceo era nata durante l'uragano Hugo. La sua mente fu immediatamente inondata di immagini dell'attraente bionda che era stata protagonista di tutte le sue fantasie adolescenziali. Bella, intelligente e assolutamente fuori dalla sua portata. Quando lei l'aveva scaricato, aveva cercato di lasciarsi quel ricordo alle spalle, ma si ritrovava comunque a pensare a lei più spesso di quanto gli piacesse ammettere.

    Come in quel momento.

    Tanto da distrarsi e non ascoltare una parola di ciò che l'uomo aveva detto. «Come si chiama la donna?» lo interruppe.

    «Jade Nolan.»

    A sentire quel nome, Harley ebbe l'impressione che qualcuno si fosse materializzato dalla cornetta per dargli un pugno in faccia. Jade. Di tutte le donne di Charleston, doveva essere proprio il suo caso a piovergli addosso. E in quel momento seppe che, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, la compagnia avrebbe accettato quel caso. E seppe anche che, per la prima volta da anni, se ne sarebbe occupato di persona.

    Forse non era la cosa più saggia o salutare, a livello emotivo, tuttavia doveva rivederla. Erano passati più di dieci anni da quando l'aveva piantato per andarsene con quell'insipido, viscido essere, al secolo Lance Rhodes. Aveva sentito che si erano sposati. Ovvio, per lei aveva rappresentato tutto ciò che desiderava. Tutto ciò che Harley non era.

    Probabilmente si trattava di morbosa curiosità, o forse era solo il bisogno di uscire da quell'ufficio che sembrava richiudersi su di lui come le pareti del compattatore di rifiuti di Guerre Stellari. Comunque fosse, l'indomani mattina sarebbe partito per Charleston.

    «Signor Dalton?»

    Di nuovo, Harley si rese conto di essere rimasto in silenzio troppo a lungo. «Chiedo scusa, signor Jeffries. Accettiamo il caso. Qualcuno la ricontatterà per avere tutti i dettagli, a ogni modo entro la settimana ci vedremo a Charleston.»

    «Intende occuparsi personalmente del caso?»

    «Vista la situazione, sì.»

    «La ringrazio molto, signor Dalton. Non vedo l'ora di incontrarla di persona quando sarà in città.»

    Chiusero la telefonata e Harley si appoggiò allo schienale per considerare le ramificazioni di ciò che aveva appena fatto. Accettare il caso non era un problema: non aveva alcun dubbio che la sua squadra sarebbe riuscita a scoprire la verità su ciò che era successo, sempre che qualcosa fosse successo. Tornare a Charleston di persona, però, era tutta un'altra faccenda. Poteva ripetersi che era una buona scusa per andare a trovare la madre e fare un tuffo nel passato, tuttavia chiunque l'avesse conosciuto da ragazzo avrebbe capito che, in realtà, tornava solo per vedere Jade.

    Non era la ragazza giusta per lui. L'aveva saputo fin dal liceo. Lui aveva passato il tempo tra una detenzione e l'altra, mentre lei era la tesoriera della National Honor Society. Si muovevano in circoli agli antipodi. Jade stava con i ragazzi svegli e lui con i piccoli delinquenti. Eppure, nel momento in cui l'aveva vista, durante la lezione di francese, aveva capito di essere fregato.

    Forse erano quei grandi occhi da cerbiatta che spiccavano sulla pelle chiara, o quei capelli biondo platino. Ricordava ancora fin troppo bene la sensazione che provava a farli scorrere tra le dita. Sotto le folte ciglia, lei l'aveva sempre guardato con un misto di curiosità e di apprensione. All'ultima era abituato; si era guadagnato una certa reputazione, nel liceo. Era la curiosità che l'aveva stregato.

    Anche se in francese se la cavava, aveva finto di essere una frana per avvicinarla e chiederle di dargli una mano, ovviamente dietro compenso; sapeva che la

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