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Il futuro nelle tue mani: Harmony Bianca
Il futuro nelle tue mani: Harmony Bianca
Il futuro nelle tue mani: Harmony Bianca
E-book167 pagine2 ore

Il futuro nelle tue mani: Harmony Bianca

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Info su questo ebook

Dottori in Vietnam 1/2
Per questi due dottori la professione medica non è solo un lavoro, ma una vocazione. E il Vietnam il posto giusto per ricominciare a vivere.

Il dottor Joe Lennox e suo figlio sono in Vietnam alla ricerca di un nuovo inizio. Impegnato nella sua attività di medico volontario in un ospedale umanitario, Joe è stupito di quanto in fretta si sia sentito a casa. Di sicuro grazie all'accoglienza della gente del posto, alla sensazione di sentirsi utile per qualcuno e soprattutto grazie alla bella e intrigante dottoressa Lien, sua collega in ospedale e guida turistica non ufficiale. Accanto a lei Joe cede alla tentazione di credere di nuovo nel futuro, ma solo a patto di lasciarsi definitivamente il passato alle spalle.
LinguaItaliano
Data di uscita20 lug 2020
ISBN9788830516700
Il futuro nelle tue mani: Harmony Bianca

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    Anteprima del libro

    Il futuro nelle tue mani - Scarlet Wilson

    successivo.

    1

    Sulla carta, il viaggio gli era parso lunghissimo, ma in realtà era stato come un battito di ciglia e se l'era goduto appieno. Va' e mostra a tuo figlio una parte di mondo dove possiate costruirvi nuovi ricordi. Erano le parole che gli aveva detto sua madre mettendogli in mano i biglietti aerei per il Vietnam.

    Aveva ragione. Lui sapeva che aveva ragione. E lei gli aveva dato la spinta necessaria.

    Subito dopo erano venute la confusione e la frenesia dei preparativi. Le vaccinazioni, i lavori da portare a termine, i bagagli, l'agenzia immobiliare a cui lasciare le chiavi di casa per affittarla, la posta da fare arrivare a casa di sua madre.

    Quando finalmente si era seduto in aereo avrebbe voluto solo riposare. Ma il suo stomaco aveva avuto altre idee. Era agitato, emozionato. Era da molto tempo che non avvertiva sensazioni così piacevoli, al punto che aveva stentato a riconoscerle.

    Regan si era divertito molto durante il volo. Tra un film e l'altro, gli spuntini, qualche sonnellino e una valanga di domande erano stati ottimi compagni di viaggio. E adesso che stavano per sbarcare all'aeroporto di Hanoi, Regan fissava meravigliato il paesaggio verde e lussureggiante che li circondava. «È proprio come a casa!» osservò sorridendo.

    Joe avvertì una fitta al petto. Con quel viaggio, lui e suo figlio andavano avanti. Lo sapeva ed era pronto. Ma c'era sempre qualche gesto di Regan, piccole cose come il movimento di una mano o un rapido sguardo, che gli ricordava Esther. E la consapevolezza che lei non avrebbe visto nulla di tutto ciò che adesso si distendeva davanti era dolorosa. Non poteva condividere con loro quegli attimi, né essere orgogliosa del bambino forte e coraggioso che stava diventando Regan.

    Joe si sporse verso suo figlio e guardò anche lui fuori dal finestrino. Inizialmente aveva pensato che la prima cosa che avrebbero visto sarebbe stata la città, e invece tutt'intorno era una distesa di verde, esattamente come a Glasgow. Forse quel luogo sarebbe stato più familiare del previsto.

    L'aeroporto era una baraonda. Joe tenne stretto Regan per mano mentre superavano il controllo dei passaporti e, dopo aver ritirato i bagagli, scorse nei pressi del gate d'uscita un tizio con una camicia bianca e dei pantaloni sportivi che se ne stava appoggiato a un pilastro con in mano un cartello su cui erano stati scarabocchiati i loro nomi.

    Dottor Joe Lennox e figlio.

    Senza mai lasciare la mano di Regan, e destreggiandosi tra la gente con i bagagli, fece un cenno all'uomo per farsi notare. Intorno a lui sentiva parlare decine di lingue e sperò tra sé che quel ragazzo parlasse almeno un po' d'inglese.

    «Dottor Joe?» gli chiese il giovane vietnamita.

    Lui annuì e l'altro gli tese la mano. «Sono Rudi. Vi accompagnerò io al May Man Hospital.» Gli prese le due valigie e si avviò velocemente verso l'uscita dell'aeroporto. «Arrivate dalla Scozia?» chiese da sopra la spalla.

    Joe annuì di nuovo e si abbassò per prendere in braccio Regan così da riuscire a star dietro alla loro guida.

    «Conosco tutte le squadre di calcio scozzesi. Lei per chi tifa?»

    Joe rise. Ovunque nel mondo lui si trovasse, la Scozia era famosa per il calcio, e le conversazioni partivano sempre da lì.

    Ben presto si ritrovarono a bordo di un'auto immersi nel traffico. Sembrava che a Hanoi tutti si muovessero con lo scooter o la motocicletta. Regan era stanco e si rannicchiò contro di lui.

    Per una frazione di secondo Joe fu assalito da un dubbio. E se Regan non si fosse trovato bene? I suoi nonni non sarebbero stati lì a rassicurarlo. Quel mondo era completamente diverso dai luoghi in cui suo figlio aveva vissuto fino ad allora. Gli passò la mano sul capo e per un attimo ebbe la sensazione di accarezzare i capelli soffici di Esther. Regan aveva lo stesso spirito avventuroso di sua madre. Non aveva paura di nulla e affrontava ogni situazione nuova con entusiasmo. Joe era molto orgoglioso di suo figlio, e sperava con tutto il cuore che non cambiasse mai.

    Dopo mezz'ora di viaggio, Joe non resistette alla tentazione di abbassare il finestrino e sentire i rumori e gli odori della città. La prima cosa che lo colpì fu la moltitudine di persone e di mezzi che giravano per le strade. Tutto pareva compresso, vicino; dai negozi ai mezzi di trasporto, alle case.

    I colori vivaci dipingevano il paesaggio urbano intorno a lui. C'erano negozietti in ogni dove con le insegne rosse, gialle e azzurre, case dipinte di rosa e bianco e con i balconi a ogni piano, e ce n'era una con delle piante rampicanti che ricoprivano l'intera facciata. Un altro edificio, il più stretto che avesse mai visto, era stato completamente tinteggiato di celeste e tutt'intorno c'erano gruppetti di bambini che giocavano allegramente.

    Era una città caotica, dall'aspetto fragile, come se fosse stata costruita con i mattoncini Lego, ma era incredibilmente affascinante. L'area antistante ai negozi era affollata di bancarelle con esposta merce di ogni tipo, dal cibo ai souvenir, fino alle magliette colorate. In parte gli ricordò il Barrowland di Glasgow. Sorrise, chiedendosi se anche lì gli ambulanti usavano lo stesso linguaggio colorito dei ragazzi inglesi.

    Quando attraversarono il quartiere di Ba Dinh l'autista indicò loro alcuni luoghi d'interesse culturale, e più avanti, nel quartiere francese, fece notare l'architettura in stile coloniale. Era chiaro che lentamente si stavano allontanando dalle zone più turistiche per raggiungere la periferia. E lì, se possibile, c'era in giro ancora più gente di quanta non ne avesse vista prima, ma soprattutto la povertà era evidente a ogni angolo. Un brivido gli percorse la schiena, e ritornò con la mente a casa sua, lo studio che aveva in una delle zone più disagiate di Glasgow.

    I bambini scorrazzavano allegramente nel grigiore delle strade e solo di tanto in tanto, qua e là, si scorgevano delle aree verdi. Il taxi imboccò una via più larga. Le case lì erano diverse, non più attaccate l'una all'altra. Sembravano residenze private di un certo tenore, e ognuna era circondata da un grazioso giardino.

    L'auto si fermò davanti a un edificio a due piani in stile coloniale di color giallo chiaro. Sopra la porta campeggiava la scritta May Man Hospital. L'autista si voltò e sorrise indicando l'insegna, dopodiché scese e aprì loro la portiera. Joe prese Regan in braccio e uscì a sua volta, lasciando che l'aria calda e umida li avvolgesse. «Il clima qui è molto diverso da quello che abbiamo in Scozia» osservò tra sé.

    Tutt'intorno c'erano altri edifici molto simili tra loro. In passato dovevano essere stati eleganti residenze signorili poi riconvertite in ristoranti e hotel, ma che ora, con l'intonaco scrostato e le persiane pericolanti, mostravano chiari segni di decadenza. L'unica cosa che dava segnali di vivacità era l'insegna sulla porta dell'ospedale: May Man Hospital.

    L'autista prese i bagagli dal baule e li seguì fino all'entrata dell'ospedale. Lui varcò la doppia porta a vetri e si fermò nell'atrio.

    Una percezione familiare lo investì di colpo. L'odore, i rumori, il vociare... Era da oltre sei mesi che non provava più quelle sensazioni. Fare il medico di base non era come lavorare in ospedale, e la cosa più incredibile era che, in un certo senso, tutti gli ospedali del mondo erano uguali. Indipendentemente dalle attrezzature, dal clima o dal momento, l'odore del disinfettante, il sommesso parlottare e il suono dei passi nei corridoi era uguale ovunque. Quell'idea lo fece sorridere.

    Gli era mancata quell'atmosfera. Inutile fingere il contrario. Joe aveva desiderato diventare medico sin da bambino, e negli ultimi sei mesi...

    Deglutì. Aveva lavorato. Ma non aveva fatto ciò che gli piaceva di più, e che aveva svolto in passato.

    E anche se non sapeva niente né di quel luogo né delle persone che vi lavoravano, sentiva di avere preso la decisione giusta.

    Percepì l'avvicinarsi di una persona alla sua destra. «Posso aiutarla?»

    Joe voltò un poco la testa e vide una donna. Parlava inglese. «Mi hanno detto che dovevo rivolgermi a Nguyen Van Khiem o a Nguyen Van Hoa» le rispose, cercando di pronunciare i nomi correttamente. «I medici che dirigono l'ospedale.»

    Quando un attimo dopo si girò del tutto, la giovane vide che aveva in braccio un bambino. «Oh!» esclamò sorpresa, facendo un passo indietro.

    Per un istante tra loro cadde il silenzio. Sul suo grazioso volto Joe scorse un'espressione di meraviglia. Era chiaro che lui non era la persona che quella giovane si aspettava di vedere. Ma in fondo nemmeno lui aveva immaginato di trovarsi davanti a una donna con gli occhi scuri, il lieve trucco e i bei denti bianchi. Sua madre gli aveva detto che l'ospedale era gestito da una coppia di anziani con cinquant'anni di esperienza...

    «Tu devi essere il nuovo medico. Khiem e Hoa mi avevano avvertita del tuo arrivo» disse la donna, allungando il capo per cercare di vedere Regan che se ne stava rannicchiato contro la spalla di suo padre. «Lui è Regan, esatto?»

    Joe la osservò incuriosito. Chi era quella donna che s'interessava dei nuovi arrivati?

    Era poco più bassa di lui, e aveva dei lunghi capelli scuri legati con un fermaglio dietro la nuca. Indossava una casacca rosa e dei pantaloni neri che evidenziavano i fianchi stretti.

    La giovane gli tese la mano. «Io sono Lien, uno dei medici che lavorano qui.» Il suo sorriso aperto illuminava gli occhi scuri. «Dang Van Lien» precisò lei. «Ma tutti qui mi chiamano dottoressa Lien.»

    Lui annuì, cercando di memorizzare il suo nome. La stretta di lei era forte e calda. Gli piaceva quel primo approccio, e si rese conto che le stava tenendo ancora la mano quando lei ebbe ripreso a parlare.

    «Khiem e Hoa sono dovuti andare via, ma erano molto dispiaciuti di non poter essere qui a darti il benvenuto. Seguimi. Immagino che vorrai mettere giù il bambino.» Afferrò le maniglie di entrambe le valigie prima che lui potesse fermarla e se le tirò dietro.

    «Va... tutto bene?» le chiese, seguendola lungo il corridoio. Era sorpreso che i medici che lo avevano assunto non si fossero fatti trovare al suo arrivo. «Dove sono andati?»

    Lei scrollò il capo. «Hanno dovuto raggiungere un altro ospedale, ad alcune centinaia di chilometri da qui, dove alcuni membri dello staff si sono ammalati. Probabilmente staranno via per qualche settimana.»

    Joe annuì e allungò il passo per riuscire a starle dietro. Per essere una donna non particolarmente alta, camminava molto veloce. Superati alcuni corridoi, lei lo condusse sul retro dell'edificio, e dopo aver aperto una porta gli indicò sorridendo una delle tre casette ai bordi del giardino.

    «Siamo fortunati. Le case sono ottime.»

    In realtà i tre piccoli edifici in stile coloniale avevano un aspetto un po' trascurato, tuttavia, come scoprì qualche istante dopo, nascondevano sull'altro lato dei cortili inaspettatamente molto grandi. Quando li vide, lui celò un leggero sorriso, come se a portarlo lì fosse stata Tardis, la macchina del tempo di Doctor Who. C'erano cespugli fioriti e alberi da frutto, e le tre costruzioni bianche erano distanziate le une dalle altre in modo da garantire un po' di privacy. Le porte di ingresso di ogni casetta erano di tre colori diversi: giallo, azzurro e lilla.

    Lei lo accompagnò davanti alla casa con la porta azzurra, la aprì, accese la luce e prese la chiave appesa a un gancio all'interno. «Ecco» disse, porgendogliela.

    Il piccolo ambiente illuminato da una luce calda era accogliente. Niente a che vedere con la sua grande casa in Scozia. Nella sala c'erano un divanetto rosso e un tavolo con due sedie, e poco più in là si intravedeva una piccola cucina. Lien gli mostrò anche le due camere con i letti sovrastati da zanzariere e infine il bagno.

    Non importava che l'appartamento fosse un po' piccolo, perché era estremamente confortevole. Distese Regan sul letto, e dopo essersi accertato che la zanzariera fosse posizionata bene, prese un quadretto dal piccolo zaino di suo figlio. Non voleva che si svegliasse senza avere intorno qualcosa di familiare.

    Nella cornice c'erano due foto di Esther. La prima, scattata subito dopo il parto, la ritraeva pallida mentre stringeva a sé Regan avvolto in una copertina bianca; l'altra risaliva a un anno prima che le venisse diagnosticata la leucemia mieloide acuta, ed era la preferita di suo

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