Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Maghe e streghe di Sardegna
Maghe e streghe di Sardegna
Maghe e streghe di Sardegna
E-book309 pagine4 ore

Maghe e streghe di Sardegna

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Dalla fata di Mannorri alla strega di Guasila: le leggendarie custodi dei segreti dell’isola

La Sardegna, complice anche il suo lungo isolamento, è senza dubbio la regione più misteriosa d’Italia, un’isola pervasa da credenze e ritualità del tutto uniche: magie, segreti e pratiche tramandate per secoli, soprattutto tra la popolazione femminile.
In questo libro, Pierluigi Serra disegna un affascinante percorso alla scoperta delle maghe e delle streghe più famose della tradizione sarda: figure ammantate di mistero e timore, depositarie di conoscenze arcane passate di madre in figlia e salvaguardate dalla repressione di inquisitori e bigotti. Non mancano però anche delle figure maschili, uomini spesso venuti da lontano per portare strane e occulte scienze sull’isola. Dalla strega di Domusnovas al “fantasma di marmo” di Giuseppe Sartorio, dalla fata di Mannorri alla maga di San Bartolomeo: una galleria di personaggi e luoghi che raccontano storie di incanti e misteri, custodite dall’isola più magica del nostro Paese.

Le tradizioni, le storie e le conoscenze più arcane e misteriose della Sardegna

Tra gli argomenti trattati:

Cagliari, una strega venuta dal freddo nord
Il fantasma di marmo
La strega di Domusnovas
Il “maleficium” di Villacidro
La coppa del diavolo
La fata di Mannorri, il paese fantasma
La maga di San Bartolomeo
La strega di Guasila
Maghe iberiche e mercanti a Tortolì
Busachi, il pozzo delle anime
Pierluigi Serra
È nato a Cagliari nel 1960. Giornalista e autore, ha collaborato con diverse testate giornalistiche, scritto per antologie e riviste e ha realizzato documentari per la televisione. Si occupa da diversi anni di esoterismo e dei fenomeni legati alla magia e alla spiritualità. Attualmente scrive per il quotidiano «L’Unione Sarda» nella pagina della cultura. Ha vinto il premio Navicella Sardegna per la letteratura. Con la Newton Compton ha pubblicato Sardegna misteriosa ed esoterica, Storia e storie di magia in Sardegna, I racconti segreti della Sardegna, Fantasmi d’Italia, Gli antichi popoli della Sardegna e Maghe e streghe di Sardegna.
LinguaItaliano
Data di uscita9 apr 2024
ISBN9788822783219
Maghe e streghe di Sardegna

Leggi altro di Pierluigi Serra

Correlato a Maghe e streghe di Sardegna

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Storia europea per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Maghe e streghe di Sardegna

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Maghe e streghe di Sardegna - Pierluigi Serra

    Preludio

    Circa cinquecento milioni di anni orsono, per un fortunato disegno tracciato da un divino Architetto, iniziava a prendere una forma geologica, al centro di ciò che sarebbe diventato il Mediterraneo, un lembo di terra che oggi è considerato giustamente tra le regioni più antiche di questo mare. Mezzo miliardo di anni sembrano, agli occhi umani, una distanza abissale, incolmabile, difficile da quantificare secondo i ritmi della quotidianità: eppure, questo intervallo che ci separa dai grandi sommovimenti tettonici del Paleozoico appare – se osservato attraverso la lente della geologia – come un esiguo frammento di tempo, un istante dilatato di un’era senza età. È forse questo lunghissimo periodo, questi infiniti anni che ci riportano all’affioramento delle prime propaggini dell’isola, ad aver reso la Sardegna una terra magica e incantata, terrifica e allo stesso tempo accogliente.

    Le storie, come il mito e le narrazioni antiche, hanno origini lontane e si perdono tra i primi suoni, tra le parole comprensibili pronunciate da coloro che abitarono l’isola fin dagli albori dei tempi. L’uomo primitivo interagiva con la natura che lo circondava in maniera molto stretta, in una simbiosi che lentamente si è allentata per spezzarsi quasi del tutto ai nostri giorni. Quegli antenati dell’uomo moderno vivevano in un ambiente naturale incontaminato e dovevano adattarsi alle condizioni climatiche, alla disponibilità di cibo e alle minacce degli animali selvatici. Comprensibilmente, questo rapporto si manifestava in una profonda comprensione e rispetto per la natura, vista come una forza potente e sacra. Un’entità ben presente e radicata nella mente dell’uomo, una moltitudine di sacralità composta da fiumi, alberi, montagne, mari e cieli infiniti. Ed è in questo contesto d’antica cultura che matura tra i primi abitanti della Sardegna l’idea della circolarità dell’esistenza: come in natura tutto nasce, cresce, deperisce e torna ad assumere una nuova vita, un nuovo inizio, così il destino dell’uomo si muove attraverso nascita, crescita, maturità, morte e rinascita. La morte corporea diviene un momento di passaggio, un semplice passo nell’itinerario della vita, una delle rocce che costituiscono le montagne. A sovrintendere su questi cambiamenti e le continue trasformazioni sono le divinità che popolano i boschi e le selve, entità dal duplice animo – benevole o malvagie – capaci di sorvegliare i luoghi sacri e proteggerli.

    È anche per via della sua storia antica, e per quel fascino misterioso che circonda ancora i suoi luoghi e paesi, che la Sardegna è divenuta culla di leggende e narrazioni nelle quali maghe, streghe, spiriti e fantasmi trovano il loro habitat migliore, andando a popolare le notti di perdute abitazioni o di castelli abbandonati. Le energie nascoste che numerosi appassionati hanno cercato di rintracciare sull’isola forse sono quelle che riescono ancora a far risuonare le storie di un passato millenario: così i viaggiatori che transitarono per le strade di Sardegna trovarono il terreno fertile per cercare ciò che è tutt’ora avvolto nell’ignoto, spronati da una febbre magica e dal desiderio del sapere.

    Non a caso questo viaggio si apre e si conclude con la figura di Giuseppe Sartorio, scultore, artista e grande imprenditore che trova nell’isola e soprattutto a Cagliari il suo luogo dell’anima; la sua prima opera, contrariamente a quanto si pensi, non riguarda il monumento a Quintino Sella a Iglesias. Giuseppe Sartorio lavorò già a Cagliari per la realizzazione di una lastra tombale commissionata dalla famiglia Metteo. Questo primo lavoro segnò l’avvio di una carriera brillante e ricca di incarichi, costellata di successi e di grandi opere. Poco nota è la contiguità e l’interesse dello scultore verso il simbolismo e l’esoterismo. Sartorio frequentava assiduamente i circoli artistici torinesi che gravitavano attorno all’Accademia Albertina, così come non mancò mai di tornare tra le strade che costeggiano la Mole Antonelliana. Fu uno degli habitué degli empori e delle rivendite di articoli d’arte situati nel centro cittadino: in modo speciale frequentò la piccola bottega dove sorgerà, nel 1923 Bianco e Marzano, luogo magico e colmo di profumi e di alchimie di colori, a due passi da quella via Po che vide Sartorio giovane studente d’accademia.

    Proprio i registri¹ della prestigiosa istituzione artistica raccontano di una carriera scolastica di rilievo costellata di encomi e di benemerenze, di attestati di plauso conferiti dal corpo docente. La figura di Giuseppe Sartorio è dunque quella di un animo artistico di grande sensibilità: una figura poliedrica, capace di operare con le sue botteghe in numerose città italiane. Lui certamente fu cagliaritano d’adozione, accolto con fervore in una città nella quale ebbe modo di intessere rapporti non solo commerciali ma anche di profonda amicizia con i rappresentanti di differenti classi sociali. Dalla borghesia sempre più attenta alle forme d’arte fino alla nobiltà, che ricercava tra le opere del maestro il lustro di tempi andati, pur non tralasciando chi – tra le classi meno abbienti – desiderava lasciare un ricordo imperituro dei propri cari.

    Una figura da valutare nel suo insieme, accostando ciò che resta da lui scolpito sulla pietra agli aspetti di una vita dedicata all’arte e allo studio. Lui che accostò la ricerca spirituale allo studio delle opere degli antichi maestri. Il corollario romanzato su alcuni aspetti della vita di Giuseppe Sartorio si basa sui documenti e le informazioni di carattere storico che testimoniano l’alto ingegno dell’uomo, la cui scomparsa rimarrà forse per sempre il suo suggellare il mistero della vita oltre la morte.

    1 Grazie alla disponibilità della direzione dell’Accademia Albertina di Belle Arti e della direttrice dell’Archivio Storico è stato possibile consultare le carte che riguardano la vita scolastica di Giuseppe Sartorio. Si tratta di documenti di rilievo che forniscono una serie di informazioni, non solo sui numerosi attestati che il giovane allievo ricevette, ma che restituiscono anche un quadro della composizione delle classi e dei rapporti intrattenuti tra gli allievi.

    Fantasmi di marmo. Ovvero quando il viaggio ha un suo inizio

    Le persone vedono solo ciò

    che sono preparate a vedere

    Ralph Waldo Emerson

    Mar Tirreno

    Coordinate geografiche: 45° 55ʹ 09.06ʺ N 11° 24ʹ 26.06ʺ E

    «Strega, maledetta strega, strega…».

    Quelle parole risuonavano come il rombo di un tuono, squassando il cervello e scuotendo ogni cellula del corpo. Brutta sensazione, resa ancora più cupa dall’atmosfera che si respirava in quel luogo deputato al riposo eterno, un camposanto avvolto dal colore plumbeo di una giornata di pioggia. L’uomo si era fermato ancora una volta, dopo un lungo tragitto nel piccolo cimitero, davanti al sepolcro di quella fanciulla morta anzitempo, portata via da un male oscuro e strappata agli affetti e forse a un futuro pieno di felicità. Si guardò intorno, assicurandosi che non vi fosse nessuno, impaurito dalla voce che continuava a riverberarsi d’intorno.

    «Strega… strega…».

    Tese nuovamente l’orecchio, sentendo, insieme alle parole pronunciate da una voce femminile e cupa, un fruscio alle proprie spalle, un movimento veloce che lo lasciò interdetto: il fogliame bagnato risuonava di passi soffusi, qualcosa si muoveva alle sue spalle, nonostante non vi fosse apparentemente nessuno. Tirò su il bavero del pastrano cercando di ripararsi dalla pioggia fitta, da quelle minuscole gocce che impregnavano ogni cosa. Osservò ancora una volta la statua della bambina, guardò attentamente il riverbero dell’acqua sul pavimento a scacchi che lui stesso aveva ideato per completare il monumento a quella piccola strappata alla vita. Era stato il padre, il notaio Giuseppe Deplano, a cercare la sua maestria, il suo ingegno e la sua creatività, volendo lasciare un ricordo incancellabile della figlia: lo aveva incontrato, ancora avvolto dalla disperazione, subito dopo la morte della giovane, avvenuta nel pomeriggio assolato e afoso di domenica 14 luglio 1901. Zaira Paola Grazia – la piccola Zaira –, una bambina delicata e bellissima, un angelo dai capelli mossi strappato dalle braccia della madre, la giovane Fanny Pinna che la piangeva con disperazione. Ragazza e donna compiuta, madre, colpita da una maledizione, perché la morte della piccola aveva tutto il sapore amaro dell’infausta sorte che si era abbattuta sulla famiglia; il lutto, oltre a essere manifesto negli abiti, grondava dall’animo avvolgendo la casa e i conoscenti.

    Giuseppe Sartorio, pur abituato a dialogare con i parenti dei defunti, con committenti desiderosi di celebrare i fasti passati dei loro congiunti innalzando monumenti in grado di resistere nel tempo, era rimasto scosso dal dramma della famiglia borghese di Iglesias. Solo una fotografia, un frammento di vita, ritraeva la piccola Zaira, qualche tempo prima che la malasorte la strappasse agli affetti dei genitori: un viso sorridente e lunghi boccoli chiari, un vestito candido e occhi penetranti e vispi. Era rimasto colpito da quell’immagine e dalla caducità dell’esistenza umana: la Dama Nera giocava con la sorte una partita che spesso aveva come posta la fine di vite innocenti: così era stato per Zaira, privata di un futuro che forse sarebbe stato radioso, di una vita tra gli amori familiari. Era stato il pensiero legato alla casualità e alla continua partita tra gli elementi – tra luce e oscurità – a materializzare nella sua mente l’idea di un monumento che richiamasse una serie di simbolismi, legati anche alle passioni intellettuali e all’impegno sociale del padre. Pavimento a scacchi, una colonna spezzata e abbattuta al suolo e un cerchio, simbolo di una ciclicità nella quale la vita terrena rappresenta solo una tappa di un lungo percorso.

    La pioggia fitta e l’umido, l’odore della terra bagnata e i riflessi dei marmi del camposanto gli riportarono alla mente il freddo del proprio paese, quel lontano borgo di Boccioleto incassato nella parte bassa della Val Sermenza nel Piemonte occidentale, tra le case dove era nato sabato 2 dicembre dell’anno 1854: come molti suoi coetanei, aveva trascorso la giovinezza tra l’aspro territorio che si affaccia all’imboccatura della Val Cavalone, tra quelle pietre che avrebbero rappresentato per Giuseppe Sartorio il simbolo d’un percorso irto di ostacoli. Geniale, con una spiccata intelligenza e dal carattere ostinato come le rocce delle sue montagne, era andato contro il volere dei suoi con fermezza. Conosceva il fascino della pietra grezza da lavorare, la sua mente era dominata da forme e dimensioni tanto da rifugiarsi a Varallo, per frequentare la scuola di intaglio del maestro Antonini. Nella bottega dell’artigiano ebbe modo di sperimentare e affinare le tecniche scultoree, con risultati che lasciarono stupefatto il suo stesso insegnante: fu lui a spingerlo, anche contro il volere dei genitori, a intraprendere una carriera artistica che – oltre ogni aspettativa – gli avrebbe portato onori e fama.

    Quando giunse a Torino nel 1875, appena ventenne, la città era un crogiolo di idee, un contesto vivace e in continuo fermento culturale. Nonostante avesse perso il ruolo di capitale del Regno d’Italia e fossero ancora vivi e brucianti i ricordi delle stragi del 21 e 22 settembre 1864, all’indomani della decisione di trasferire la capitale del Regno a Firenze, Torino – pur avendo perduto un buon numero di residenti – era vitale e dinamica. Luogo di incontro per le menti liberali, rimaneva centro della vita artistica italiana. Nel piccolo alloggio di via Po, in una soffitta fredda d’inverno e capace di trasformarsi in una fornace durante il periodo estivo, Giuseppe Sartorio viveva nell’estrema ristrettezza economica. I pochi soldi a disposizione gli garantivano appena il necessario per campare, seppure il suo forte carattere lo spingesse a proseguire con determinazione gli studi. Al suo ingresso nell’Accademia Albertina, luogo di arti e realtà importante nel panorama culturale di un’Italia appena nata, Sartorio ebbe l’opportunità di frequentare le cattedre più prestigiose, come quella tenuta da Odoardo Tabacchi. Maestro di scultura, nominato nel 1867 docente su sollecitazione del suo predecessore e maestro Vincenzo Vela, Tabacchi notò la perizia con la quale il giovane Sartorio si dedicava sia al disegno figurato che alla scultura. Eccelleva in tutte le materie, tanto da ricevere encomi e riconoscimenti; gli venne assegnata anche una borsa di studi che gli consentì di alleggerire il gravoso peso della povertà, tanto da potersi dedicare con maggiore serenità allo studio. Il suo impegno all’Accademia era costante, pur trovando il tempo di frequentare il caffè Saturno meta obbligata e ritrovo degli esoteristi e alchimisti torinesi. Venne introdotto in questo cenacolo, situato nell’antico quadrilatero della città e a pochi passi dalla stessa accademia, dal suo collega di studi Leonardo Bistolfi²: al pari di Sartorio, seppure con inclinazioni stilistiche differenti, Bistolfi era dedito allo studio delle scienze arcane e aveva una forte propensione per le organizzazioni iniziatiche. Nel caffè Saturno facevano tappa esponenti della massoneria torinese, e furono proprio loro a notare lo spirito indagatore e vivace del Sartorio. Non era certo casuale la scelta del ritrovo, situato all’angolo tra via Barbaroux e la piazzetta dei Maestri Minusieri: il palazzetto che ospitava il Saturno era stato scelto da Giuseppe Balsamo, il futuro conte di Cagliostro, e dalla moglie Lorenza per il loro soggiorno torinese nel 1770, subito dopo l’incontro con Giacomo Casanova ad Aix-en-Provence. Era in questo sito che forse avevano avuto luogo alcune delle apparizioni alle quali partecipò il Balsamo, un palazzetto che per lungo tempo resterà avvolto da un’aura di mistero e di leggende. Insieme a Leonardo Bistolfi, Sartorio partecipò a numerosi dibattiti e incontri, tanto da iniziare a nutrire un sempre maggiore interesse per tutti gli aspetti legati al vasto mondo dell’esoterismo. Il simbolismo delle organizzazioni iniziatiche, la loro storia antica, il fascino di una ritualità che traeva le proprie origini da miti e leggende, ammaliavano gli artisti: lo stesso Bistolfi venne affiliato alla massoneria nel 1885, nella loggia torinese Dante Alighieri, iniziazione che troverà poi ampia manifestazione in numerose opere dell’artista. Il giovane Sartorio non restò certo immune al fascino della simbologia, tanto da essere scelto dal direttore dell’Accademia, il conte Alberto Panissera di Veglio, come aiutante nella realizzazione del monumento al Traforo del Cenisio-Frejus nell’imponente piazza Statuto. Quel gruppo scultoreo, così carico di riferimenti esoterici, meritava l’apporto di giovani artisti capaci di interpretare i messaggi nascosti e tramutarli in un’opera di grande impatto. Il genio alato, il simbolo della ragione e dell’operosità, venne realizzato dallo scultore Luigi Belli – altro nome noto per il suo interesse verso l’esoterismo – proponendo una serie di altri simboli di chiara ispirazione esoterica. Forse la nomea dell’artista e dei suoi aiutanti, noti per le propensioni massoniche, fecero sì che la grande opera scultorea, inaugurata il 26 ottobre 1879, si ammantasse di un’aura dalla forte valenza magica. Sarà la tradizione popolare a conferire al grande monumento una valenza infernale: il genio alato andrà a rappresentare Lucifero e la grande piazza, che un tempo non troppo lontano era luogo di sepoltura di reietti e dei condannati a morte, entrerà nella voce popolare come il sito dell’Oltretomba, così come il basamento stesso dell’opera sarà individuato come l’ingresso agli inferi.

    Era una città in continuo cambiamento la Torino che faceva da scenario alla vita di Giuseppe Sartorio, ed era anche un luogo nel quale si diffondeva rapidamente l’interesse verso l’aldilà, i suoi confini e gli spiriti che lo abitavano: nasceva già nel 1865 la pubblicazione periodica «Annali dello spiritismo in Italia», rivista diretta da Vincenzo Scarpa sotto lo pseudonimo di Niceforo Filarete³, rispecchiando una moda che si era diffusa già in diversi Paesi europei. Fantasmi, spiriti, apparizioni, oggetti inanimati mossi da mani invisibili: i salotti dell’ex capitale del Regno d’Italia pullulavano di appassionati e curiosi in cerca di un contatto con il mondo dei morti. Non erano immuni neanche numerosi appartenenti alla massoneria, contagiati dal desiderio di sondare l’animo umano, i suoi aspetti nascosti e l’ignoto. È in questo contesto che il giovane Giuseppe Sartorio venne introdotto negli ambienti esoterici torinesi, frequentando insieme a Leonardo Bistolfi i cenacoli nei quali si dialogava con le entità soprannaturali. Lo scultore, seppure inizialmente scettico, rimase colpito dalle sedute medianiche, tanto da rivolgere in seguito i propri interessi verso gli ambiti spirituali. Saranno gli influssi torinesi a condizionare gran parte della sua produzione artistica, portandolo a ornare di simboli e decorazioni esoteriche numerose opere marmoree. Sempre a Torino, Sartorio strinse una forte amicizia con una giovane allieva dell’Accademia, Niceta Pellerino, con la quale condivideva interessi esoterici e spirituali.

    Ormai in ascesa nel campo artistico, Giuseppe Sartorio aveva sviluppato una pungente ironia, non solo nel trattare i drammi legati alla caducità della vita ma capace di giocare con le forme plastiche e l’arte della scultura, ridonando sorrisi ai defunti, nelle loro raffigurazioni. Desideroso di lasciare un segno del proprio operato nella realizzazione del monumento al Frejus, aveva addirittura ritratto il volto di uno dei titani, con le sue fattezze ed espressioni. Aveva un carattere gioviale e scherzoso: amabile e colto nella conversazione, riuscì in breve tempo a conquistare la fiducia di una committenza borghese, desiderosa di esaltare – attraverso i monumenti funebri – il valore e il rango sociale raggiunto. Dopo un periodo di perfezionamento nella prestigiosa Accademia di San Luca a Roma, rientrò a Torino nel 1881: qui, in via Principe Amedeo, aprì bottega, consolidando in breve tempo la sua fama di scultore e di disegnatore.

    Affermato tra la borghesia e la nobiltà piemontese, ricevette dai dirigenti torinesi delle miniere sarde di zinco e piombo di Monteponi l’incarico di erigere, nell’omonima piazza di Iglesias, il monumento celebrativo in onore di Quintino Sella. 

    05.Iglesias_Ricordo_a_Quintino_Sella_(xilografia).jpg

    I

    l monumento a Quintino Sella a Iglesias in un’incisione del 1891.

    Sarà questo impegno a costituire il trampolino di lancio dell’artista anche nel territorio sardo. Il suo genio scultoreo e la capacità di riproporre sulla fredda pietra il calore di un sorriso o le tristezze dell’addio alla vita terrena gli valsero ampi riconoscimenti tra Cagliari e Sassari. Nel capoluogo isolano aprì bottega a pochi passi dal cimitero di Bonaria, ampliando la propria committenza a tal punto da impiantare una piccola industria della scultura che impiegava numerosi operai.

    Il mare è immenso e inebriante, avvolgente e confortante quanto le gocce di salsedine che si appiccicano sul viso. Sono le lacrime di gioia di un Mediterraneo dall’umore mutevole come il mio animo, che si lascia trasportare dagli eventi. Io sono mare, a volte una placida tavola d’acqua appena increspata dalla brezza mattutina, altre volte un elemento in tempesta, furibondo e implacabile, estroso e creativo in un impeto di follia. Ora che osservo l’oscurità del mare dalla prua di questo bastimento, ora che sento le stille fredde dell’acqua, ho la sensazione di ritrovarmi sull’imbarcazione che aveva trasportato l’epico equipaggio alla ricerca del Vello d’Oro. Una vita turbolenta, la mia, come sono agitate le onde alle quali ora mi paragono.

    Sono cresciuto nella disperazione della povertà, senza comprendere per quale motivo il fato conducesse l’animo umano verso una destinazione invece che un’altra. Esistevano persone alle quali, a ogni passo, la fortuna donava la gioia: io mi sono scalfito le mani nel dolore, provando mille dubbi e nutrendomi di ansie. Ma ora che sono un artista affermato, ricercato da chi un tempo avrebbe guardato con sospetto un giovane malandato e malmesso, ospitato in una fredda soffitta torinese, ora guardo il mare e ne percepisco forma e forza, tensione e vigore: quella stessa energia che ha animato le mie mani quando plasmavo la materia per dare forma e vita alle immagini delle persone ormai defunte. Mi avrebbero chiamato il Michelangelo dei morti.

    01.zaira.2.jpg

    La statua della piccola Zaira in un disegno di Pascale Vargiolu.

    «Gradisce ancora del caffè?».

    Quella voce mi scuote dai pensieri, una cadenza familiare che si è già insinuata altre volte tra il rumore delle onde e il chiasso del motore del bastimento. Lo guardo con simpatia, perché Vincenzo Bracale, l’inserviente di bordo, si è mostrato sempre cordiale e gioviale, comprensivo anche quando, nei passati spostamenti con il piroscafo Tocra, avevo animo differente e forse scontroso.

    «Grazie», sussurro a mezza voce, schiarendo le parole che mi sembrano soffocate dalla spuma del mare, «per oggi va bene così, penso di averne bevuto fin troppo e ho bisogno di dormire, perché domani mi aspetta una giornata impegnativa, piena di lavoro».

    Il cameriere di bordo mi rivolge uno sguardo dubbioso, quasi s’aspettasse che proferissi altre parole e altre battute. In passato, nel corso di altri viaggi compiuti sempre a bordo del Tocra, mi sono soffermato volentieri a discutere di arte e di cultura con lui, Bracale, che nutre passioni pittoriche, ama frequentare musei ed esposizioni e non nasconde una sua vocazione verso l’arte: anzi, con un gesto di grande confidenza, mi ha anche mostrato alcuni suoi acquerelli a tema nautico. Seppure bisognosi di una carica espressiva maggiore, quei piccoli dipinti, conservati gelosamente in una cartella consunta di cuoio, mostrano un talento acerbo che, se ben coltivato, potrebbe portare a risultati più che dignitosi.

    La mia mente torna a perdersi in quel mare, agitata e sconvolta, così frastornata dai ricordi di un lontano passato che ritornano, come il rumore di un tuono distante, ad affollare ogni anfratto del mio cervello. Sento sul mio corpo il freddo di una soffitta torinese, il gelo intenso di un febbraio passato a disegnare mentre il foglio sembrava danzare sotto la luce ondulante di una candela.

    Nonostante il temperamento e l’abitudine ad affrontare ogni situazione con fermezza d’animo, i rumori avvertiti alle proprie spalle in quella giornata piovosa iglesiente, nel mezzo di quel camposanto, lo stavano turbando in maniera profonda. Certo il cimitero, così privo dei suoi abituali frequentatori, sembrava spettrale, ancor più tetro nel grigiore della pioggia. Avvolto nei pensieri, davanti al monumento della piccola Zaira, Sartorio sentì un soffio gelido che attraversava il proprio corpo: un brivido intenso arrivò fino alla nuca, facendolo sobbalzare. Fu in quel momento, nello sgomento provato per quella inspiegabile tensione, che vide davanti ai propri occhi un’ombra scura, una sagoma che a prima vista gli parve essere quella del custode del cimitero. La pioggia

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1