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Una moglie in regalo
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E-book311 pagine3 ore

Una moglie in regalo

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Info su questo ebook

Caduta in rovina per colpe altrui, Maddalena si ritrova a vivere con Libero, un affascinante mezzo zingaro che vive su un carro coperto. Spinta da un'ambizione feroce, Maddalena sarà disposta a tutto pur di tornare alla vita agiata di un tempo...
"Ombre Rosa" è una collana e insieme un viaggio alla riscoperta di un'intera generazione di scrittrici italiane che, tra gli anni Settanta e gli anni Duemila, hanno posto le basi del romanzo rosa italiano contemporaneo. In un'era in cui finalmente si colgono i primi segnali di un processo di legittimazione di un genere letterario svalutato in passato da forti pregiudizi di genere, lo scopo della collana è quello di volgere indietro lo sguardo all'opera di quelle protagoniste nell'ombra che, sole, hanno reso possibile arrivare fino a questo punto, ridando vita alle loro più belle storie d'amore.
LinguaItaliano
Data di uscita20 mag 2024
ISBN9788727061078
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    Anteprima del libro

    Una moglie in regalo - Roberta Ciuffi

    Una moglie in regalo

    Cover image: MidJourney

    Copyright ©2000, 2024 Roberta Ciuffi and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788727061078 

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Sommario

    Antefatto

    10 

    11 

    12 

    13 

    14 

    15 

    16 

    17 

    18 

    19 

    20 

    21 

    22 

    23 

    24 

    25 

    26 

    27 

    Conclusione

    Antefatto

    Roma, 1832 - Palazzo de' Lepri

    «Maria Maddalena, mia cara, ne vuole ancora?» La contessa de' Lepri indicò graziosamente il piattino che la sua ospite stringeva tra le dita e che mostrava intatto il carico di dolcetti.

    La ragazza batté le palpebre, abbassò lo sguardo sulle ginocchia e arrossì. La gentile domanda della contessa equivaleva a un richiamo. «Mi dispiace, donna Matilde» disse, controllando il fastidio per essere stata colta in fallo. «Mi ero distratta. Stava dicendo?»

    L'altra sorrise, chinandosi leggermente verso di lei. «Ho paura che in questa sala ci sia qualcosa che le interessa di più dei miei discorsi sulle gioie della maternità… O mi sbaglio?»

    Anche Maria Maddalena sorrise, un po’ confusa. Quella reazione, come pure la distrazione di poco prima, incuriosiva la contessa. In genere, la ragazza era così composta e presente a se stessa che ogni suo gesto e parola davano l'impressione di essere studiati a tavolino.

    Era quasi troppo perfetta per essere vera.

    Benché frequentasse il suo salotto da qualche mese, Matilde non poteva affermare di conoscerla davvero. Sapeva, naturalmente, che era la figlia di uno degli uomini più facoltosi della città, un mercante di campagna arricchitosi alle spalle di aristocratici nullafacenti come loro, che gli affittavano le tenute da amministrare e che adesso stava tentando la scalata sociale con la medesima ferocia con cui aveva accumulato la sua fortuna. Il signor Mastrogiudice passava per essere ricco come Creso, eppure la contessa aveva sentito dire che le sue figlie erano state costrette a prendere il velo per non dividere i beni della famiglia. Tutte, meno questa Maria Maddalena, e il motivo per cui era stata risparmiata era evidente.

    Con calma, ne studiò il volto ovale, gli splendidi occhi verde chiaro, il naso dalla linea squisita, la bocca generosa… Il tutto soffuso da una certa aria di scostante freddezza, ma veramente troppo bello per essere messo in discussione, soprattutto con la cornice di quegli sfolgoranti capelli d'oro rosso.

    Non stava bene prendere in considerazione altri tipi di attrattive, ma la contessa non poté evitare di rammentare il commento poco riguardoso che aveva colto per caso sulle labbra del marito, giorni prima. Sì, la signorina Mastrogiudice non mancava di nessuna delle qualità atte a sedurre un uomo.

    Di certo suo padre, acuto mercante qual era, doveva essersene accorto da tempo. Maria Maddalena era in vendita e i salotti di Roma erano la sua asta.

    «Che ragazza stupenda!» esclamò il maturo gentiluomo, facendo ruotare l'occhialino nell'orbita per mettere a fuoco la figura seduta composta sul divanetto, a fianco della padrona di casa. «Mai veduta una simile.»

    «Stupenda, sì» convenne il duca di San Giuliano, in tono un po’ troppo asciutto. Lanciò a sua volta una cauta occhiata alla ragazza, distogliendo poi in fretta lo sguardo.

    «Possibile che non se ne possa aver ragione?» chiese l'altro in tono lamentoso. «Suppongo che un buon titolo dovrebbe impressionare adeguatamente sia lei sia quel bifolco del padre.»

    Il conte de' Lepri si mise a ridere, imitato dal duca, suo suocero. «Caro amico, sia pur certo che quella famiglia tiene un buon titolo nobiliare nel dovuto rispetto: sfortunatamente, è in grado di comprarsene parecchi sul mercato matrimoniale.»

    «Beh, è una cosa seccante.»

    «Lo è senz'altro» ammise il conte. Poi, rivolgendo al suocero uno sguardo ironico, aggiunse: «Lei non l'unico a essere rimasto scottato. Ma la signorina Mastrogiudice non è il genere di ragazza che possa essere lusingata da una posizione diversa da quella di moglie».

    «Immagino che punti in alto.»

    «Molto in alto» annuì l'altro. Con un movimento delle sopracciglia accennò a un giovanotto, impegnato in conversazione con un uomo di mezz'età dall'aspetto severo. «Sono dell'opinione che non disdegnerebbe d'imparentarsi con la nostra stessa famiglia.»

    «Suo cognato Ottavio? Don Leone, ma è vero?»

    Il duca si strinse leggermente nelle spalle. «Se il ragazzo la vuole» concesse, a malincuore.

    Mentre il conte e il suo ospite riprendevano la conversazione, si arrischiò a gettare un'altra occhiata a Maria Maddalena. La sua sconfitta ancora gli bruciava, se poi di sconfitta si poteva parlare. In realtà aveva capito presto che per lui non c'erano speranze. Benché fosse ancora molto attraente, era un uomo sposato, almeno sulla carta, e di certo né la ragazza né la famiglia avrebbero mai preso in considerazione qualcosa di diverso dal matrimonio.

    Eppure… eppure… Con l'animo amareggiato dal rimpianto, lanciò un'ultima occhiata accesa alla bella rossa seduta sul divanetto, emise un piccolo sospiro e si girò.

    Poco distante, il giovane gentiluomo strinse i denti e fu scosso da un brivido.

    «Don Ottavio, che ha? Si sente male?» gli chiese sollecito il suo interlocutore.

    «Niente d'importante, solo un po’ di freddo.»

    Alfonso Mastrogiudice riuscì a non manifestare stupore. Il salotto era surriscaldato, ma evidentemente gli aristocratici avevano altre abitudini rispetto ai comuni mortali. «Come le stavo dicendo…» riprese, senza badare all'evidente disinteresse del giovanotto.

    Ottavio si limitò ad annuire, senza darsi la pena di fingere d'ascoltare. Col volto un po’ inclinato di lato per superare l'ostacolo del corpulento signor Mastrogiudice, teneva d'occhio il terzetto poco distante. In realtà, l'unica persona che gli interessava era suo padre.

    Non gli era sfuggita l'occhiata che aveva lanciato verso il divanetto, né l'espressione quasi famelica sul suo viso. Senza preoccuparsi di offendere il mercante, girò a sua volta il capo in quella direzione. La ragazza seduta accanto a Matilde aveva un aspetto stranamente confuso, con le guance arrossate. Si sentì travolgere da un'ondata d'odio. Maledetto, pensò. Il suo corpo riprese a tremare convulsamente, sotto lo sguardo sorpreso del signor Mastrogiudice.

    Maledetto, non la finirà mai?

    «Don Ottavio…?»

    Strinse i pugni e si costrinse a riprendere il controllo di sé. «Abbia pazienza, don Alfonso» disse, sfoderando un sorriso affabile che tranquillizzò all'istante l'altro. «Non si offenda se interrompo la nostra conversazione, ma vorrei proprio che mi concedesse il permesso di far visitare il Palazzo alla sua affascinante figliola.»

    Il volto dell'uomo si illuminò di colpo. «Ma certo! Senz'altro! Ne sarà talmente onorata…»

    Quando la ragazza lo vide arrivare, la sua prima reazione fu di cercare il padre con lo sguardo.

    Non proprio la reazione di un'innamorata pensò la contessa de' Lepri. D'altra parte, aspettarsi che l'amore avesse un ruolo nei matrimoni tra gente del loro ambiente sarebbe stato davvero troppo ingenuo.

    Maria Maddalena colse il muto cenno d'incoraggiamento del padre e sul suo volto si aprì un sorriso un poco più spontaneo. Sarebbe stato quello il grande giorno, quello in cui tutte le fatiche, i progetti e le speranze di anni sarebbero venute a compimento?

    «Il figlio di un duca!» L'esclamazione entusiasta che nelle ultime settimane aveva sentito tanto spesso le risuonò nel cervello. «Il primogenito di un duca! Che fortuna, ragazza mia. L'ho sempre saputo che saresti arrivata in alto!»

    Sì, una gran fortuna. Chiuse gli occhi per un istante. Era certa che essere duchessa le sarebbe piaciuto. Era nata per quello. O meglio, era per quello che era stata cresciuta, educata e istruita, e lei stessa aveva finito per credere che niente di meno le fosse dovuto.

    «Maria Maddalena.»

    La voce del giovanotto la costrinse a sollevare le palpebre. Sorrise, guardandolo di sotto in su. Lui le rispose con un pigro stirarsi di labbra, ironico e freddo, che per un istante la sconcertò. Era uno strano ragazzo e non si fidava totalmente di lui, ma era il figlio del duca e non ci si poteva fare niente.

    «Buona sera, Ottavio» rispose. «Una bella riunione, non trova?»

    «Molto noiosa invece, visto che siamo stati sempre lontani.»

    «Lei è molto galante.»

    «Suo padre mi ha dato il suo permesso di accompagnarla a visitare il Palazzo. Le farebbe piacere?»

    «Ne sarei felice. Sempre che alla contessa non dispiaccia.»

    La contessa esitò, dubbiosa sull'opportunità di una simile proposta. Guardò il fratello, ma gli occhi grigi di lui le parvero assolutamente innocenti. Era innamorato, cercò di convincersi. Da tre settimane non faceva che correre dietro a quella ragazza, mostrando un interesse che una persona bennata non avrebbe mai esibito davanti ai suoi familiari, se non avesse avuto le migliori intenzioni.

    Tuttavia, l'incertezza che si era insinuata in lei non si attenuava. «Ebbene, io non so…»

    «Suvvia, Matilde, non fare la guastafeste.» Il tono era cortese, ma l'occhiata che Ottavio lanciò alla sorella lo era molto meno.

    «Ma certo» si arrese lei, nascondendo la riluttanza dietro un ampio sorriso. Come tutti, in famiglia, aveva imparato a evitare i momenti critici del fratello semplicemente rinunciando a combatterli.

    Maria Maddalena ringraziò, quindi si alzò in piedi e poggiò il braccio su quello offerto di Ottavio. Nel suo cuore, il senso di trionfo faticava a sovrastare il disagio che provava sempre in presenza del figlio del duca. Cercò di nuovo con gli occhi suo padre, come per chiedergli aiuto, e lui di nuovo fece quel cenno con il capo, come per incitarla ad andare. Respirò profondamente e respinse l'assurda voglia di scappare che l'aveva colta.

    Era solo una forma di sciocca timidezza. Da quel giorno, tutta la sua vita sarebbe cambiata.

    Avvicinandosi alla porta, si volse a gettare un ultimo sguardo alla sala che stavano abbandonando. Fu così che colse gli occhi del duca di San Giuliano fissi su di lei: occhi grigi, come quelli del figlio, e offuscati da una qualche emozione che non seppe decifrare. Mentre tornava a girarsi, non notò il sorriso arrogante che Ottavio indirizzò al padre.

    Lei è mia, sembrava dire quel sorriso.

    Sì, è tua, replicò silenziosamente l'altro, digrignando i denti. Che tu possa strozzarti.

    Agro Romano – 1833 

    Libero levò lo sguardo al sole declinante nel cielo azzurro, sgombro di nuvole, così limpido da ferire gli occhi. Dietro di lui il bambino dormiva, nel carro coperto da una tenda di rozzo tessuto blu, e si lamentava nel sonno. Grossi rivoli di sudore gli scorrevano sulla fronte. I capelli scuri che gli circondavano la testa in ricci umidi erano grigi per la polvere della strada.

    Inquieto, l'uomo si chiese se avesse la febbre. Erano in viaggio da cinque giorni, diretti alla tenuta della Rivafredda, dove lui aveva un ingaggio come fabbro e maniscalco. Il carro era carico dei suoi attrezzi da lavoro e i muli che lo tiravano stavano diventando vecchi. Tuttavia, avrebbero potuto arrivare alla tenuta la sera prima, se una ruota non si fosse rotta costringendolo a fermarsi per aggiustarla. Così erano stati costretti a passare la notte in strada e rimettersi in viaggio all'alba. Quella mattina Tommaso gli era subito parso stanco, troppo calmo, diverso dal solito monello irrequieto. Il caldo, davvero eccezionale per il mese d'aprile, aveva poi fatto il resto.

    Libero sapeva di essere un padre apprensivo, però non credeva che stavolta la sua ansia fosse ingiustificata.

    Davanti a lui cominciavano a delinearsi le sagome delle prime case di un paese. Poteva arrivarci in mezz'ora e lì trovare una stanza in una locanda dove far riposare Tommaso. Forse anche un dottore, se si fosse dimostrato necessario. Gli avrebbero defalcato i giorni di ritardo, ma pazienza, non importava.

    Presa la decisione, agitò la frusta a un pelo dalle orecchie dei muli e li spronò ad affrettarsi.

    «Giovanni! Giovanni, vieni un po’ a vedere. C'è un tipo con un carro, s'è fermato qua davanti.»

    Borbottando, l'uomo si avvicinò alla finestra da dove la moglie stava tenendo d'occhio la strada. In quei giorni il lavoro era scarso ed Eufemia trascorreva gran parte del tempo curiosando, che era poi il suo svago preferito. Purtroppo, un paese di venti case non offriva molte possibilità di soddisfare quell'inclinazione ed era quindi comprensibile che l'arrivo di uno straniero costituisse per lei un diversivo eccitante.

    Il carro sembrava aver visto giorni migliori, come pure i muli. Il conducente invece era un uomo nel fiore degli anni, grande e grosso e pieno di vita. Saltò a terra con agilità, aggirò il carro e per un istante i due lo persero di vista. Quando tornò indietro, si accorsero che teneva tra le braccia un bimbo addormentato.

    «Guarda, sta venendo da questa parte.»

    Si affrettarono ad allontanarsi dalla finestra. Dei passi pesanti risuonarono sui gradini e poi una figura robusta s'inquadrò nella porta. «È aperto?»

    Eufemia si fece avanti, con il suo sorriso più falso sulla faccia dalle guance floride. «Venite, venite pure. Certo che è aperto.»

    L'uomo avanzò all'interno della locanda, con il bambino tra le braccia. «Scusate, signora» disse chinando appena la testa. «Come vedete, non posso togliermi il cappello.»

    Non parlava in dialetto e la sua cadenza, marcatamente del sud, era tuttavia indefinibile, come se fosse passato per troppi posti perché un solo accento si fissasse indelebilmente alla sua pronuncia. Inoltre, sembrava educato, in modo quasi stridente rispetto al suo abbigliamento. Il sorriso di Eufemia si fece più spontaneo.

    «Per carità, non vi preoccupate. Che ha il bambino?»

    Lo straniero aggrottò la fronte. «Ho paura che abbia preso troppo sole. C'è una stanza per farlo riposare, almeno per stanotte?»

    Si rivolse a Giovanni, attribuendogli l'autorità per decidere, e l'uomo lo gradì. Di solito non davano le loro stanze a chiunque. Il Gallo Nero era una piccola locanda e ci tenevano che non si facessero chiacchiere sulla qualità dei loro ospiti. Anche a lui, però, lo straniero sembrava a posto.

    «Per fortuna vostra non c'è lavoro, questi giorni. Abbiamo una bella stanza pulita, qua sopra. Mia moglie vi può fare strada. Intanto io dico allo stallino di sistemare il carro e le bestie.»

    L'uomo annuì come se fosse troppo stanco per parlare e seguì la padrona su per la stretta scala che portava al piano superiore. Divise tra i due lati del corridoio, si affacciavano numerose porte. Eufemia si diresse alla penultima sulla destra, l'aprì con una chiave che tolse da un mazzo appeso in vita e gli fece segno di entrare. Mentre era sulla soglia, all'uomo parve di cogliere un pianto di neonato.

    «C'è un bambino piccolo?» chiese, stupito.

    «Sì.» La padrona andò ad aprire la finestra senza aggiungere altro. Evidentemente non aveva voglia di parlarne.

    Definire bella la stanza era un'esagerazione, ma pulita lo era davvero, col pavimento spazzato, le pareti imbiancate e nessun insetto visibile. Libero si guardò attorno con apprezzamento. Il letto era ancora sfatto, il materasso arrotolato. La donna si dispose a prepararlo con lenzuola immacolate che estrasse dal cassettone sotto la finestra. Quando ebbe finito, Libero vi depose suo figlio. Gli tolse le scarpe e sistemò il cuscino sotto la testolina bruna. Tommaso gemette e si girò di lato, continuando a dormire.

    «È un po’ caldo» mormorò, preoccupato. «Avete un dottore da queste parti?»

    Eufemia si accostò al piccolo e gli pose la mano sulla fronte.

    «Non mi pare febbre. Magari fategli un po’ di impacchi di acqua fredda e fatelo bere. I bambini devono bere tanto. Se volete, vi mando una serva a darvi una mano.»

    «Grazie. Siete gentile.» Sospirò e lasciò cadere a terra la grossa bisaccia in cui teneva le sue cose personali. «C'è un posto dove posso darmi una lavata?» chiese, togliendosi il cappello intriso di sudore.

    «Come no. Di sotto. Vi faccio preparare la tinozza.»

    La donna uscì e Libero estrasse dalla bisaccia della biancheria pulita. In definitiva, forse quella sosta forzata non era un male: gli avrebbe permesso di presentarsi alla Rivafredda con un aspetto da cristiano e non da selvaggio scappato dalle caverne.

    Dispose sul ripiano del cassettone la biancheria di Tommaso, pensando che se in serata si fosse un po’ ripreso avrebbe ordinato un bagno anche per lui. Poi si avvicinò al letto e rimase qualche minuto a osservare il profilo del figlio addormentato, i ricci scuri, le ciglia nere sugli occhi che erano del suo stesso colore. Era una sua copia in piccolo, in cui la fragilità dei lineamenti materni quasi non si notava. E neppure quella del carattere.

    Meglio così, pensò. Tommaso era forte, nel corpo e nell'anima: non c'era da preoccuparsi per lui.

    Tuttavia, era preoccupato. L'esistenza del girovago era piena di rischi: le campagne erano insalubri, vi regnava la malaria e vi abitavano briganti così miserabili da trovare appetibili anche i poveri possessi di un fabbro ambulante. Se mai gli fosse successo qualcosa, non sapeva proprio che ne sarebbe stato di suo figlio.

    Ancora due estati, pensò, cercando di farsi animo. Due estati ed è fatta.

    Un colpetto alla porta lo fece sobbalzare. Andò ad aprire e si trovò davanti una ragazzetta formosa e colorita, che rimase a fissarlo dal basso in alto con la bocca aperta. «Sì?»

    «La… la padrona dice che il bagno è pronto. Se volete andare, io penso al bambino.»

    «Bene.» Rientrò per prendere la biancheria. La servetta s'infilò dietro di lui, giocherellando nervosamente con la stoffa della gonna scura.

    «Se… se avete bisogno d'aiuto… Per il bagno, voglio dire» chiarì, al suo sguardo stupito.

    «Badate a Tommaso» replicò in tono incolore. «Io so cavarmela da solo.»

    Uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Nel corridoio, scosse la testa e si mise a ridere. Che sfacciataggine! E non doveva avere più di quindici anni.

    «Lo fate stare zitto o no? Perché diavolo piange, adesso?»

    Sotto l'aspro rimprovero della madre, Nerina torse la bocca come per mettersi a piangere anche lei. «Non è colpa mia» balbettò. «È Maddalena che non lo vuole attaccare.»

    Eufemia rivolse uno sguardo carico d'ostilità alla figura seduta accanto alla finestra. La giovane indossava una sudicia camicia da notte e, nonostante il caldo, si copriva le spalle con uno scialle di lana. Sembrava completamente indifferente alla presenza delle altre due, come pure al pianto affamato del bambino. Che ci sta a fare a quella finestra?, pensò Eufemia.

    Tanto non guardava nemmeno fuori, si limitava a stare lì con gli occhi semichiusi, come un'ebete, respirando appena. Dio, che carico s'era messa sulle spalle! E tutto per colpa di quello scemo di suo marito.

    «Da' qua.» Senza troppa gentilezza, strappò il neonato dalle braccia di Nerina e superò a lunghi passi nervosi la distanza che la separava dalla nipote. «Prendi tuo figlio» ordinò, con un tono di minacciosa tensione nella voce. L'altra non diede segno d'averla sentita. «Maddalena…»

    La minaccia era adesso più evidente, tanto che Nerina si guardò attorno come per cercare aiuto, prima di ricordare che non era lei a essere in pericolo.

    «Maddalena, prendi tuo figlio e allattalo.» La ragazza non si mosse. Allora, in preda a una cieca furia, la donna le si avventò addosso e con la mano libera le assestò due ceffoni sul viso, mentre con l'altra seguitava a stringere il bimbo urlante.

    Maddalena parve rattrappirsi sotto i colpi, ma dalla bocca non le uscì un fiato. Furibonda, Eufemia afferrò lo scollo della camicia da notte e tirò, fino a strapparlo. Si scoprì un seno gonfio e già bagnato dalla perdita di latte. La donna la guardò con disgusto, poi abbassò il neonato e glielo piazzò al petto. Il piccolo ruotò la testolina con famelica avidità, fino a trovare il capezzolo. Contrariata, Eufemia si accorse che nonostante la sua furia tirava debolmente. La madre non cercò di abbracciarlo né fece nulla per trattenerlo.

    «Tieniglielo attaccato» ordinò, rivolgendosi a Nerina. Era certa che Maddalena non avrebbe esitato a lasciarlo cadere, o almeno non avrebbe fatto nulla per evitarlo. «Peggio delle cagne di strada» sibilò tra i denti, dirigendosi alla porta. «Ma in casa mia non si ammazzano i bambini.»

    In realtà, sapeva che la ragazza non stava deliberatamente tentando di uccidere suo figlio. Né lei era interessata alla salvezza di Tonino per puro spirito di carità cristiana. Ma, se fosse morto, tutti avrebbero sostenuto che se n'erano liberati e non aveva intenzione di rimetterci il suo buon nome, per una sgualdrina che non le era neppure parente sul serio.

    Quando Giovanni la vide, capì che era d'umore litigioso e ne intuì anche il motivo. Le dava pienamente ragione, ma che altro avrebbe potuto fare? Quella sciagurata era figlia di un suo lontano cugino e, se pure non ci fossero stati di mezzo i soldi, che in quei giorni di magra facevano comunque comodo, bisognava considerare la voce del sangue.

    «Il fabbro è andato a fare il bagno» annunciò in fretta, ansioso di deviare l'attenzione della moglie su un argomento più sicuro.

    Eufemia sedette a una panca e poggiò i gomiti sul tavolo, le mani sotto il mento per sorreggere la testa. La fronte era corrugata e gli occhi cupi. «Che altro ti ha detto?»

    «È diretto alla Rivafredda. Ha un ingaggio per la stagione, è un fabbro ambulante.»

    «Ah» commentò lei, con scarso interesse.

    «Mi sembra un bel giovanotto, no?» disse il marito, sedendole di fronte. «Forte come un bue e pulito. Un tipo a posto.»

    «Mmm…»

    «È vedovo» aggiunse lui, lentamente. «Non ha moglie.»

    Eufemia batté le palpebre, riscuotendosi parzialmente dalla sua indifferenza. «E allora?»

    «Potrebbe essere un buon marito, per una ragazza.»

    «Una figlia mia non la do di certo a un fabbro ambulante» protestò, scattando indietro sulla panca.

    Giovanni sollevò le spalle. «E chi parla di figlia?»

    Lei sbarrò gli occhi, fissandolo intensamente. Il marito annuì e accennò col mento verso l'alto.

    Al piano superiore, il bambino aveva ripreso a piangere.

    La sala del Gallo Nero si riempì molto prima che facesse buio. Scendendo le scale, Libero diede un'occhiata in giro e notò che i clienti non differivano dalla solita selezione

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