Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Storie segrete della storia di Bologna
Storie segrete della storia di Bologna
Storie segrete della storia di Bologna
E-book370 pagine4 ore

Storie segrete della storia di Bologna

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Curiosità, misteri e aneddoti della città delle torri

Dove l'aneddotica si ferma, entrano in scena i segreti. Dall'ippodromo in cui gareggiavano gli struzzi, alla statua di Mussolini che troneggiava nello stadio Littoriale, ricavata col bronzo dei cannoni austriaci, poi decapitata alla fine della guerra. E, ancora, le tracce di personaggi transitati per la città, come il violoncellista Roger Bricoux, diplomatosi al conservatorio di Bologna e imbarcatosi sul Titanic per cercare fortuna; lo spartito di Madama Butterfly rubato da un soldato tedesco e restituito in circostanze misteriose all'Accademia Filarmonica; l'invasione dei pipistrelli in San Petronio; il terribile mestiere degli acchiappagatti, il lato torbido dei segreti e le calamità naturali… 
Storie segrete della storia di Bologna è un libro su tutto ciò che le guide turistiche non vi diranno.

I segreti della dotta, la rossa e la grassa svelati in un racconto avvincente

Tra i segreti di Bologna:

• il violoncellista del Titanic
• il dinosauro del re
• Rossini-Colbran: un matrimonio tra star
• l’ippodromo degli struzzi
• le due vite di Tato Futurista
• l’ultimo volo di Aristide Faccioli
• i frodatori del dazio
• il divorzio di Guglielmo Marconi
• gli acchiappagatti
• vendesi pescecane austriaco
• il biscotto della regina
• sfratto ai pipistrelli
• l’esercito di terracotta nascosto in Accademia Filarmonica
• le mille vite della statua di Mussolini
• la Butterfly rubata
• guerra al gioco d’azzardo
• odissea in Vaporino
Luca Baccolini
 è giornalista e conduttore radiofonico di programmi sportivi e culturali. Dal 2010 collabora con la redazione bolognese di «la Repubblica». Con la Newton Compton ha pubblicato 1001 storie e curiosità sul grande Bologna che dovresti conoscere e Il Bologna dalla A alla Z.
LinguaItaliano
Data di uscita24 nov 2017
ISBN9788822713322
Storie segrete della storia di Bologna

Leggi altro di Luca Baccolini

Correlato a Storie segrete della storia di Bologna

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Storia europea per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Storie segrete della storia di Bologna

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Storie segrete della storia di Bologna - Luca Baccolini

    INTRODUZIONE

    Alla città delle mura che furono,

    delle persone che saranno

    e dei segreti che abiteranno in loro.

    Per carpire un segreto a volte basta mettersi nel giusto angolo di visuale. Storia nota, per esempio, è quella di Napoleone Bonaparte ospite di Bologna nel 1805, quando da poco era stato incoronato re d’Italia. Più segreto, invece, è il fatto che per accoglierlo al meglio – per nascondere, cioè, le brutture di una città zeppa, come tante, di mendicanti, edifici diroccati e picareschi personaggi a piede libero – fu allestito un vero e proprio set cinematografico di case dalle finte facciate (c’era però un autentico arco di trionfo), per rendere un po’ più presentabile la via d’ingresso alla città. Bologna ha per sua natura la tendenza a nascondersi e a camuffarsi: lo fa tutti i giorni sotto i suoi quaranta chilometri di portici, che ottundono la vista del cielo e rendono misteriose, anche ai suoi stessi abitanti, le facciate dei palazzi, a loro volta truccati col sapore medievale del nostalgico restauratore Alfonso Rubbiani. Nella facciata del palazzo Malvasia, all’inizio di via Zamboni, si nasconde un mascherone a bocca aperta, da cui colava vino rosso e brodo di cappone, offerto quando un membro di quella famiglia era eletto gonfalone, magra compensazione politica elargita al patriziato locale in cambio dell’egemonia papalina.

    Pontefici, imperatori, santi, uomini di scienza e di ingegno: non manca nessuno nel catalogo di queste storie segrete. Ma sarebbe stata un’ingiustizia non invitare in questo carnevale sotterraneo anche i personaggi dimenticati dalla grande storia: i saltimbanchi, le prostitute cui veniva mozzato il naso se sconfinavano oltre il loro bordello, i sollevatori di pesi, gli ermafroditi dei baracconi, gli acchiappagatti, i popolani d’ogni genere che animavano spettacoli di strada più o meno improvvisati, ma sempre serissimi, perché in gioco c’era la sopravvivenza per uno o due soldi alla volta. E questa in fondo è Bologna, una città che cerca il salto a un rango superiore, ma che alla fine si crogiola negli orizzonti piatti e minuti che offre l’immutabile pianura padana, e nel suo essere protetta dalle mura anche in loro assenza, nel suo trovare sempre un modo alternativo per adattarsi alle mutate condizioni politiche, sociali e… meteorologiche. Il grande nevone del 1929, i terremoti, le epidemie. Nulla è stato risparmiato a questa città, nemmeno due guerre mondiali vissute, per motivi diversi, da protagonista: la prima per esser il crocevia ferroviario del fronte, la seconda perché tra i principali bersagli dei bombardamenti alleati. Le bombe distrussero anche uno dei teatri d’opera più raffinati dell’epoca, ma non sopirono l’orgoglio di aver fatto diplomare accademico filarmonico il quattordicenne Mozart, studiare Gioachino Rossini e aver lanciato Richard Wagner in Italia, colui che se fosse rinato – così scrisse al sindaco Camillo Casarini –, avrebbe voluto vivere a Bologna. Impossibile sperare che la pensasse alla stessa maniera Arturo Toscanini, schiaffeggiato davanti al Teatro Comunale da una masnada fascista e costretto a partire in autoesilio verso l’America, una delle macchie più nere della storia culturale cittadina e nazionale. Ma anche quelle, in fondo, bisogna saperle indossare con dignità. E Bologna se l’è riguadagnata di sicuro dal 1945, offrendo in sacrificio palazzi, donne e uomini per la sua liberazione, simboleggiata oggi dai due partigiani che sorvegliano porta Lame, scolpiti da Luciano Minguzzi con lo stesso bronzo di cui eran fatti sia i cannoni austriaci conquistati nel 1848 nella battaglia della Montagnola, sia la statua equestre di Mussolini allo stadio Littoriale. Quei settanta quintali di bronzo rappresentano la capacità di rialzarsi e ricostruirsi, di sconfitta in sconfitta, senza perdere (quasi) mai la dignità. Come dimostrarono i cittadini bolognesi che nel 1916, vedendo sfilare settecento prigionieri austriaci catturati al fronte, si astennero dal dileggiarli come avrebbe voluto il comando militare. Un gesto ripetuto anche in campo sportivo cinque anni dopo, in occasione della prima visita di una squadra austriaca in Italia dopo la fine della Grande Guerra (viennese, del resto, è stato l’allenatore più longevo della storia del Bologna Football Club, herr Hermann Felsner, gran maestro del calcio danubiano).

    Storie segrete, in questa accezione, non significa scoprire un fatto nuovo, perché un fatto già accaduto, di per sé, non può essere mai nuovo. Significa guardare alle vicende nostrane con una luce diversa, cogliendo le tracce della grande storia anche nei piccoli mattoni sbrecciati sui quali si inciampa sempre volentieri, perché obbligano, rialzandoci, a cambiare per un attimo visuale al nostro sguardo.

    PARTE PRIMA. VIAGGIO SEGRETO NELLO STOMACO DI BOLOGNA

    Non solo mortadella, ripieno dei tortellini, cotoletta alla bolognese, ragù e certosino. Lo stomaco di Bologna si è riempito di tutto ciò che poteva distrarre la fame, senza badare necessariamente al sublime. Dal Medioevo alla seconda guerra mondiale, non era raro incontrare figure come quella dell’acchiappagatti, di cui è facile immaginare la missione gastronomica. Ma questo non deve far inorridire i nostri palati educati. Bologna e i suoi dintorni erano in grado di toccare vette di astrazione del gusto, come quelle raggiunte dal biscotto africanetto di San Giovanni in Persiceto, composto da due soli ingredienti, il rosso d’uovo e lo zucchero: non un dolce, ma un concetto. Oppure di giocare alla morte con le loro eccellenze, come capitò allo sfortunato signor Checchi, vittima di uno scherzo a base di tagliatelle finte. Vero e certificato, invece, il pescecane che nel 1916 finì sulle tavole di molti bolognesi, incuriositi da un animale ciclopico che il pescivendolo aveva giurato provenire da una scena di battaglia sottomarina.

    GLI ACCHIAPPAGATTI

    Vita grama, per i felini bolognesi fino alla seconda guerra mondiale. Su di loro incombeva il temibile ciâpagât, un Belfagor spietato, che il giovedì riceveva le commesse della clientela e il sabato le portava a termine. In umido, in salmì, arrosto. Non c’era limite alla fantasia. E purtroppo nemmeno alla fame.

    L’ ultima ondata di accalappiagatti arrivò con la seconda guerra mondiale, quando le tessere per il razionamento del cibo non bastavano a quietare la fame e ogni cosa che si potesse masticare, o almeno riscaldare, aveva dignità di pasto e di cena. O tutte e due le cose insieme. Un’ecatombe felina, quella che imperversò fino al 1945. L’ultima di una storia secolare, poco nobile, molto vera. A Bologna si mangiava carne di gatto. La povera gente aveva imparato a cucinarla arrosto, in umido, salmistrata, condita, speziata. Un cunéin co’ gli ong , un coniglio con le unghie, si diceva per eufemismo. Bastava questo, ai facchini, per risvegliare l’appetito. I facchini, perché a loro toccava un mestiere di fatica e all’aria aperta. Facile incappare in un gatto, tra un tragitto e l’altro, deposte le salmerie e presa consapevolezza che la cena non era stata ancora allestita. Più difficile catturarlo, ma questa è un’altra storia. Il gatto però arrivava anche nei ristoranti, non sempre sulle sue zampe. C’erano trattorie di periferia, appena fuori città, che non indugiavano a proporre quel che passava il convento, o la strada: vitello non sempre, gatto sì, quanto se ne desiderava. A fine Ottocento c’erano testimonianze di piatti felini, più o meno consapevolmente ordinati e serviti in tavola. A discrezione dell’oste informare il cliente prima che il coltello affondasse nel piatto. Gatti, ma anche bisce, i pesci campagnoli, con buona pace di chi sperava di aver ordinato almeno un’anguilla di Comacchio.

    Giovani scavezzacollo specializzati, scarpe rotte ma armati di robusto sacco di tela, s’aggiravano nei vicoli, offrendo ricompense a chi segnalava presenze feline, rivendendo la carne e la pelle separatamente, per raddoppiare il guadagno. Il gatto in cucina non aveva solo i suoi buongustai, ma contemplava anche quel tipico mestiere che ne era il presupposto: il ciâpagât, l’acchiappagatto, cugino dell’accalappiacani, spesso coincidente nel ruolo e nella paga. Unica accortezza: non farsi scoprire dai padroni, da quelli, perlomeno, che inquadravano il gatto in una prospettiva esclusivamente domestica (quegli inguaribili borghesi…). Inutile specificare come la pelle nera e lucida fosse la prediletta di acchiappagatti e acquirenti. Alla faccia del gatto nero portatore di iattura. In zona Pontelungo, dove Riccardo Bacchelli ambientò il suo Diavolo – con le riunioni anarchiche a breve distanza dal ponte che scavalca il fiume Reno, tra Santa Viola e Borgo Panigale –, esisteva quella che Mario Bianconi definì una vera centrale del gatto. Là, sotto i voltoni dei ponti, nello spazio limaccioso conteso tra acqua, terra e sassi, si allungava un palcoscenico ideale per la cattura dei quadrupedi baffuti. Giovedì e venerdì se ne ordinava la quantità presso il ciâpagât. Il sabato era il giorno di consegna. Guai a sgarrare. Perché la domenica, nel pranzo più importante della settimana, si mangiava finalmente la carne.

    Il gatto, del resto, è sempre stato il simbolo per antonomasia della miseria in tavola. Alla sua coda era legato indissolubilmente un sillogismo disarmante: Chi an n avéva ón ch’s inzuchéss in cl èter (chi non aveva un soldo che si inzuccasse con l’altro); sapeva infatti di avere necessariamente al gât int al fûg, ovvero il gatto nel fuoco. Con doppia accezione: sia perché il gatto poteva sonnecchiare tranquillo sulla cenere spenta, sia perché sul fuoco poteva finirci direttamente lui. Questo accadeva a Bologna, la città dei tortellini e dei gatti, della mortadella e delle bisce di campagna. Gennaio, il mese in cui le gatte vanno in amore, nonché quello in cui la fame morde di più, era periodo aureo per i ciâpagât. Znèr, gatèr (gennaio, gattaio), si diceva, non per caso. Ne approfittavano, facendosi concorrenza accanita, anche i muratori a riposo. Chi imparava il verso delle gatte in amore aveva un paio di maschi garantiti in pentola, attirati a tradimento. Furono i muratori a inventarsi il nome alternativo del gatto, simàn, ovvero Simone, il cunén dagl’ong, lîvra da cópp, il coniglio con le unghie o lepre dei tetti. E pensare che Bacchelli, ai gatti di Pontelungo, visti di sicuro suis oculis, aveva dedicato prose meravigliose, narrando del «gatto comodo e silenzioso, salvo quando il sesso, intossicandolo, ne spremeva i lagni strani del suo spasimo erotico, fuori, nella solitudine di luoghi disabitati». Quella solitudine letale, perché un gatto solitario era un gatto perfetto. Per finire nel sacco.

    VENDESI PESCECANE AUSTRIACO

    Venghino signori, venghino. Con venti soldi si contempla il pescecane più grande che vi sia mai capitato di vedere. Ammesso che ne abbiate già visto uno, in vita vostra. Nel 1914, a due passi dal Nettuno, un intraprendente pescivendolo fa sfoggio di un’enorme carcassa dalle dubbie origini. Si dice sia uno squalo ucciso da una mina sottomarina austriaca in pieno Adriatico. Per chi ha voglia di crederci, naturalmente.

    Nel 1914 il terribile pescecane aveva fatto il suo ingresso nell’immaginario e negli incubi dei bambini già da una trentina d’anni, da quando, cioè, Carlo Collodi aveva fatto apparire dal capitolo xxiv di Pinocchio «l’Attila dei pesci e dei pescatori», ovvero quel pesce «più grosso di un casamento di cinque piani, con una boccaccia così larga e profonda che ci si passerebbe comodamente tutto il treno della strada ferrata colla macchina accesa», lo stesso che Pinocchio visiterà suo malgrado all’interno, ingoiato dalla creatura «con la bocca spalancata, come una voragine, e tre filari di zanne che avrebbero fatto paura anche a vederle dipinte». Quanto misurava il Pesce-cane collodiano? Di sicuro «più lungo di un chilometro, e senza contare la coda». Geppetto ci era finito dentro a sua volta, mangiato dal mostro due anni prima «come un tortellino di Bologna». E non avrebbe immaginato, oggi, quanti bambini bolognesi temessero questa metafora, che li toccava così da vicino. Ebbene, poiché all’alba del Novecento in città non esistevano parchi acquatici e gli unici pescecani potevano essere rintracciati in forma fossile al museo di paleontologia, fece scalpore l’arrivo di un gigantesco pescecane, ucciso in circostanze misteriose nell’alto Adriatico. Portato cadavere in pieno centro, avvolto da lunghi drappi che avevano preso subito la forma inconfondibile delle pinne caudali e dorsali, si cominciò presto a favoleggiare sulle sue dimensioni. Quindici metri, venti metri, trenta quintali! Qualcuno osò ipotizzare che fosse stato sedato, e presto sarebbe tornato in vita. Ma non c’era pericolo. Quell’esemplare di squalo era una delle vittime collaterali della prima guerra mondiale che presto gli italiani avrebbero dovuto combattere in prima linea, dopo l’illusoria neutralità iniziale. Un volantino, apparso nelle principali vie del centro chiarì subito la faccenda:

    Bolognesi! Amatori del bello!

    Correte, affrettatevi, se volete vedere i risultati della guerra! Una mina austriaca è scoppiata nei pressi di Trieste e ha ucciso un gigantesco Pesce Cane del peso garantito di dieci quintali e lungo dieci metri.

    Altro che il pesce asmatico di Collodi, costretto a dormire a bocca aperta in superficie, difetto fatale, perché gli costò la fuga di Pinocchio. Qui il pescecane non aveva niente di favolistico, ma era il terribile prodotto combinato delle insondabili profondità del mare con quelle della guerra. L’ingombrante carcarinide era giunto in treno, sulla stessa rotta ferroviaria che da lì a poco avrebbe issato e riportato dal fronte migliaia di soldati. Bologna, del resto, era il crocevia stradale per tutti. Militi e squali accidentalmente deceduti. Poiché un animale di tal genere portava in sé un capitale ben superiore al pur considerevole peso della sua carcassa, il pescivendolo Cipriano Rosi decise di massimizzare i profitti. Così, sistemato l’esemplare su una piattaforma colma di ghiaccio, umettatolo ben bene per farlo sembrare appena uscito dall’acqua, si mise a esporlo al pubblico, senza lesinare particolari. Rese noto, infatti, di aver pagato il suo relitto ben 1400 lire, l’equivalente di 3500 euro odierni. Investimento notevole, ma di sicuro ritorno. Rosi scelse infatti l’angolo più scenografico per il suo gioiello di sangue e cartilagine, ovvero l’incrocio tra via Orefici e via Rizzoli, dove sorgeva il nuovissimo palazzo del cavalier Alessandro Ronzani, noto industriale della birra, che nel punto di maggior passaggio cittadino aveva voluto quella gigantesca macchina per affari, adibita a caffè, albergo, residence, circoli, magazzini, negozi e persino un teatro sotto il livello della strada (il Modernissimo). Il set ideale per esporre tanto ittico esotismo. Per rientrare del suo corposo investimento, il pescivendolo stabilì i prezzi per vedere la carcassa: 20 centesimi prezzo intero, la metà per ragazzi e militari, purché di bassa forza. A quelle cifre, avrebbero dovuto partecipare settemila persone per ripianare la spesa. Tante, e tutte in una volta, non arrivarono. Ma del resto il pescecane aveva una vita breve davanti a sé: da lì a due giorni sarebbe stato smembrato e venduto a tranci. Rosi sapeva che così avrebbe compensato gli introiti della sua esibizione. Ma non si dimenticò degli ultimi. Bandì quindi un altro volantino, nel quale si preoccupò di sottolineare che gli operai avrebbero avuto diritto alla loro porzione di pescecane per 1,5 lire al chilogrammo. Difficile sapere quanti aderirono all’offerta. Ma di sicuro si sa che per renderla più appetibile – o almeno per prolungare il baraccone dell’intrattenimento – Rosi si procurò una testuggine di 96 chilogrammi. Questa volta viva e vegeta, per quanto mezza intontita dal frastuono della città. Così, per qualche ora, il flaneur di via Rizzoli, diretto in piazza, non poteva evitare di scorgere la surreale convivenza della timida, benché gigantesca tartaruga, accoppiata ai resti mostruosi del pescecane. Due inconsapevoli macchine da soldi, in una Bologna che credeva a tutto. Anche agli squali uccisi dalle mine sottomarine asburgiche.

    IL BISCOTTO DELLA REGINA

    A San Giovanni in Persiceto, appena fuori Bologna, si produceva un biscotto di cui erano ghiotti i re di mezza Europa. Si chiamava africanetto, forse perché era abitudine spedirlo anche nelle colonie italiane d’Africa. Il suo segreto è tutto nella cottura. E nel modo in cui occorre degustarlo.

    Per l’esiguità dei suoi ingredienti, sarebbe impossibile definirlo un dolce, confondendolo con il catalogo sterminato delle famiglie di tiramisù, budini, torte e semifreddi. Per le note di sapori che produce, sarebbe un’ingiustizia anche chiamarlo biscotto. Che cos’è, allora, un africanetto? Una sublime e fragile combinazione di rosso d’uovo e zucchero, uniti in cottura dentro un apposito stampo. Ma anche qui la definizione vacilla, come tutto ciò che si cerca di imbrigliare in poche parole. L’africanetto è piuttosto un concetto, un’idea, un pensiero puro, un orizzonte contemplativo. È uovo che, liberatosi dallo status di umile prodotto dell’aia, s’eleva al rango di poesia, di logos platonico. Friabile, impercettibilmente croccante nel suo involucro esterno, si ammorbidisce in un attimo all’interno, dove custodisce un segreto di cedevolezza che richiama la consistenza dello zabaione. E proprio lo zabaione è, in realtà, il parente più prossimo di questo prodotto d’ingegneria minimalista. Ma sbaglia pure chi lo chiama biscotto di zabaione. Perché l’africanetto è, in realtà, guardiano di molti e più segreti sapori che la cottura gli ha donato e che lo zabaione, per sua natura, non porta con sé. La cottura, ecco l’arcano. È lì che avviene il miracolo di un’elevazione di pochi millimetri, senza l’aiuto della farina e dei lieviti. In pochi minuti, un impasto liquido si trasforma in un guscio alto un centimetro e mezzo, di forma sempre diversa e screpolata, apparentemente solido di struttura, in realtà di fragilità inaudita. Non si può impugnare un africanetto prima di mangiarlo. Significherebbe confonderlo di nuovo con un biscotto. La pena è la ribellione degli atomi interni, che si sbriciolano all’istante, distruggendo il fascino dell’irregolarità della forma. L’africanetto va posato delicatamente sul palmo aperto di una mano, e lì diviso con due dita a pezzi minuscoli, se non infinitesimali. Da lì, questo lacerto d’uovo non entra in bocca come cibo qualsiasi, ma si posa sulla lingua, con la stessa delicatezza con cui era stato espunto dal suo blocco. Attendere, ora. La digestione dell’africanetto è una meditazione di sapori. Lenta. Richiederebbe gli occhi chiusi e pochi rumori intorno. Vietato masticare, come prescriveva il prete a catechismo con le ostie. L’africanetto si sussume, con un impercettibile movimento di lingua sul palato alto, aspettando che la saliva lo sciolga, facendo sprigionare tutta la tavolozza di colori che è in grado di produrre un uovo. È in quel momento che avviene la comunione con la vita della campagna, con la gallina che è il convitato di pietra, con chi ne ha raccolto il frutto quotidiano, con chi lo ha dischiuso per trasformarne la greve prosa in sublime poesia.

    Solo nel bolognese, precisamente a San Giovanni in Persiceto, è possibile accedere a questa iniziazione ai misteri dell’uovo. È lì, nel pieno del distretto dei motori, in quella porzione d’Emilia che prende da tre province diverse (Modena, Ferrara e Bologna) ma si protende un po’ verso nord, sulla direttrice di Verona, è lì che il rito dell’africanetto si perpetua come accadeva nel secondo Ottocento. Africanetto, chi era costui? Non un nome di persona, non un aggettivo. Ma un implicito complemento di moto a luogo. Destinato alle colonie d’Africa, suggerisce la tradizione. Con quali esiti per la morbida consistenza interna del biscotto, è difficile immaginarlo. La ditta Bagnoli di San Giovanni in Persiceto, fondata nel 1860 in via Guardia Nazionale al numero 1, si incaricava di produrre e distribuire l’africanetto. Fabbrica di pasticceria, biscotti, savoiardi e alimentarii per ammalati, recitava la descrizione dell’azienda. Dietro quelle mura color uovo, si nascondeva un segreto amato dai re di mezza Europa. Ferdinando Bixio, che nel 1884 aveva rilevato l’azienda dal defunto fondatore Francesco Bagnoli, ottenne subito la medaglia d’argento all’Esposizione Generale di Torino del 1884, aggiungendovi l’anno successivo la medaglia d’oro all’Esposizione di Napoli, e nel 1899 il dono di un gioiello da Sua Maestà la Regina Madre Margherita di Savoia. Nel 1900, alla Grande Esposizione d’Igiene di Napoli, sotto il patronato di Sua Maestà il Re d’Italia, ottenne il Diploma di medaglia d’oro per i Savoiardi e, nel 1901, lo stesso Ferdinando Bixio Bagnoli venne nominato membro della giuria all’Esposizione Internazionale di Bordeaux. Tal collezione di allori si protrasse fino alla seconda guerra mondiale, se è vero che il 23 maggio 1943 il colonnello Alvergna scrisse al ministero della Guerra per accordarsi con la ditta Bagnoli per l’acquisto di africanetti, biscotti dalle qualità eminentemente igieniche, sostanziose ed efficaci, specie per ammalati, convalescenti, vecchi e bambini. Di quella fabbrica della felicità oggi esistono solo l’edificio di rappresentanza e la ciminiera. Persino l’insegna del Caffè Mimì, fino al 1978 aperto al piano terra di quella palazzina, è andata perduta. Ma a tener vivi rito e sapore dell’africanetto sono ancora isolate botteghe. La più storica è quella del Caffè Bergamini. Lì, nel locale aperto dal 1924, ogni giorno fuoriescono dagli stampi i dobloni persicetani, stessa sostanza dell’africanetto in forma circolare anziché rettangolare. Le prescrizioni per la degustazione sono le stesse di un secolo fa. E così gli effetti sul palato, come dovette osservarli la Regina Margherita in persona.

    BRODO SUL POPOLO

    Una strana apertura dalla bocca di un mascherone, posto sull’arco di un palazzo nobiliare in pieno centro, rivela le abitudini grottesche del patriziato bolognese. Ogni volta che veniva eletto un gonfalone, la famiglia del prescelto si prodigava in regali per il popolino. Arrivando a innaffiarlo di brodo e vino rosso.

    I rapporti con la Chiesa, dal xv secolo in avanti, furono una costante della vita politica di Bologna, seconda città per grandezza dello Stato pontificio dopo Roma. Per arrivare ai quasi tre secoli di incontrastata egemonia papalina – fino a che, cioè, le prime campagne napoleoniche del 1796 non misero in discussione l’ordine costituito – si attraversò un lungo periodo di concessioni e sottrazioni, mediazioni e rinunce, su un fronte e sull’altro. Già a metà del Quattrocento, con Niccolò v , Roma e Bologna si trovarono a negoziare una serie di trattati che formalmente limitavano la sovranità pontificia sulla città secondo un principio di collaborazione obbligatoria del legato romano coi magistrati bolognesi. Formalmente, perché di fatto

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1