Un mondo per noi due: Harmony Bianca
Di Sue Mackay
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Info su questo ebook
Mario: Alex è troppo presuntuosa, dispotica e noiosa per i miei gusti! Farò bene a ricordarmelo ogni volta che il mio sguardo indugia sulle sue labbra da baciare e ogni volta che mi illudo che potrebbe entrare a far parte del mio mondo. In quel mondo c'è posto solo per me e Sophie e ogni interferenza potrebbe costarci cara.
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Anteprima del libro
Un mondo per noi due - Sue Mackay
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
You, Me and a Family
Harlequin Mills & Boon Medical Romance
© 2013 Sue MacKay
Traduzione di Rita Orrico
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Books S.A.
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
Harmony è un marchio registrato di proprietà
HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.
© 2014 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-5899-876-2
1
«Alexandra Katherine Prendergast, come si dichiara? Colpevole...?»
Il giudice fece una pausa, quasi volesse prolungare il momento straziante. Proprio quando Alex fu sul punto di urlare per la frustrazione e l’umiliazione, lui aggiunse in tono provocatorio: «... o non colpevole?».
Lei aveva la gola arida e la lingua incollata al palato. Le lacrime scendevano a rigarle il volto pallido. «Colpevole» tentò di sussurrare. Colpevole, colpevole, colpevole!, gridò il suo cervello.
«Parli, Alexandra» ringhiò l’uomo in piedi sul lato opposto del tavolo della sala operatoria. Gli occhi che la fissavano da sotto la cuffia erano freddi, duri ed esigenti. La tonalità si abbinava perfettamente al prosaico blu dei camici che entrambi indossavano. «Questo bambino è morto mentre era affidato alle sue cure?»
«Ho fatto tutto quanto era in mio potere per tenerlo in vita, Vostro Onore. Gli altri medici mi hanno detto che non c’era nulla che avrei potuto fare, che ho agito nell’unico modo possibile. Avrei voluto crederci, ma come potevo? Quel bambino era affidato a me e io ho fallito.» Il vecchio dolore e la ormai familiare disperazione le salirono fino in gola. «Ho perso Jordan.»
«Jordan è morto a causa sua. Ha fatto tutto quanto in suo potere per evitare che la stessa cosa accada di nuovo?»
«Sì» assicurò lei con voce roca. «Ogni giorno cerco di salvare altri bambini.»
«La condanno a una vita dedicata alla cura dei bambini altrui» sentenziò il giudice. I suoi occhi erano di ghiaccio, in sintonia col tono della voce.
Alex si sollevò di scatto dal cuscino e serrò la mano sulla bocca. Il sudore inzuppava la camicia da notte, facendola aderire alla pelle. Ciocche umide di capelli le ricadevano sugli occhi e s’incollavano alle guance bagnate. «Non vomiterò. Non lo farò.» Le parole rimasero bloccate in gola mentre lei sbatteva le palpebre e usciva lentamente dall’incubo.
Un incubo fin troppo familiare.
Accese la lampada sul comodino con dita tremanti e la stanza fu inondata da una morbida luce gialla. Lei scostò le coperte e appoggiò i piedi al pavimento. Nonostante il riscaldamento fosse acceso, l’aria invernale era fredda sulla sua pelle febbricitante. Ma il freddo era una buona cosa, le restituiva la lucidità e la sottraeva all’incubo e al senso di colpa. Le permetteva di concentrarsi sul qui e ora, sul presente e non sul passato.
Indossò una pesante vestaglia e fece scivolare i piedi in soffici pantofole, poi si trascinò in cucina dove mise a bollire l’acqua per una tisana. Tremando, rimase a fissare la dispensa, indecisa su quale gusto scegliere. Alla fine afferrò quasi alla cieca il pacchetto più vicino e lasciò cadere una bustina di tè alla frutta in una tazza.
L’orologio del forno segnava le quattro meno un quarto. Aveva goduto di poco più di tre ore di sonno prima che l’incubo s’insinuasse nel suo subconscio come un film in technicolor, accusatorio, debilitante, doloroso. Ricordandole quanto la sua posizione di primario di pediatria presso il Nelson Hospital fosse in balia dei piccoli pazienti. Nella sua mente, Alex si sentiva un’imbrogliona. Una vocina le sussurrava che prima o poi avrebbe commesso un errore fatale, e che lei sarebbe stata giudicata un’incompetente.
Dovette scavare in profondità per ritrovare la convinzione che era un buon medico, anzi ottimo. Il numero sempre crescente di bambini malati che venivano a vederla, non solo dall’isola, ma da tutta la Nuova Zelanda, lo dimostrava. Purtroppo l’incubo ricorrente riusciva sempre a minare la già fragile fiducia in se stessa. Inoltre rafforzava la convinzione di non poter essere una buona madre. Non che lei volesse in alcun modo contemplare quella possibilità.
Il bollitore scattò. Mentre riempiva la tazza, il vapore profumato di fragole le raggiunse le narici. Prendendo la bevanda attraversò la sala e si fermò davanti all’ampia portafinestra che incorniciava le luci di Rocks Road e le banchine del porto di Nelson. La pioggia ininterrotta della notte creava grosse pozzanghere sull’asfalto dieci piani più sotto.
Stringendo la tazza calda con entrambe le mani, Alex restò in piedi a fissare i rimorchiatori di manovra di una nave merci attraverso lo stretto che conduce da Tasman Bay al porto riparato. Giorno e notte, le barche andavano e venivano a seconda delle maree. Ora, ai primi di giugno, imbarcavano l’ultimo carico di kiwi destinati all’altro capo del mondo. Una squadra di uomini, che da quell’altezza parevano formiche, lavorava corde e macchinari. Un lavoro duro. Un lavoro onesto.
«Smettila.» Non c’era niente di facile o disonesto nel lavoro che lei faceva coi bambini malati. «Non hai causato tu la morte di Jordan. Il patologo l’ha dimostrato e ti ha esonerato da ogni colpa.»
Dillo al padre di Jordan.
Dietro agli occhi il costante martellamento aumentò in intensità. Alex cautamente sorseggiò il tè fumante, lo sguardo ancora fisso sulla scena sotto di lei. Perché erano tornati gli incubi quella notte? Esaurimento? O il bisogno assillante di tornare al proprio ruolo di capo del reparto di pediatria presso l’ospedale di Nelson il più in fretta possibile?
Il lavoro era tutta la sua vita, un rimpiazzo per la famiglia che altrimenti non avrebbe avuto. Tanto personale a cui fare da mentore, da riprendere, controllare e di cui preoccuparsi. Una gran quantità di bambini da curare nel solo modo che conosceva, come medico, e da amare in modo sicuro da dietro le quinte. Il suo era un coinvolgimento indiretto.
L’aroma fruttato del suo tè si diffuse nell’aria, dolce e rilassante. «Non avresti dovuto prendere i quattro mesi sabbatici. Così adesso ti toccherà dimostrare ancora una volta quanto sei brava.»
Ma tutti quegli ospedali americani coi loro specialisti esperti avevano effettivamente aumentato la sua fiducia e fatto capire una volta per tutte che era una professionista, tra i migliori nel settore della pediatria. Ovunque era stata, l’avevano applaudita per le sue ricerche sulle nascite premature. Le offerte di lavoro l’avevano travolta. Ciò aveva dato una vera carica al suo fragile ego. Anche il bisogno assillante di dimostrare continuamente a se stessa che era brava si era assopito.
A San Francisco, quando il suo vecchio mentore le aveva offerto una posizione incredibile nella sua nuova clinica privata pediatrica, era stata fuori di sé per l’orgoglio.
E questo, pensò con cupa soddisfazione, avrebbe dovuto garantirle il rispetto del suo patrigno. Se non fosse che lei aveva rifiutato l’offerta.
Finito il tè, Alex si allontanò dalla finestra. Era ora di provare a riprendere sonno. Il jet-lag, la stanchezza dopo la frenesia dei mesi negli Stati Uniti, l’incapacità di rilassarsi mentre era lontana da casa erano tutte buone ragioni per spiegare perché non riuscisse a riposare e nella mente si affollassero desideri che non si sarebbero mai realizzati. Come quello di una famiglia tutta sua da amare.
Alexandra cercò d’ignorare il mal di testa mentre depositava la borsa nell’ultimo cassetto della scrivania. Casa dolce casa. Il dipartimento di pediatria dell’ospedale di Nelson, il luogo in cui trascorreva la maggior parte del suo tempo.
Lo stomaco le si strinse al pensiero che durante la sua assenza ci fossero stati molti cambiamenti. Quali dei pazienti regolari era guarito ed era stato dimesso? Qualcuno non ce l’aveva fatta?
Rabbrividì. Che cosa le succedeva quella mattina? Quello non era l’atteggiamento migliore per riprendere il lavoro dopo una lunga pausa. Nei quattro mesi coi migliori pediatri della California e di Washington o durante i convegni che aveva presieduto in varie città degli Stati Uniti era riuscita a non pensare al suo lavoro, o almeno a fingere di non essere in pensiero per il buon funzionamento del suo reparto. Perciò aveva cercato di assimilare tutto il possibile dagli incontri con insegnanti e specialisti, era stata corteggiata, lusingata e istruita. Ma per tutto il tempo aveva desiderato solo tornare lì. A casa. Dove si sentiva al sicuro.
Eppure, persino il suo studio sembrava diverso. La scrivania, solitamente ricoperta di cartelle e documenti, era in perfetto ordine, con solo una minuscola pila di lettere. Sulla sommità c’era un biglietto con un messaggio scritto a mano e lei lo sollevò per leggere.
Dottoressa Prendergast, bentornata. Ho compilato lo schema dei turni per il prossimo mese, siglato le cartelle dei pazienti e risposto a tutta la posta ad eccezione di due lettere riguardanti le rotazioni degli interni di cui forse vorrebbe occuparsi di persona. Spero trovi tutto in ordine.
Nella firma lei lesse qualcosa come Maria Foreel.
Chi diavolo era Maria Foreel? E che razza di cognome era Foreel? Rilesse più volte la firma e si accorse che doveva trattarsi di Forelli. Non faceva alcuna differenza, il nome non le diceva nulla comunque.
«Eccoti qui! Com’è andato il tuo viaggio? Hai fatto un sacco di shopping in quelle boutique sciccose?» La capoinfermiera era in piedi sulla porta con un ampio sorriso.
«Kay, che bello rivederti» esclamò Alexandra, felice della distrazione. «E sì, ho trovato il tempo di rifornire il mio guardaroba. Un sacco.»
«Sono così invidiosa!» replicò l’altra con un sorriso che denotava tutto tranne invidia.
Alex aprì il cassetto in cui aveva depositato la borsa e ne estrasse un pacchetto. «Spero che ti piacerà.»
Kay spalancò gli occhi. «Mi hai comprato qualcosa? Che carina! Che cos’è?» Senza perdere altro tempo scartò il pacchetto. «Oh, che belli!» esclamò, sollevando gli orecchini d’argento alla luce. «Li adoro. Grazie mille, non avresti dovuto!»
Alex rise. «Certo che no. Adesso dovrai lavorare il doppio.» Il che era impossibile: Kay era l’infermiera più dedita al lavoro che avesse mai conosciuto. «Mi fa piacere che siano di tuo gusto. Appena li ho visti, ho subito pensato a te.»
Kay indossò subito gli orecchini e si ammirò allo specchio accanto alla scrivania. Alex si alzò e infilò il camice bianco che era appeso dietro alla porta. «Allora, come stanno Darren e i bambini?»
«Mi danno un bel daffare, come sempre. Perché non ho saputo apprezzare la mia vita da single quando potevo?» scherzò Kay.
«Lo so che non faresti cambio con nessuno.» Mentre io baratterei volentieri la mia brillante carriera medica per ciò che ha Kay, pensò Alex. Le dita si bloccarono sui bottoni del camice. Da quando l’attirava l’idea di passare la vita con qualcuno che l’amasse e la capisse pur con le sue eccentricità, che perdonasse i suoi errori senza discutere? Il cuore prese a battere più in fretta. Un uomo del genere non esisteva. Si portò due dita alle tempie e trasse un profondo respiro. Erano solo le sette del mattino e già la giornata si preannunciava a dir poco strana.
«Alex? Stai bene?» domandò Kay con sollecitudine.
«Sto bene.»
«Sei sicura di voler ricominciare oggi? Sei tornata solo ieri, no?»
Alex non voleva che l’altra si preoccupasse. «Sto benone e non vedo l’ora di mettermi all’opera.» Sollevò il mento e si sforzò di rilassare le spalle tese. «Sono solo un po’ stanca per via del fuso orario e degli spostamenti da una città all’altra.»
Kay sollevò gli occhi al cielo. «Mi piange il cuore per te.»
Alex rise di nuovo, sentendo la tensione scemare. Kay aveva l’abilità di restituirle il buonumore. «So che è presto, ma vorrei cominciare il turno. Che cosa