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Un posto per ricominciare: Harmony Bianca
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Un posto per ricominciare: Harmony Bianca
E-book174 pagine2 ore

Un posto per ricominciare: Harmony Bianca

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Info su questo ebook

Heatherglen Castle Clinic 1/4
In questa clinica davvero speciale, immersa nelle colline scozzesi, si curano le ferite del corpo e si guariscono i cuori solitari.

Cassandra Bellow arriva alla Heatherglen Castle Clinic in Scozia ferita nel fisico e nell'anima e scossa dalla perdita del suo fedele compagno di lavoro e di avventura. Soltanto il sexy manager della clinica, il dottor Lyle Sinclair, sembra in grado di strapparle un sorriso e ridarle la voglia di vivere.

Tuttavia molto presto Cass dovrà fare ritorno in America. A meno che Lyle non trovi il coraggio di chiederle di restare...
LinguaItaliano
Data di uscita21 set 2020
ISBN9788830518896
Un posto per ricominciare: Harmony Bianca

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    Anteprima del libro

    Un posto per ricominciare - Susan Carlisle

    successivo.

    1

    Cass Bellow guardava fuori dal finestrino mentre il taxi percorreva la strada in salita. La Heatherglen Castle Clinic, nel nord della Scozia, era completamente coperta di neve. Perché mai l'avevano spedita proprio lì?

    Aveva contestato animatamente la decisione del suo medico di mandarla a fare la fisioterapia in quella clinica privata. Non ce n'erano di altrettanto valide in luoghi dal clima più temperato? Tipo negli Stati Uniti? O, meglio ancora, perché non poteva semplicemente tornare a casa e fare gli esercizi da sola? Ma il suo dottore non aveva sentito ragioni su Heatherglen. Era lì che mandava tutti i suoi pazienti con ferite ortopediche gravi, perché quello era il posto migliore per una rapida e completa guarigione. E quando lei aveva continuato a opporsi le aveva detto senza troppi giri di parole che, se avesse voluto vedersi firmate le carte che permettevano la sua riabilitazione al lavoro, avrebbe dovuto seguire il programma di fisioterapia a Heatherglen.

    L'auto si fermò davanti alla porta d'ingresso. Cass osservò l'architettura normanna dell'edificio dalle lisce pareti in pietra e dal tetto in ardesia. Era enorme, impressionante. Non aveva mai visto tanti comignoli. Quel posto non era affatto come se lo era immaginato. Sebbene fosse solo l'inizio di novembre, le finestre del piano terra erano già addobbate con ghirlande natalizie di pino e bacche rosse che non fecero che rabbuiare il suo umore già nero.

    Quando le era stata affidata la missione di soccorso in affiancamento all'esercito, non aveva immaginato che sarebbe stata ferita in un'esplosione nell'Europa dell'Est e finita in un ospedale militare tedesco con gli arti in trazione. Il suo braccio e la sua gamba alla fine erano guariti, ma per poter riacquistare la completa mobilità aveva ancora bisogno di fisioterapia. E così l'avevano spedita in mezzo alla neve in quel posto dimenticato da Dio.

    Non desiderava altro che essere lasciata in pace.

    Aprì la portiera per scendere dal taxi e una folata di vento la schiaffeggiò, facendola rabbrividire. In quello stesso istante uno dei portoni in legno del castello, decorato con un'enorme ghirlanda, si aprì e un uomo sulla trentina, con le spalle larghe di un atleta, uscì. Con i suoi capelli rossicci e un enorme maglione di lana intrecciata, abbinato a un paio di pantaloni marroni, aveva l'aspetto di quello che nel suo immaginario doveva essere un tipico scozzese. Avanzò verso di lei sorridendo.

    «Salve, lei deve essere la signorina Cassandra Bellow. Sono il dottor Lyle Sinclair, il direttore medico di Heatherglen. Ma chiamami pure Lyle.»

    Il suo forte accento scozzese confermò i pensieri di Cass. Però fu sorpresa dal tono brioso e disponibile della voce di quell'uomo e dal modo in cui aveva pronunciato il suo nome, un modo che aveva punzecchiato i suoi sentimenti congelati. Irritata, cercò di scacciare la sensazione. Quel tizio era fin troppo allegro e amichevole per i suoi gusti. Il suo obiettivo era fare quel che le avrebbero chiesto, limitando al minimo le interazioni con gli altri. Avrebbe curato le sue vere ferite in privato.

    «Sì, sono io.» Bene. Il tono piatto e freddo della sua voce riuscì a far svanire il sorriso dalle labbra del dottore. Se solo avesse potuto rintanarsi nella sua stanza e collassare sul letto sarebbe stata felice. Le doleva tutto il lato destro del corpo, sul quale poggiava sempre tutto il peso.

    «Flora McNeith, la fisioterapista che si occuperà di te, non è potuta venire a darti il benvenuto e mi ha chiesto di aiutarti a sistemarti» disse lui con espressione preoccupata. «Hai bisogno di una sedia a rotelle, o piuttosto di un paio di grucce?»

    «No. Riesco a camminare da sola. È correre il problema...» Si strinse nella giacca per proteggersi dal freddo che le pungeva il collo.

    La leggera risata che gli uscì dalla gola le diede subito ai nervi. «Capisco. Allora andiamo dentro, c'è un tempo da lupi» disse lui guardando il cielo. Un fiocco di neve gli cadde sul leggero velo di barba che gli copriva le guance.

    Doveva essere uno di quegli uomini che si rasavano ogni mattina, pensò Cass. Distolse lo sguardo e si concentrò sul vialetto acciottolato, dal quale la neve era stata meticolosamente spalata. Era più lungo di quanto avrebbe voluto, ma non si sarebbe arresa, anche se i tre gradini che portavano alla porta d'ingresso le apparivano ancora più minacciosi.

    Doveva solo trovare la forza, e di quella ne aveva in abbondanza. I soffici fiocchi di neve continuavano a cadere lenti. Fece un profondo respiro e si costrinse a mettere un piede davanti all'altro. Con un altro sospiro silenzioso si avviò verso l'entrata, con il dottor Sinclair al proprio fianco.

    Riuscì a superare i primi due gradini senza intoppi, ma poi la punta dello stivale si impigliò sull'ultimo gradino. Agitando le braccia in aria, Cass riuscì alla fine ad aggrapparsi con un grido alla lana del maglione del dottore. D'istinto aveva usato il braccio destro, ma se ne pentì immediatamente. Provò una fitta di dolore, ma non forte come quelle che aveva patito solo qualche settimana prima. Strinse i denti, cercando di rallentare la caduta con l'altro braccio.

    Ma invece che capitolare sui gradini, il suo corpo venne trattenuto da una montagna umana. Il dottore le cinse la vita e l'aiutò a mantenersi in equilibrio. Un profumo di pino e fumo di camino le invase le narici. Per qualche strano motivo lo trovò rassicurante.

    «Tranquilla, ti tengo io» le disse lui con voce profonda, sfiorandole l'orecchio con le labbra.

    Cass si irrigidì immediatamente, riacquistando l'equilibrio nonostante il panico. Si rifiutò di darlo a vedere, aveva già messo se stessa in imbarazzo fin troppo. Strinse le labbra. «Sto bene. Grazie.»

    Guardandolo, si sentì assalire da uno strano malessere, come se l'espressione preoccupata che gli intravedeva negli occhi non avesse niente a che fare con le sue condizioni fisiche, quasi che lui fosse in grado di vedere la vera fonte del suo dolore. Era una follia. Scacciò quel pensiero e si concentrò sul presente.

    Con un altro sospiro, Cass raccolse le forze ed entrò nell'enorme atrio.

    Non aveva nessuna intenzione di lasciare che lui vedesse quanto sforzo le occorresse per riuscire a camminare. Aveva sopportato ben di peggio. La parola debolezza non faceva parte del suo vocabolario. Da ragazza aveva imparato a proprie spese quanto fosse importante essere emotivamente forti.

    Comunque, quel breve contatto umano era stato piacevole.

    C'erano due enormi vasi pieni di rami di pino e bacche rosse ai lati del portone. Cass si guardò attorno ammirando il soffitto ad archi e l'imponente scalinata, ai piedi della quale giaceva un'altra pila di rami. Eccola lì, a trascorrere le feste in quello strano posto quando non avrebbe desiderato altro che tornare a casa. Avrebbe riacquistato la forza di braccio e gamba il più in fretta possibile, e se ne sarebbe tornata in America dove avrebbe potuto piangere il proprio lutto in pace.

    «Sicura di stare bene?» Il dottore le si avvicinò un po' troppo, come se temesse che potesse cadere di nuovo.

    «Sì.» La sua risposta risultò troppo secca e rimbombò nell'enorme ingresso. Se solo fosse riuscita a guadagnare la propria stanza prima di incominciare a zoppicare, avrebbe potuto fare qualcosa per mitigare il dolore pulsante che provava al braccio e alla gamba.

    «Mentre ti accompagno nella tua stanza lascia che ti mostri alcune cose. Qui c'è l'accettazione.» Indicò con una mano un locale da un lato dell'ingresso. «Louise, la mia segretaria amministrativa, e io abbiamo l'ufficio laggiù. Oggi non c'è neanche lei, quindi potrai compilare tutte le scartoffie domani mattina. Immagino tu sia piuttosto stanca ora.»

    Cass era sfinita. Il viaggio dalla Germania a Fort William e il percorso in macchina fino a lì erano stati estenuanti. Per quanto le piacesse credere il contrario, non si era ancora ripresa del tutto dall'incidente.

    «Qui c'è la sala da pranzo.» Attraversò l'ingresso e si fermò davanti a una grande porta aperta.

    Cass lo raggiunse. Nonostante la fatica, riuscì ad apprezzare il suo accento. Lo trovava stranamente calmante.

    La stanza che lui le stava mostrando era enorme. Il soffitto a cassettoni era finemente intagliato e al centro pendevano enormi candelabri in ferro battuto. Un enorme camino, sul quale erano appesi altri festoni, riempiva la parete opposta a quella in cui si trovavano loro. Le pareti erano in parte coperte da una boiserie, sulla quale erano appesi alcuni ritratti di uomini illustri incorniciati. Al centro della sala, una grande tavola, circondata da una corona di sedie abbinate, dava posto ad almeno venti commensali. Sul pavimento, un enorme tappeto orientale nei toni del blu. L'unica cosa fuori posto era la pila di rami verdi che giaceva per terra in un angolo, circondata da alcune scatole.

    Lui doveva aver notato la direzione del suo sguardo. «Non far caso al disordine. Stiamo preparando gli addobbi natalizi.»

    Cass fece finta di non sentire. Le feste non sarebbero di certo riuscite a guarire il suo cuore spezzato.

    Il dottor Sinclair proseguì. «I pasti vengono tutti serviti qui, a meno che per qualche ragione gli ospiti non siano in grado di unirsi a noi. Per la cena è preferibile un abbigliamento adeguato. È alle sette.»

    «In che senso adeguato? Serve l'abito da sera?»

    Ridendo, lui scosse il capo. «No. È un modo per dire che non ammettiamo le tute da ginnastica. L'idea è di fare in modo che gli ospiti abbiano uno stimolo per prendersi cura di sé e vestirsi. Come un momento speciale da aspettare a fine giornata. Il nostro motto qui è: Se non lo usi lo perdi

    Lei lo guardò. Doveva ammetterlo, era davvero affascinante. «Cioè?»

    «Allacciare un bottone, passare una brocca d'acqua, maneggiare una forchetta...» Si voltò verso la sala centrale.

    «Io non ho nessun problema di questo tipo. Perché devo farlo?» lo raggiunse.

    «Perché teniamo molto che i nostri ospiti si sentano come parte di una grande famiglia» rispose lui, voltandole le spalle e avviandosi.

    Non le interessava minimamente far parte di nessuna famiglia. Non voleva altro che del tempo per sé per poter pensare al futuro e decidere cosa fare della propria vita. E a come liberarsi della massa di sentimenti che le stava consumando l'anima. Avrebbe potuto continuare a lavorare in un'unità cinofila? Magari con un altro cane? Avrebbe potuto fidarsi di nuovo di un uomo?

    Forse sarebbe stato sufficiente non farsi vedere in giro all'ora di cena. Quel luogo sembrava più una prigione che una clinica. «Ehi, ti dispiacerebbe dirmi perché sono stata mandata qui?»

    Quello richiamò la sua attenzione. «Perché tu possa recuperare la tua mobilità.»

    «Lo so. Ma perché proprio qui? Non potevo andare in una clinica in America? Cos'è che rende questo posto così speciale?»

    Lui si infilò le mani nelle tasche. «Da quel che ho capito il tuo ortopedico è convinto che questa sia la clinica che fa per te.»

    Lei fece un passo verso di lui, perforandolo con lo sguardo. «E cosa lo ha portato a credere ciò?»

    Il dottor Sinclair spostò il peso da un piede all'altro, sollevando il mento. «Non sono sicuro di cosa tu stia cercando, ma i nostri pazienti hanno un tasso di guarigione altissimo. E per guarigione intendo un recupero olistico. Le nostra è una struttura all'avanguardia e l'atmosfera accogliente favorisce il recupero...» agitò una mano nell'aria, indicando il castello. «... e poi la nostra dog therapy si è dimostrata fondamentale nel velocizzare la guarigione. Sei più tranquilla così?»

    Dog therapy. Cass fece un passo indietro, con un nodo in gola. Non poteva affrontarlo. Non adesso. Era troppo presto, da quando aveva perso il suo fedele compagno, Rufus. «Non sono interessata alla dog therapy

    Il suo pastore tedesco era stato il suo partner per quattro anni. Lo aveva con sé da quand'era un cucciolo. Si erano addestrati insieme alla scuola di ricerca e soccorso in California. Loro due si capivano alla perfezione. Si fidavano l'uno dell'altro.

    E adesso lui non c'era più. Nonostante fosse solo un cane, il dolore per la sua perdita era molto più forte di quello che aveva provato per le ossa rotte, o per il suo ex fidanzato che non l'aveva ritenuta all'altezza della loro relazione. Lei e Rufus erano stati in giro per il mondo insieme, nelle zone disastrate che la maggior parte della gente in genere vedeva solo al telegiornale, sorseggiando il caffè del mattino. Come unità cinofila di soccorso, avevano preso parte a tragedie che non avrebbe mai augurato a nessuno. Il suo cuore adesso era colmo di gratitudine e senso di colpa, in egual misura.

    Si sentì addosso lo sguardo del dottore e si concentrò sulla sua espressione bonaria. Lui si voltò e si avviò lungo un corridoio sulla sinistra. «Da questa parte ci sono gli ascensori.»

    Cass guardò le scale con sollievo e lo seguì, stando attenta a non commettere altri passi falsi come quello che l'aveva quasi fatta cadere all'ingresso.

    Lui si girò a guardarla. «Man mano che i nostri ospiti migliorano, usano le scale il più possibile.»

    Cass

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