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Il bacio della spia
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E-book236 pagine3 ore

Il bacio della spia

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Info su questo ebook

Inghilterra, 1820.
La fama di impenitente e frivolo libertino è per Jack Warriner solo una copertura: in realtà lui è una spia del governo che sta indagando su un traffico di merce di contrabbando. Per dare una svolta risolutiva alle indagini, a Jack viene affidato il compito di sedurre Miss Felicity Blunt, nipote di Lord Rowley, su cui si concentrano tutti i sospetti. L'ingenua e timida debuttante si rivela in realtà una giovane determinata e combattiva, che non accetta di cedere alle lusinghe di un uomo che reputa superficiale e inaffidabile. Le schermaglie fra i due si susseguono, mentre il confine tra realtà e finzione diventa per Jack sempre più labile. Tanto che quando Felicity si trova in serio pericolo, lui è costretto a scegliere fra mantenere la copertura o salvare la donna che ama.
LinguaItaliano
Data di uscita20 set 2018
ISBN9788858987261
Il bacio della spia

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    Anteprima del libro

    Il bacio della spia - Virginia Heath

    successivo.

    Prologo

    Markham Manor, febbraio 1803

    «Perché non andiamo a passeggiare nel frutteto, mamma?»

    Jake la tirò per la mano, sperando che smettesse di fissare il fiume. Era abituato a vederla così malinconica e distante e scendevano spesso lungo quel sentiero nella loro passeggiata quotidiana, ma lo inquietava la vista dell'acqua alta e agitata dopo una settimana di pioggia.

    «Quando ero giovane, Jake, eravamo soliti passeggiare lungo il Tamigi, a Putney. A volte mio padre ci portava in barca, ma più spesso facevamo un picnic sulla riva. Amava sfuggire alla folla di Londra e godersi qualche ora lungo quel bel tratto del fiume.»

    Se non altro stava parlando, anche se per rievocare il passato; era un netto miglioramento rispetto al doloroso silenzio che aveva sopportato nelle ultime due ore.

    Ma era sempre così dopo che i suoi genitori avevano litigato, cosa che facevano con la stessa regolarità con cui il sole sorgeva al mattino e tramontava la sera. I suoi fratelli maggiori, Jack e Jamie, dicevano che era meglio lasciarli soli dopo un litigio, e Jake sapeva che probabilmente avevano ragione. Ma la sua stanza era accanto a quella della madre e lui non poteva fare a meno di sentire i violenti alterchi dei genitori. Le urla rabbiose e le parole piene di disprezzo della madre, la voce alterata dall'alcol del padre, i brevi e terrificanti accessi di violenza da parte di entrambi e poi lo sconcertante silenzio, interrotto solo da sussurri, risate intime e l'inevitabile cigolio del letto. Poco dopo, quando suo padre se ne andava a cercare altro brandy, whisky o qualsiasi liquore economico fosse riuscito a procurarsi, si udivano altre parole crudeli, seguite dalle lacrime della madre. Era così difficile dormire, allora. Nella sua ingenuità infantile, Jake desiderava renderla felice, anche se sapeva che era impossibile. La felicità di sua madre rimaneva nel passato, molto prima che incontrasse suo padre e, come un'ingenua, lo sposasse.

    A volte le piaceva che Joe le leggesse qualcosa, ma Jake, anche se aveva solo un anno meno del fratello, faticava ancora nella lettura e sua madre diventava impaziente quando inciampava nelle parole. Jamie le strappava qualche raro sorriso facendo per lei bellissimi dipinti, anche se lo faceva sempre meno spesso perché diceva che era egoista e troppo dedita ad autocompatirsi. Jack, il maggiore, la salvava dalle peggiori violenze del padre durante il giorno, prendendo le botte al posto suo, e si assumeva il peso delle cure parentali perché entrambi i genitori si disinteressavano dei figli. Le uniche cose in cui Jake eccelleva erano nel farla ridere o nel tenerle compagnia, ascoltando i ripetuti racconti sulla vita precedente, quando era stata felice.

    «Parlatemi di Londra, mamma.»

    Come aveva sperato, vide accendersi una luce negli occhi solitamente spenti. «È una città grandiosa, Jake. Così vibrante di vita ed eccitante. Ogni sera c'è un ballo o un ricevimento e il mio caro papà si assicurava che avessi sempre gli abiti adatti. Erano tutti all'ultima moda e se ne parlava spesso nelle colonne dei giornali dedicate agli eventi mondani. I balli erano i miei preferiti. Ero famosa per la mia grazia e per la mia bellezza...» Sospirò e chiuse gli occhi, come se rivivesse quei tempi. «Era la sensazione più bella, Jake, volteggiare al tempo della musica e sentirmi adorata dal fortunato gentiluomo al quale avevo concesso un ballo...»

    Jamie l'accusava spesso di essere anche vanitosa e di preferire passare le ore ad acconciarsi i capelli per la cena piuttosto che trascorrere del tempo con i figli, che era come se non esistessero per lei. Dentro di sé Jake gli dava ragione, ma nello stesso tempo si sentiva in colpa, perché la madre era sempre così triste che era un bene provasse piacere nel farsi bella.

    «È lì che ho incontrato vostro padre. Senza aspettare che venissimo presentati, scrisse il suo nome sul mio carnet. Era un ballerino meraviglioso ed era così bello.» Due delle poche cose positive che si potessero dire di lui.

    Riaprì gli occhi e fu come se vedesse Jake per la prima volta da un'ora. Gli sorrise e gli posò la mano sulla guancia. Uno dei rari momenti di affetto in una casa che ne era priva. «Tu sei quello che gli assomiglia di più, sai? Hai il suo sorriso e la sua abilità con le parole.» Dato che le parole di suo padre erano sempre confuse dall'alcol, quel paragone non gli fece molto piacere, ma Jake non disse nulla, perché almeno in quel momento lei lo vedeva. «Anche lui era un incantatore, proprio come te... Temo che crescendo sarai identico a lui. Hai ereditato il suo sangue cattivo.» Fece scivolare la mano lungo il fianco e la sua espressione s'incupì. Distolse lo sguardo per fissarlo nel vuoto, come se fosse delusa da lui perché assomigliava tanto al padre. Jake odiava quello sguardo freddo e spento.

    «Vai a chiamarlo, Jake.»

    «Non ora, mamma, è ancora presto.» Le due del pomeriggio erano praticamente l'alba per i criteri di suo padre. «Lasciatelo dormire un po' più a lungo. Ditemi di più sui picnic a Putney.»

    «No, Jacob! Vai subito a chiamarlo.»

    Non aveva mai capito come fosse possibile che odiasse e allo stesso tempo amasse il marito. Come potevano coesistere quei sentimenti opposti? Jake amava i suoi fratelli e, anche se a volte lo irritavano, non li odiava mai. Joe diceva che l'amore tra uomini e donne era del tutto diverso dall'amore fraterno. Se era vero, allora lui non voleva saperne di un amore così distruttivo. Odiava le discussioni e il malumore. Preferiva il divertimento e l'allegria alle lacrime e agli scoppi d'ira.

    «Andiamo nel frutteto, invece.» Lontano dall'acqua agitata e pericolosa che lei continuava a fissare.

    «No. Voglio mio marito. Vai a chiamarlo. Digli che mi butterò nel fiume, se non viene!»

    Sempre la solita minaccia. Pur di ottenere quello che voleva, minacciava di togliersi la vita nel modo che aveva a portata di mano. Il giorno prima aveva minacciato di pugnalarsi al cuore con le forbici, la settimana precedente di gettarsi sotto una carrozza. Non ci aveva mai provato, ma il marito accorreva sempre, dopo che Jake aveva pagato il prezzo della sua collera per essere stato svegliato quando la testa gli martellava ancora per l'alcol. Si precipitava dalla sua donna e i due si accapigliavano di nuovo come due gatti selvatici, finché non si ritiravano in camera da letto.

    Sapendo che la madre avrebbe attaccato un lamento teatrale se avesse rifiutato, Jake annuì, nonostante il rischio di ricevere un pugno dal padre. Resistere era inutile. Era così che andavano le cose. I suoi genitori si odiavano e nello stesso tempo non potevano fare a meno uno dell'altra. Il sentimento che li legava era così potente da escludere chiunque altro dal loro inferno personale.

    Con i piedi pesanti, si trascinò verso casa, cercando di pensare a qualcosa di piacevole, alla leggerezza e all'allegria di cui avrebbe goduto un giorno, ma che non esistevano nella sua miserabile infanzia. Feste, balli, donne eleganti, gite in barca e picnic al sole...

    Invece di andare a chiamare il padre, sedette a fantasticare e si attardò abbastanza a lungo da rendere credibile la bugia di non essere riuscito a svegliare il genitore. A volte funzionava e la madre rientrava in casa. Altre volte se la prendeva con Jake, dicendogli che era inutile come suo padre, ma almeno serviva a ritardare l'inevitabile.

    Con un sospiro, si alzò e tornò nel punto in cui l'aveva lasciata. Appena lei lo vide emergere dagli alberi, si voltò e sorrise, poi si gettò dalla riva nell'acqua vorticosa.

    Per un istante Jake restò congelato sul posto, ma poi realizzò la gravità della situazione. Sua madre aveva messo in atto la minaccia e lui non era andato a chiamare il padre. Nonostante tutti i suoi difetti, era un uomo forte e poteva salvarla. Ora, invece, c'era solo lui, il più piccolo e inutile dei Warriner.

    Corse verso la sponda del fiume chiamandola. Una volta arrivato, si lasciò cadere sul ventre tendendo il braccio. «Mamma! Prendete la mia mano!» Ma lei era troppo lontana perché potesse raggiungerla. Aggrappata ai rami sporgenti di un salice piangente, con il fiume che spumeggiava e creava gorghi tutt'intorno, era scossa da violenti colpi di tosse mentre l'acqua le entrava nei polmoni.

    Jake corse all'albero, gridando aiuto. «Jack! Jamie! Venite, presto!»

    I due fratelli maggiori erano da qualche parte a lavorare nei campi, perché la maggior parte della manodopera se n'era andata molto tempo prima. Non aveva idea di dove fosse Joe, ma avrebbe voluto che fosse lì anche lui. Joe era intelligente e avrebbe trovato la soluzione giusta, mentre lui non sapeva che cosa fare. In preda alla disperazione, si aggrappò al robusto tronco e si sporse per quanto osava, sapendo che, se fosse caduto in acqua, la corrente l'avrebbe trascinato e sarebbero morti entrambi.

    «Dovete prendere la mia mano, mamma!» Calde lacrime gli rigavano le guance. Lacrime di colpa, di terrore e di vergogna per non essere capace di salvarla e per essere troppo egoista per sacrificarsi. «Vi prego!»

    Le gonne lunghe e il soprabito invernale l'appesantivano come un'ancora. Jake riusciva a vederlo, così come poteva vedere la paura negli occhi della madre, poco prima che l'acqua la sommergesse. Riuscì a riemergere a stento. Solo la testa era visibile mentre annaspava in cerca d'aria, ma i suoi occhi lo cercarono e, sotto il terrore, Jake vi vide la delusione perché anche lui aveva fallito, come aveva fatto tante volte suo padre. In quel momento, si rese conto che non aveva mai avuto intenzione di morire.

    «Prendete la mia mano... vi prego!» Le dita gelate stavano perdendo la presa sui rami scivolosi, la corrente era rapida e ogni ondata si sollevava sempre più in alto, mentre lei lottava per stare a galla. Ben presto le mani sparirono sott'acqua, poi il viso e tutto quello che Jake poté vedere fu un turbinio confuso di gonne verdi che fluttuavano come alghe tra i rami del salice.

    Non poté distogliere gli occhi da quella vista terribile nemmeno quando udì un rumore di passi affrettati alle sue spalle e rimase a guardare impotente i due fratelli maggiori che rischiavano la vita per cercare di salvarla. Joe arrivò subito dopo e rimase indietro pietrificato, con il volto pallido per il terrore. Sembrava una statua per la sua fissa immobilità.

    Sotto gli occhi allibiti di Jake si consumò la tragedia.

    Jack, il maggiore, immerso nell'acqua fino alla vita, che cercava di afferrare la madre, mentre stringeva saldamente la mano di Jamie, che era rimasto a riva.

    Jack che trasportava il corpo esamine e inzaccherato sulla riva.

    Jamie che la posava a terra e cercava di rianimarla. I rigurgiti d'acqua che le uscivano dalla bocca a ogni pressione sullo sterno. I penosi minuti che trascorsero prima che portasse l'orecchio al suo petto e scuotesse il capo.

    La voce implorante di Joe. «Dobbiamo salvarla. Ci deve pur essere qualcosa che possiamo fare?»

    Il braccio del fratello maggiore attorno alle sue spalle. Non gli offriva frasi fatte o false speranze, ma gli trasmetteva solo la sua forza, e Jake vi si aggrappò.

    «È tutta colpa mia.»

    «No, non è vero. Hai fatto quello che potevi.»

    Ma non era mai abbastanza.

    Gli occhi senza vita della madre che lo guardavano dal fango. Quell'ultimo sguardo gelido perso nel vuoto. Per sempre colmo di delusione.

    1

    Mayfair, studio di Lord Fennimore, una sera molto umida di febbraio, 1820

    Grazie all'ottimo porto, al calore confortevole del fuoco e a una notte praticamente in bianco, Jake faticava a tenere le palpebre aperte. Il Visconte Linford stava elencando le ultime partite di botti di brandy sequestrate lungo tutte le coste delle isole britanniche. O almeno era quello di cui parlava prima che la mente di Jake vagasse verso pascoli più verdi mentre ascoltava la sua voce soporifera.

    Come sempre, il visconte misurava il successo in numeri, all'apparenza ignaro del fatto che non faceva differenza quanti carichi avessero sequestrato gli uomini della dogana nell'ultimo mese rispetto al precedente. Quelle noiose statistiche rappresentavano comunque una goccia nell'oceano in confronto ai carichi massicci che passavano ogni giorno sotto il loro naso, visto che l'intraprendenza dei contrabbandieri superava di gran lunga quella del disorganizzato Servizio Dogane e Accise. Chiunque fosse il misterioso Boss, la sua rete illegale si era dimostrata quasi impossibile da penetrare. I membri dei pochi equipaggi che riuscivano ad arrestare mantenevano le bocche sigillate e per ogni imbarcazione fermata, ne passavano altre venti.

    «Tutto questo va bene, ma possiamo far risalire qualcuno di quei barili a Crispin Rowley?» Il tono brusco di Lord Fennimore suggeriva che era annoiato quanto Jake dai discorsi del visconte.

    «Non esattamente.»

    «Non esattamente? Che risposta sarebbe? O abbiamo un collegamento riconducibile a quella canaglia o no.»

    «Sappiamo che una notevole quantità di quei barili era destinata alla capitale.»

    «E con questo?» Fennimore stava perdendo la pazienza. «Siamo nel bel mezzo della Stagione e in questo periodo Londra consuma più della sua giusta quota di brandy. È Rowley o uno dei suoi soci a rifornire la capitale?»

    «Non possiamo saperlo. Copre molto bene le sue tracce. Tuttavia, sappiamo tutti che è lui la fonte.»

    «Saperlo e provarlo sono due cose molto diverse. Il Procuratore generale non firmerà un mandato d'arresto a meno che non abbia prove tangibili del coinvolgimento di Rowley.» Qualcosa che non erano riusciti a ottenere nei sei mesi trascorsi da quando Crispin Rowley aveva cominciato a essere sospettato dalla King's Elite, una squadra di agenti segreti altamente qualificati, creata per infiltrarsi e abbattere le potenti organizzazioni che gestivano i traffici di contrabbando, minacciando la già sofferente economia della Gran Bretagna.

    Rowley sembrava collegato a un giro che si credeva finanziasse la parte residua dell'esercito francese rimasta fedele a Napoleone. Questo gruppo mirava a liberare l'ex imperatore dalla sua prigione a Sant'Elena e a riportarlo al potere, usando i fondi raccolti grazie al contrabbando del brandy sulle coste dello stesso nemico che l'aveva sconfitto. Al timone dell'operazione c'era un solo uomo senza volto, potente e irreperibile, conosciuto come il Boss. Fino a diecimila galloni al mese di liquore importato illegalmente entravano nel mercato del sud-est del paese senza pagare il dazio e i profitti andavano ai ribelli francesi.

    Ma quel giro di contrabbando non riforniva solo la capitale. Tutte le grandi città della Gran Bretagna potevano usufruire di liquore a basso prezzo al punto che il traffico illecito stava mettendo in ginocchio il mercato legale. Ancora più preoccupante era il fondato sospetto che i tentacoli del gruppo fossero saldamente insinuati tra le fila dell'aristocrazia britannica. Uomini con il potere, le conoscenze e i mezzi indispensabili per garantire una distribuzione capillare delle merci. Lord Crispin Rowley era il primo e unico nome che avessero in mano di quella lista pericolosa.

    Per il momento avevano solo la poco affidabile parola di un agente doppiogiochista francese, che fino a poco tempo prima era stato fedele a Bonaparte per poi passare all'improvviso dall'altra parte. Dopo la frettolosa fuga dalla Francia, l'uomo aveva chiesto asilo in Gran Bretagna ed era troppo terrorizzato per uscire dal nascondiglio che Lord Fennimore gli aveva fornito, nel timore che gli ex compagni lo inseguissero e lo uccidessero come avevano fatto con tanti altri informatori.

    Per quanto nessuno si fidasse della parola di quell'uomo, c'erano molte cose che non convincevano riguardo a Lord Crispin Rowley e che avevano fatto suonare un campanello d'allarme nell'intuitivo Lord Fennimore. Solo tre anni prima Rowley era sull'orlo della bancarotta. I contratti governativi di cui aveva goduto durante gli anni della guerra per fornire grano all'esercito britannico erano stati cancellati dopo Waterloo. Ritrovatosi senza mercato per il grano e a causa del crollo dei prezzi, Rowley aveva sofferto gravemente, come gran parte dell'aristocrazia terriera, e aveva perso fiducia nella Corona, incolpando il governo di mancanza di lealtà verso coloro che avevano aiutato il paese a vincere la guerra.

    Crispin Rowley non era l'unico Pari del regno che si fosse rivoltato contro il governo. Altri si sentivano traditi e davano voce alle loro critiche. Se Jake provava una certa comprensione per questi uomini per il modo in cui erano stati trattati, era anche realista. Il mondo stava cambiando in fretta e per sopravvivere l'aristocrazia doveva imparare a adattarsi. La terra da sola non bastava più a garantire una fortuna, quando mulini, miniere e colonie si dimostravano più redditizi per gli investitori dotati di denaro contante e il grano straniero a basso costo si riversava nei porti inglesi.

    Rowley, come molti suoi simili, sembrava condannato. I campi erano rimasti incolti, i braccianti erano stati licenziati e i creditori si affollavano alla sua porta. Poi, senza un motivo apparente, diciotto mesi prima la sua fortuna era miracolosamente cambiata. Gli ingenti debiti accumulati erano stati saldati in contanti e ora quello che era stato un nobile impoverito spadroneggiava in tutta la capitale.

    Tutt'a un tratto aveva iniziato a frequentare persone ricche e potenti. Banchieri, armatori, duchi e principi stranieri godevano della generosa ospitalità di Rowley e, se le loro informazioni erano corrette, pareva che non ci fossero motivi reconditi nella magnanimità dell'uomo. Non era proprietario delle varie attività in cui investiva, preferendo cimentarsi con azioni e quote, come gran parte dei nuovi ricchi. A tutti gli effetti era solo un investitore, eppure l'agente francese era stato perentorio nel sostenere che la fortuna di Rowley era strettamente legata al contrabbando, essendo il principale distributore nel sud-est dell'Inghilterra.

    «Quindi abbiamo imboccato un altro vicolo cieco!» Seb Leatham, amico di Jake ed ex compagno di Cambridge, si accasciò sulla sedia e scosse il capo. «Continuiamo a gettare fango contro quell'uomo e non gli rimane attaccato niente! Ci deve pur essere una crepa nella sua armatura.» Lui e i suoi uomini, un gruppo chiamato gli Invisibili, avevano tenuto d'occhio ogni movimento di Rowley negli ultimi mesi e la leggendaria pazienza di Seb si stava esaurendo.

    «Se c'è, non l'ho ancora trovata.» Lord Peter Flint sospirò dal suo posto all'altro

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