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Sete di vendetta (eLit): eLit
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E-book334 pagine4 ore

Sete di vendetta (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Cat Dupree 2

A tredici anni, Cat Dupree ha giurato a se stessa di trovare l'uomo che le ha distrutto la famiglia: Solomon Tutuola. Divenuta una cacciatrice di taglie, non permette a nulla e a nessuno di frapporsi fra lei e la sua letale promessa. Neppure al suo amante, Wilson McKay.
Lui non ha mai incontrato una donna forte e determinata come Cat. Per Wilson è stato un vero colpo di fulmine, ma lei non ha bisogno di un uomo innamorato. Non ora che la vendetta è ormai vicina. Anche se questo significa uccidere non solo Tutuola, ma anche una parte di se stessa...

Un criminale spietato in fuga.
Una donna assetata di vendetta sulle sue tracce.
Una storia che vi lascerà senza via di fuga.
LinguaItaliano
Data di uscita30 giu 2015
ISBN9788858935897
Sete di vendetta (eLit): eLit
Autore

Sharon Sala

"Ho cominciato a scrivere per me stessa racconta Sharon poi ho capito che le mie storie erano catartiche anche per chi le leggeva." Così, dopo una vita molto travagliata, ha conquistato le lettrici di tutto il mondo. "Perché il successo nasce dentro di noi."

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    Anteprima del libro

    Sete di vendetta (eLit) - Sharon Sala

    Immagine di copertina:

    gaiamoments / E+ / Getty Images

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    Cut Throat

    Mira Books

    © 2007 Sharon Sala

    Traduzione di Marina Boagno

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2010 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5893-589-7

    www.eHarmony.it

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

    Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    Prologo

    Nuevo Laredo, Messico

    I colpi d’arma da fuoco risuonavano attraverso le stanze vuote della casa abbandonata, dando così l’impressione che allo scontro partecipasse almeno una dozzina di persone, e non solamente i due uomini che si stavano sparando a vicenda in quello che un tempo era stato un lussuoso buen retiro.

    All’improvviso un proiettile perforò una vecchia e rugginosa bombola rimasta vicino al muro di mattoni del caminetto, incendiando la piccola quantità di gas che si trovava ancora all’interno.

    Il cacciatore di taglie Wilson McKay vide il lampo della fiammata un secondo prima che nella stanza si producesse un calore devastante. Scattò in piedi, e stava già correndo quando la violenta onda d’urto lo scaraventò attraverso la porta, facendolo cadere in ginocchio. Si rialzò in fretta e riprese a correre.

    Al momento dell’esplosione, Solomon Tutuola si era già accovacciato per ripararsi. La forza della detonazione lo sbalzò attraverso una finestra sul lato meridionale della casa.

    Un momento prima, lui e Mark Presley avevano ingaggiato una feroce sparatoria con un tizio più alto della media, con i capelli a spazzola e un orecchino... e pochi attimi dopo l’abitazione in cui avevano trovato rifugio stava andando in fumo.

    Per qualche secondo, Tutuola rimase sdraiato a faccia in su fissando il sole, completamente paralizzato dall’onda d’urto.

    Fece un breve respiro, poi un altro e poi ancora un altro. Improvvisamente un dolore lancinante lo costrinse a mettersi seduto, mentre lo stordimento lasciava il posto a un’atroce sofferenza. Gemendo, si rigirò sulle mani e sulle ginocchia e prese a trascinarsi lontano dalla casa in fiamme, scansando i detriti incandescenti, convinto che la pelle del suo viso si stesse fondendo.

    Non si era mai sentito tanto confuso e debole.

    Nonostante non fosse certo un uomo gracile e delicato, a un centinaio di metri dalla casa fu sopraffatto dalla sofferenza fisica e perse i sensi.

    Non ebbe quindi la possibilità di sapere che Mark Presley, l’uomo a cui aveva fatto da autista fino in Messico, era stato catturato e che i due cacciatori di taglie che gli erano alle calcagna se n’erano andati.

    Quando rinvenne, alcune ore più tardi, era ormai pomeriggio inoltrato e si sentiva peggio di quanto gli fosse mai capitato.

    Udì il rumore sommesso di un animale a quattro zampe che si aggirava prima intorno alla sua testa, e poi ai suoi piedi. Aprì gli occhi, inorridito nel vedere un coyote che gli annusava i talloni, mentre un terzetto di avvoltoi volteggiava in cerchio sopra di lui.

    Il ruggito tremendo e disperato che gli uscì dalla gola fece fuggire il coyote a gambe levate.

    Barcollando, Solomon riuscì a rimettersi in piedi e si guardò intorno, fissando dapprima le rovine fumanti della hacienda, poi, abbassando gli occhi, le proprie mani. La visione delle ferite lo aiutò a riacquisire, dopo lo spavento, la sua lucidità.

    Delle bolle si erano formate sulle scottature, e poi erano scoppiate, e il terriccio su cui era rimasto sdraiato si era attaccato alle piaghe.

    Tutto il suo corpo era ridotto a un fascio di terminazioni nervose ipersensibili e tremava per l’intensità del dolore. Solo quando provò a battere le palpebre si rese conto di non vedere alcunché dall’occhio sinistro, e quando si toccò quel lato del volto con un dito, urlò un’imprecazione.

    La carne che era venuta via dal punto in cui si era toccato era annerita e sanguinolenta e una zona della testa era completamente priva di capelli. Per quanto era in grado di capire, tutto il lato sinistro della sua faccia era rimasto gravemente ustionato. Aveva bisogno di un dottore, e anche in fretta.

    Se non fosse morto per il dolore, era maledettamente certo che sarebbe morto per un’infezione.

    Imprecando e urlando a ogni passo, Solomon raggiunse la sua auto. La chiave era ancora inserita nell’accensione e i bagagli di Mark Presley, una grande borsa da viaggio e un piccolo trolley, erano ancora al loro posto, sul sedile posteriore.

    Senza perdere tempo a chiedersi che cosa ne fosse stato di Mark, Solomon accese il motore e si diresse verso Nuevo Laredo.

    Prima di sera si trovava in ospedale, steso su un letto, del tutto inconsapevole di sé a causa dei forti sedativi somministrati.

    I bagagli erano chiusi nel baule della sua auto. Le chiavi erano in una tasca dei suoi pantaloni bruciacchiati, appesi nel minuscolo armadietto insieme a ciò che rimaneva della camicia che aveva indossato. A intervalli di pochi minuti, un’infermiera entrava nella stanza e controllava la soluzione salina contenente morfina che gli veniva iniettata, assicurandosi che non perdesse più liquidi di quanti gliene venissero somministrati.

    Sotto ogni punto di vista, Solomon Tutuola era in bilico tra la vita e la morte.

    1

    Sei settimane dopo. Dallas, Texas

    Il fievole pianto del bambino appena nato dei vicini si percepiva a stento dal punto in cui la cacciatrice di taglie Cat Dupree era seduta, eppure, per qualche ragione, era l’unico suono che riusciva a sentire.

    Aveva imparato a mettere a tacere il battito sordo del suo cuore e stava ignorando la sgradevole, deprimente sensazione ormai radicata in fondo al suo stomaco. Tutta la sua attenzione era concentrata sui manifesti dei ricercati affissi alle pareti del suo studio... oltre che sull’incessante vagito del neonato.

    Il suo computer portatile, appoggiato su un classificatore, vicino alla porta, mostrava una cartina del Messico. Il programma che stava usando riceveva un segnale GPS da qualcosa che per le trentasei ore precedenti aveva continuato a muoversi costantemente verso ovest. Era il suo peggior incubo che tornava in vita, eppure lei preferiva ignorarlo e concentrarsi sui manifesti.

    Dopo tutti quegli anni, i volti le erano diventati familiari quanto il suo, ma nessuna di quelle facce coincideva con quella dell’uomo che, fin dall’infanzia, aveva tormentato i suoi sogni. L’uomo che aveva ucciso suo padre e le aveva lasciato una ferita di quasi quindici centimetri alla base della gola. Lo stesso uomo che aveva incontrato solo qualche settimana prima e che era certa, maledettamente certa, che fosse finalmente morto.

    Scoccò un’occhiata nervosa al computer e trasalì. Ora non ne era più così sicura.

    Il vento scuoteva i vetri della finestra alle sue spalle, segno che un temporale stava per investire Dallas. Da lì a poco sarebbe cominciato a piovere, ma la temperatura rimaneva al di sopra dello zero, il che significava che non avrebbe comportato gelate o nevicate. Dopo la vera tormenta che aveva colpito la città a Natale, un semplice acquazzone poteva considerarsi una buona notizia.

    Un’altra folata di vento colpì la finestra e Cat rabbrividì. Si strinse le braccia intorno al corpo, benedicendo il riscaldamento centralizzato. Intanto la sua attenzione tornò al manifesto appeso sopra il vano della porta.

    Il manifesto di Justin Bailey, noto anche come Cane Pazzo, era il primo che aveva appeso, più di quindici anni prima.

    Lo aveva ritenuto degno di essere affisso in casa sua per il semplice fatto che Bailey aveva tatuaggi sparsi su tutto il viso e il corpo, uno dei segni distintivi dell’assassino di suo padre. Cat aveva capito immediatamente che non era lui l’uomo che stava cercando, ma doveva pur cominciare da qualche parte, sicché aveva appeso il manifesto.

    Si passò le dita tra i capelli. Aveva mal di testa e i muscoli del collo e della schiena erano dolorosamente contratti, ma non aveva importanza. Era stata la vendetta a condurla al punto in cui era giunta nella vita, e la vendetta era ciò di cui aveva bisogno.

    Il suo sguardo passò al manifesto seguente. Edward John Forrest. Edward era troppo giovane per essere l’autore dell’aggressione alla famiglia di Cat, ma lei si era sentita ugualmente tenuta ad affiggere le sue foto. Era cominciato tutto così. Nel corso degli anni aveva messo insieme una notevole collezione.

    Mentre guardava i poster, Cat si accorse che il bambino dei vicini aveva smesso di piangere. Forse qualcuno gli aveva ficcato un biberon in bocca, oppure si era arreso e si era addormentato.

    Il silenzio che si era creato, però, era stranamente sgradevole. Infatti non c’era più nulla a distogliere la sua attenzione da quel maledetto computer e dalla mappa sullo schermo.

    Irritata per la sua scarsa forza di volontà, Cat diede un’altra occhiata al monitor, socchiudendo leggermente gli occhi per difenderli dal riflesso di luce sullo schermo, che rendeva sfuocata la mappa sulla quale il segnale continuava a muoversi. Anche se non riusciva a vederlo distintamente, Cat sapeva dove si trovava.

    Era in Messico... il luogo dove lei aveva catturato l’assassino della sua migliore amica.

    Tornò a guardare i manifesti che coprivano le pareti dello studio. Dopo quanto era avvenuto in Messico, alcuni erano diventati superflui, poiché Cat aveva chiuso i conti non solo con l’assassino di Marsha, ma anche con l’ossessione della sua vita, l’uomo tatuato a cui aveva dato la caccia finora senza mai un cedimento.

    Il suo nome era Solomon Tutuola. E mentre, per la terza volta nella sua vita, Cat era riuscita inopinatamente a sopravvivere, aveva considerato certa la morte di Solomon. Poi quel maledetto segnale GPS era riapparso, insinuandole il sospetto di essersi sbagliata.

    Con un senso di sconfitta, si diresse lentamente verso la porta, poi si fermò sotto il manifesto di Cane Pazzo e alzò una mano per toccarlo. La carta scricchiolò quando fece scivolare un’unghia sotto il bordo.

    Inspiegabilmente, esitò, scoprendo che rimuovere quel manifesto era assai più difficile di quanto fosse stato appenderlo.

    Alla fine lo tirò giù e lo gettò nella spazzatura. Poi passò al successivo. A uno a uno li staccò tutti fino a che le pareti furono completamente nude, e il cestino delle cartacce traboccante. Lo svuotò e cominciò a ficcare in un sacco il cumulo di manifesti che era finito sul pavimento.

    Ci volle quasi un’ora per portare a termine quel lavoro e, solo dopo aver finito, Cat si concesse un’altra occhiata al computer. Il blip non si muoveva più. Chiunque stesse portando con sé l’oggetto che conteneva la cimice, che trasmetteva il segnale evidenziato sul monitor, aveva deciso di fermarsi per la notte.

    Cat sorrise, acida. Quel bastardo riposava più di lei. Frustrata, si voltò a guardare i sacchi dell’immondizia che ingombravano il pavimento e sospirò. Quelle immagini avevano fatto parte della sua vita. Le sembrava strano non averne più bisogno.

    Il mese precedente aveva finalmente dato un nome al volto dell’uomo che aveva ucciso suo padre.

    Il mese precedente aveva guardato la casa in cui quell’uomo si nascondeva saltare in aria e andare a fuoco.

    Il mese precedente aveva avuto la certezza che quell’uomo era morto.

    Ora non ne era più così certa.

    Il segnale immobile era come una provocazione... Un messaggio tipo Vieni a prendermi, se ci riesci che Cat non poteva ignorare.

    Sospirò di nuovo.

    Era giunto il momento di andare a verificare se il diavolo era morto, o se, come lei temeva, era riuscito a resuscitare. Ma prima di lasciare di nuovo Dallas, doveva avvisare il suo capo, Art Ball. Art non poteva di certo lasciare in sospeso la sua attività per lei. C’era sempre qualcuno che, dopo che l’ufficio di Art gli aveva pagato la cauzione, se la svignava, e c’era sempre bisogno di qualcuno che lo andasse a riacchiappare. Semplicemente Cat non sarebbe stata quel qualcuno... almeno per un po’.

    E c’era anche Wilson McKay. Cat non sapeva bene che cosa fare, con lui. Rifiutava di ammettere che Wilson meritasse un qualche tipo di spiegazione riguardo a ciò che lei si accingeva a fare. Solo perché avevano fatto sesso... incredibile sesso... non significava che lei gli dovesse qualcosa. E il fatto che Wilson l’aveva aiutata a catturare Mark Presley, l’uomo che aveva ucciso Marsha Benton, non implicava che Cat fosse obbligata a tenerlo aggiornato sui suoi movimenti per il resto della vita.

    Una parte di lei era portata ad attribuire a Wilson la colpa della sua incertezza. Quando, giù in Messico, la casa dove Presley e Tutuola si erano nascosti era stata avvolta dalle fiamme, Cat aveva acciuffato Presley, ma poi avrebbe voluto tornare indietro per assicurarsi che Tutuola fosse deceduto.

    Ma Wilson l’aveva fermata.

    Il fatto che, se fosse rientrata nella casa incendiata, molto probabilmente sarebbe morta era irrilevante. Quando riusciva a essere onesta con se stessa, Cat vedeva bene che non c’era nessuno da incolpare, ma non avrebbe avuto pace fino a quando non avesse saputo con certezza se l’assassino di suo padre l’aveva scampata.

    Il mattino seguente avrebbe telefonato ad Art e poi sarebbe partita, diretta a sud. Doveva sapere chi c’era dietro quel segnale.

    Se si trattava di qualche messicano che aveva raccolto uno degli oggetti di Presley che conteneva una cimice, tanto meglio. Ma se era Tutuola, allora il suo lavoro non era ancora finito.

    Per quanto l’idea di un altro lungo viaggio la spaventasse, era contenta della sua decisione. Pochi momenti dopo, uscì dallo studio e andò in camera da letto a preparare i bagagli.

    Era passata quasi una settimana dall’ultima volta che Wilson McKay aveva visto Cat. Quando riusciva a pensare razionalmente, si diceva di lasciarla perdere. Era fin troppo chiaro che Cat non voleva nulla da lui, eccetto, occasionalmente, un po’ di sesso. Avrebbe dovuto essere contento di prendere ciò che lei gli dava, con un grazie e una pacca sul sedere.

    Con qualsiasi altra donna lo avrebbe fatto.

    Ma non con Cat. Lei gli si era insinuata sotto pelle come non era mai accaduto con nessun’altra, e per quanto l’istinto gli dicesse di lasciar perdere, semplicemente non poteva... la qual cosa spiegava perché in quel momento stesse andando a casa di Cat senza averla avvertita, con una pizza e una confezione da sei lattine di birra.

    Il traffico sulla tangenziale era intenso, ma nulla fuori dall’ordinario per un sabato sera piovoso a Dallas. L’odore dei peperoni gli solleticò il naso mentre imboccava l’uscita che conduceva al condominio di Cat, mentre il movimento regolare dei tergicristalli manteneva nitida la visuale attraverso il parabrezza.

    La radio era accesa su una stazione che trasmetteva musica country, il cui stile si accordava con l’umore di Wilson e con il brutto tempo.

    Aveva bisogno di una dose di Cat... come minimo una lunga sessione di baci e carezze, ma preferibilmente una lunghissima notte con quella gatta selvatica tra le braccia. Il solo pensiero del piacere che avrebbe provato affondando dentro di lei lo faceva spasimare di desiderio. Tra le lenzuola, Cat era scatenata. Ricambiava sempre tutto ciò che riceveva. Wilson non era ancora riuscito a capire come una donna capace di una tale passione a letto potesse comportarsi in modo così freddo e distante con tutti. Sospettava che la spiegazione avesse a che fare con ciò che le era capitato quando era solo una ragazzina. E quella era la ragione per cui Wilson non aveva intenzione di mollare con lei... non ancora.

    La luce dei fari delle auto si rifrangeva nelle gocce di pioggia, dando alle strade immerse nella notte un aspetto quasi spettrale. Wilson pregustava il tepore che lo attendeva nel confortevole appartamento di Cat e si rifiutò di prendere in considerazione l’idea che la sua accoglienza potesse non essere altrettanto calorosa.

    Quando entrò nel posteggio e fece il giro dell’edificio in cerca di un posto libero, notò che le luci erano accese nell’appartamento di Cat. Era il momento cruciale. Lei era in casa, ma lo avrebbe fatto entrare o lo avrebbe cacciato via con una parola tagliente e un’occhiata ostile dei suoi freddi occhi azzurri?

    Posteggiò, prese pizza e birre, e si diresse alla porta. Avrebbe saputo molto presto quanto caldo sarebbe stato il benvenuto.

    Cat era carponi in fondo alla cabina armadio in cerca dello stivale che faceva il paio con quello che aveva già messo accanto alla valigia, quando le parve di udire il campanello della porta. Perplessa, si appoggiò sui talloni e rimase in ascolto.

    Ecco!

    Questa volta sentì chiaramente il campanello e aggrottò le sopracciglia.

    «Ma chi diav...»

    Wilson.

    Non aveva alcun dubbio che si trattasse di Wilson McKay. Era l’unica persona che andava a trovarla, e anche l’unica che si sarebbe presentata senza dare prima un colpo di telefono... con ogni probabilità perché si rendeva conto che, se avesse saputo della sua venuta, lei non avrebbe aperto la porta. In effetti, fu sul punto di farlo, tuttavia, ignorando l’istinto che le suggeriva di lasciarlo là fuori, andò in soggiorno, odiandosi per l’ondata di eccitazione che provava.

    In realtà non aveva proprio tempo per quel genere di cose, ma fingere di non essere in casa avrebbe potuto insospettirlo più che farlo semplicemente entrare e sbarazzarsene quanto prima possibile.

    O almeno, questo era ciò che Cat si stava dicendo quando fu di fronte alla porta d’ingresso Una rapida occhiata dallo spioncino le bastò a confermare la sua supposizione. Era proprio Wilson... e provò disgusto di se stessa nel notare come il solo vederlo facesse impazzire il suo battito cardiaco.

    «Ciao» disse, aprendo la porta.

    Wilson tirò un sospiro di sollievo. Cat era di buon umore.

    «Ciao a te» rispose, e prima che lei potesse schivarlo, si chinò e la baciò sulla bocca.

    Gli occhi di Cat lampeggiavano, quando si rialzò. Non avrebbe saputo dire se era irritata o soddisfatta per la passione che aveva messo nel bacio.

    «Hai già mangiato?» le chiese, porgendole la pizza.

    Cat inspirò profondamente, sorpresa di scoprirsi affamata.

    «No, e solo per questa ragione, puoi entrare» rispose.

    Prese la scatola della pizza dalle mani di Wilson e andò in cucina, certa che lui l’avrebbe seguita.

    «Avrei dovuto telefonare» ammise Wilson, deponendo la confezione di birre sul piano di lavoro.

    Cat posò la scatola della pizza e si voltò a guardarlo.

    «Perché non lo hai fatto?»

    Lui si strinse nelle spalle. Fino a quel momento della sua vita, la verità gli aveva sempre giovato. Tanto valeva continuare su quella linea.

    «Pensavo che mi avresti detto di no.»

    Cat corrugò le sopracciglia. Non si aspettava quella sincerità, l’aveva colta di sorpresa. Ora non poteva far altro che rispondere a tono.

    «Avresti indovinato.»

    Nonostante una fitta di delusione, Wilson sorrise e si strinse nelle spalle.

    «Così ho risparmiato a entrambi un po’ di sensi di colpa e di imbarazzo. La birra la vuoi in un bicchiere, o la bevi direttamente dalla lattina?»

    Cat pensò al viaggio che l’aspettava, e decise di evitare qualunque tipo di alcolico. Senza rispondere, porse a Wilson un bicchiere, poi ne riempì uno per sé con Pepsi e ghiaccio e tirò fuori due piatti.

    Wilson strappò dal rotolo della carta da cucina due fogli da usare come tovaglioli e poi prese un dispenser di scaglie di peperoncino rosso dall’armadietto delle spezie.

    Cat era combattuta fra l’ammirazione per l’aspetto decisamente attraente di Wilson e la curiosità per l’intrigante, minuscolo cerchietto d’oro che portava al lobo sinistro. Come al solito, i suoi capelli non rispettavano alcuna pettinatura definita. Aveva un taglio a spazzola che dava sempre l’impressione di aver bisogno di una regolata. Sotto l’occhio destro c’era una piccola cicatrice, e il naso presentava gobbe a sufficienza per rivelare che si era rotto più di una volta. Le spalle erano larghe, le gambe lunghe e muscolose, l’addome saldo e piatto.

    Cat conosceva perfettamente l’invidiabile forma fisica del corpo di Wilson, sotto i jeans e il giubbotto di pelle, e stava pensando a ciò che sarebbe accaduto più tardi... dopo la pizza e la birra. Non avrebbe mentito a se stessa, fingendo di non desiderarlo. Lo desiderava. Avrebbero fatto sesso. Wilson McKay era dannatamente bravo e lei non era certo una stupida.

    Nessuna donna sana di mente, single e con del sangue nelle vene, avrebbe rifiutato un ruzzolone nel fieno con un uomo che sprizzava sex appeal da tutti i pori come Wilson McKay. Ma, nel momento stesso in cui pensò di fare l’amore con lui, ricordò la valigia preparata per metà e il disordine in camera da letto.

    Diavolo.

    «Mmh...Wilson... siediti e comincia pure. Torno subito.»

    Cat si fiondò fuori dalla cucina e lungo il corridoio senza guardare indietro. In camera, ficcò di nuovo alcuni indumenti nei cassetti, gettò il resto in fondo alla cabina armadio e fece scomparire la valigia sotto il letto. Diede un paio di strattoni al copriletto per eliminare le grinze e tornò in cucina.

    Wilson era ancora in piedi nello stesso punto in cui lo aveva lasciato. Sembrava perplesso.

    «Stai bene?» chiese.

    «Chi? Io? Sì... benissimo» borbottò lei. Si incollò un grande sorriso sul volto, prese una fetta di pizza dalla scatola e vi diede un morso. «Mmh.»

    Wilson inarcò un sopracciglio.

    «Mmh?»

    «Prendine una fetta» lo invitò Cat, indicando la scatola.

    Wilson aveva capito che stava succedendo qualcosa, ma era chiaro che Cat non aveva alcuna intenzione di parlarne. Alla fine represse la sua curiosità e si sedette. Agguantò una fetta di pizza e diede un morso.

    «Sì, hai ragione» disse, e con la fetta di pizza fece il gesto di brindare in direzione di Cat. «Mmh» convenne, e mangiò un altro boccone.

    Lei si sforzò di sorridere. Quando voleva, Wilson McKay riusciva a essere davvero intrigante... persino accattivante. Ma, nel mondo di Cat, vigevano alcune regole certe che lui tentava in continuazione di infrangere.

    Finirono la pizza senza iniziare una vera conversazione, Quando cominciarono a riordinare, Wilson si assentò per andare in bagno. Fu tornando in cucina, mentre percorreva il corridoio, che sbirciò casualmente nello studio di Cat, e vide le pareti nude.

    Stupefatto, si fermò davanti alla porta e poi entrò.

    Ricordava lo studio com’era prima, con i muri tappezzati di manifesti di ricercati. Ora, restavano solo le pareti nude marchiate dai segni lasciati dalle puntine da disegno, e lui sapeva che cosa significava. Per un bizzarro scherzo del destino, inseguendo l’assassino della sua migliora amica, Cat ne aveva scovato anche un altro.

    Wilson pensò al muro che Cat Dupree aveva eretto tra

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