Il gentiluomo australiano: Harmony History
Di Laura Martin
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Australia, 1822
Condannata ingiustamente in Inghilterra e per questo deportata in Australia, Alice Fillips ha dovuto sopportare cocenti umiliazioni. L'ultima l'ha vista punita sulla pubblica piazza, ma prima che la situazione potesse volgere in tragedia, è accorso in suo aiuto o così sostiene lui il proprietario terriero George Fitzgerald. Alice non riesce a credere che lui abbia voluto soccorrerla solo per amor di giustizia, e men che meno perché si sta avvicinando il Natale. Accetta comunque di lavorare come sua domestica, e giorno dopo giorno sente nascere nei suoi confronti un'attrazione senza pari. Soffocarla è imperativo: già una volta un uomo le ha distrutto la vita e lei non permetterà che ciò accada una seconda, neppure se George è davvero il gentiluomo che sembra.
Laura Martin
Tra le autrici piuù amate e lette dal pubblico italiano.
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Anteprima del libro
Il gentiluomo australiano - Laura Martin
successivo.
1
Australia, un mese prima di Natale
George Fitzgerald si chinò e afferrò una manciata di terra, che poi si lasciò scivolare fra le dita.
In nessun'altra nazione, e lui ne aveva attraversate molte, per rientrare in patria, la terra era come in Australia: compatta, fertile, con il profumo di casa.
Era bello essere di nuovo lì, avvertire la carezza calda del sole sul viso e sentire il rumore del mare alle spalle.
Dopo tre lunghi anni di assenza, non vedeva l'ora di varcare la soglia della sua fattoria e di riprendere la vita di sempre.
Sydney era molto diversa, si rese conto. C'erano più edifici, più persone.
Mentre si allontanava dal porto, era fiducioso riguardo alla sorte del suo Paese come non gli succedeva da tempo.
Forse qualcuno ha iniziato a capire che questa colonia, nata di recente, non è destinata a sparire, e che un giorno, magari, diventerà qualcosa di più del luogo in cui l'Inghilterra deporta i criminali.
Stava attraversando la strada per intraprendere il viaggio lungo e polveroso che l'avrebbe condotto fuori dalla capitale, verso casa, quando udì un grido che gli fece gelare il sangue nelle vene.
Dopo qualche istante ne sentì un secondo ancora più straziante e poi altri, accompagnati da forti singhiozzi.
Si mise a correre, schivando i bambini che giocavano e le donne affaccendate, girò l'angolo e udì un altro urlo angosciato. Rallentò il passo e si imbatté in un capannello di persone riunite a osservare, che bisbigliavano e sembravano a disagio.
L'inconfondibile schiocco di una frusta giunse un attimo prima del grido di dolore di una fanciulla legata a un palo.
Era difficile stabilire quanti anni avesse, perché la testa era riversa in avanti e i capelli le ricadevano sul viso. Il vestito, fatto a brandelli dalle frustate, lasciava intravedere la pelle candida, martoriata e sanguinante.
Il gendarme, che brandiva la frusta, era serio ma, mentre si apprestava a colpire ancora, sembrava compiaciuto del potere che esercitava su quella povera sventurata.
Non avrebbe avuto pietà di lei.
Prima che la ragione glielo impedisse, George fece un balzo in avanti, sciolse il capannello e si frappose tra i due. Allungò una mano e afferrò la frusta, che rimase sospesa a mezz'aria.
A dispetto della posizione, riuscì a tenere i piedi piantati per terra e a irrigidire le spalle.
«Toglietevi di mezzo!» bofonchiò la guardia, che non si aspettava nessuna ingerenza.
«Basta così» ribatté George con un tono pacato e uno sguardo risoluto che non passò inosservato.
«Ve lo ripeto, non sono affari vostri, toglietevi di mezzo.» Con un ghigno, l'uomo diede uno strattone alla frusta, tentando di fargli perdere l'equilibrio e di farlo ruzzolare per terra.
«Basta così» ripeté George.
«Frusterò anche voi, e senza alcuna remora» lo minacciò l'altro.
George non dubitava che ne sarebbe stato capace, soprattutto in un impeto di rabbia. Si piegò all'indietro per fargli capire che non sarebbe stato così semplice avere la meglio. «Va' a chiamare qualcuno nell'ufficio del governatore» ordinò a un marmocchio che era lì vicino. «Se farai quello che ti ho chiesto, ti darò una moneta.» Lo guardò correre via e poi rivolse di nuovo l'attenzione al gendarme, che di tanto in tanto provava a spostare la frusta per sbilanciarlo.
Avrebbe voluto assicurarsi che la fanciulla stesse bene, però non si azzardava a distogliere lo sguardo dalla minaccia che aveva davanti a sé.
La folla si aprì mormorando per lasciar passare altre due guardie accorse a vedere cosa stava succedendo.
Un attimo dopo, George Fitzgerald si ritrovò circondato da quattro uomini massicci che tentavano, invano, di sovrastarlo.
«Per favore, signori... Fate un passo indietro» li esortò, sapendo che non stava parlando a dei gentiluomini. «Sta arrivando qualcuno dell'ufficio del governatore, e non vorrei che nel frattempo vi faceste male.»
«Lasciate andare la frusta, o finirete per rompervi un braccio» lo canzonò uno dei gendarmi, prima di scoppiare a ridere.
George sospirò, maledicendo l'istinto protettivo che lo aveva spinto a immischiarsi. Era capace di difendersi, e gli anni di lavoro nei campi lo avevano irrobustito parecchio.
In caso di necessità, sarebbe riuscito ad assestare un paio di colpi, tuttavia erano cinque contro uno, perciò rischiava di essere picchiato duramente e di ritrovarsi con un occhio nero.
Che singolare benvenuto ho ricevuto!, pensò.
Abbassando la frusta per una frazione di secondo, colse alla sprovvista la guardia, che cadde addosso al collega imprecando.
Ignorò i suoi improperi, si girò e assestò un paio di pugni agli altri due, prima che si rendessero conto di quello che stava succedendo e si avventassero su di lui.
In un batter d'occhio si ritrovò sepolto dai colpi e dai corpi di cinque uomini. Gli mancava l'aria.
Questo temerario salvataggio sarà l'inatteso epilogo della mia vita?, si domandò.
Qualcuno richiamò all'ordine.
I gendarmi che erano sopra di lui si alzarono, non prima di aver sferrato alcuni colpi bassi.
George rimase a terra, lo sguardo rivolto verso il cielo terso, chiedendosi se il dolore sordo che sentiva era sinonimo di una costola rotta. Aveva il fiato corto, e forse anche un taglio sul sopracciglio.
«Mr. Fitzgerald, se non vado errato» pronunciò una voce colta e autorevole. «Il figliol prodigo dell'Australia è tornato.»
George alzò gli occhi e vide un'ombra che si stagliava contro il sole. Afferrò la mano che gli veniva tesa e si rialzò. «Colonnello Hardcastle» replicò, riconoscendo il vicegovernatore, la seconda carica più importante del Nuovo Galles del Sud.
Hardcastle si trovava in Australia da una decina di anni, e George lo aveva incontrato in società e in occasione di alcuni eventi pubblici, prima di partire per l'Inghilterra. Era un brav'uomo, un po' eccentrico.
«Perché le guardie si sono avventate contro di voi?» gli domandò il colonnello.
«Si è intromesso nel mio lavoro, signore!» si affrettò a puntualizzare il primo gendarme.
Il colonnello Hardcastle riportò lo sguardo su George. «Mr. Fitzgerald, avete qualcosa da dire?»
«Se il suo lavoro consiste nel frustare quasi a morte una povera sventurata, in effetti sì, mi sono intromesso» ammise George scuotendo il capo.
Tutti si voltarono a guardare la fanciulla ancora legata al palo.
Il colonnello si avvicinò e le sollevò la testa per accertarsi che fosse ancora viva.
«È una ladra, signore. L'ho sorpresa a rubare» dichiarò il primo gendarme. «Dev'essere punita con cinquanta frustate» aggiunse.
«E quante ne ha ricevute?»
«Soltanto sei, signore.»
George osservò l'espressione perplessa di Hardcastle. Per averla ridotta in quelle condizioni con sei frustate, doveva averla colpita con tutta la forza che aveva in corpo.
«Penso che sia sufficiente» sentenziò il vicegovernatore. «Dove lavora?»
«In lavanderia, signore.»
Il colonnello parve di nuovo stupito.
Per essere stata destinata alla lavanderia, doveva aver tenuto una buona condotta, in prigione. Di solito, i lavori peggiori, ossia quelli nelle fabbriche, venivano assegnati agli attaccabrighe, e i migliori a chi rigava dritto.
«Cosa ha rubato?»
«Un pezzo di pane, signore.»
Hardcastle si chinò davanti alla fanciulla scuotendo la testa, amareggiato. «Ha pagato abbastanza» decretò infine. «Slegala e riportala in cella.»
George sapeva che avrebbe fatto meglio a rimanere in silenzio. Se non era stato frustato era solo perché lo conoscevano tutti come uno dei più ricchi proprietari terrieri dell'Australia orientale. «La prenderò con me!» esclamò invece, pentendosi di quelle parole nell'istante stesso in cui uscirono dalla sua bocca.
Non gli serviva una lavoratrice forzata, né tantomeno una domestica. Certo, nei campi un paio di braccia in più erano sempre ben accette, ma quella fanciulla esile non sarebbe stata un valido aiuto.
Ancora una volta aveva deciso con il cuore e non con la testa, mosso dal dispiacere per quella sventurata che era stata frustata senza pietà.
Dev'essere colpa del tempo che ho trascorso lontano dalla mia fattoria. Ben presto dovrò iniziare a pensare di nuovo come un uomo d'affari, rifletté.
«Ho bisogno di una domestica, e avrei dovuto cercare comunque qualcuno» proseguì. «Prenderò lei, invece, così vi risparmierò il disturbo di doverla punire ancora.»
Il colonnello sembrò prendere in considerazione la proposta, e gli lanciò un'occhiata penetrante. «Se reputate che sia la soluzione migliore...» acconsentì, stringendosi nelle spalle. «Mi raccomando, però, entro un paio di settimane presentate i documenti compilati. Liberatela, Mr. Fitzgerald la porterà con sé» ordinò, rivolgendosi al gendarme.
Con un colpo secco di coltello, uno tagliò la corda che la teneva legata al palo, e lei ruzzolò nella polvere.
Aveva ripreso i sensi, anche se i suoi movimenti erano ancora rigidi e teneva la testa china.
A poco a poco la folla iniziò a disperdersi, brontolando per l'epilogo inatteso.
Quelle persone erano deluse per non aver assistito ad altra violenza, o felici che quella sconosciuta avesse ricevuto una punizione più leggera di quella che le spettava?
«Riuscite ad alzarvi?» le domandò George. Chinandosi verso di lei, incontrò gli occhi più azzurri che avesse mai visto, e rimase senza fiato.
La ragazza non rispose, limitandosi ad alzarsi.
Trasaliva ogni volta che i vestiti laceri sfioravano la sua schiena ferita. Vedendo la mano che le aveva teso, si irrigidì e gli lanciò un'occhiata che lo indusse a fare un passo indietro. Era costretta a tenere con le mani il vestito ridotto a brandelli.
George si tolse in fretta la giacca e gliel'appoggiò con delicatezza sulle spalle. «Come vi chiamate?» le domandò.
Non sembrava intenzionata a rispondere.
Non è muta, perché l'ho sentita gridare mentre la frustavano.
«Non sarò mai la vostra cortigiana» sibilò infine lei. «Non è per questo che mi avete salvata? Cercavate una sgualdrina, ma sappiate che io non mi abbasserò a tanto.»
George, che non era mai rimasto a corto di parole in vita sua, si ritrovò a non saper cosa dire.
«Vi ringrazio per essere intervenuto, però preferisco lavorare in fabbrica» riprese lei mentre si allontanava zoppicando, con una smorfia di dolore.
«Fermatevi, avete frainteso.»
Doveva assicurarle che non si aspettava che si infilasse nel suo letto, o avrebbe fatto meglio a precisare che i suoi desideri non contavano, dal momento che era una lavoratrice forzata alle sue dipendenze?, si interrogò.
Malgrado l'espressione mista di ansia e paura che si era dipinta sul suo volto, la ragazza lo fulminò con lo sguardo.
Sembrava avercela con lui, anche se si conoscevano soltanto da pochi minuti.
George si avvicinò con le mani alzate per non metterle soggezione. «Lavorerete nella mia fattoria, nulla di più.»
«Perché?» ritorse lei con espressione diffidente, stringendo gli occhi.
George esitò. Cos'avrebbe dovuto rispondere?
Aveva appena rischiato di essere frustato, pur di risparmiare a un'estranea una punizione troppo severa, ma meritata.
Si era fatto carico di una deportata di cui non aveva bisogno.
«È la mia buona azione di Natale» rispose quindi.
«Manca ancora un mese a Natale» gli fece notare lei.
«Ho giocato d'anticipo.»
Si fissarono a vicenda per un istante interminabile, poi lei annuì, come se fosse una regina nelle cui grazie lui, umile servitore, stava tentando di entrare. «Voi non mi sfiorerete» ribadì, puntandogli il dito contro.
«Ve lo giuro sul mio onore.»
Con un altro cenno del capo, lei acconsentì che l'accompagnasse, e si incamminarono.
George pensò che, agli occhi dei presenti, dovevano formare una coppia alquanto singolare.
2
«Basta qualcosa di semplice, una camicia e un paio di pantaloni andranno bene. Qualsiasi cosa sarà meglio di quel vecchio vestito a brandelli» stava dicendo George a qualcuno fuori della porta.
Alice si immerse nell'acqua calda assaporando il tepore e osservando le bolle che risalivano in superficie.
Di primo acchito non era stato piacevole, perché le ferite avevano iniziato a dolere, ma sapeva che era importante lavarle.
Durante la deportazione, aveva visto più di una persona con la pelle gonfia, dopo le frustate, e sapeva che le ferite infette potevano essere fatali.
Quando si era abituata all'acqua sulla pelle lacerata aveva avvertito una sorta di sollievo, e aveva ringraziato in silenzio per aver avuto l'opportunità di lavarsi, prima di riprendere il viaggio.
Non appena riemerse dalla tinozza, si mise di nuovo ad ascoltare.
«Non farò indossare a una ragazza un paio di pantaloni e una camicia» stava protestando la locandiera. «Non è da cristiani.»
«Qualsiasi cosa riusciate a trovare andrà bene» ribatté Mr. Fitzgerald, il suo salvatore dallo sguardo gentile.
Sarebbe fin troppo facile fidarsi di quegli occhi, si disse Alice. No, non gli accorderò la mia fiducia dopo così poco tempo.
Con un sospiro, uscì dall'acqua, afferrò un asciugamano e iniziò ad asciugarsi: ogni volta che il tessuto morbido le sfiorava la schiena sul suo viso si dipingeva una smorfia.
Il gendarme si era assicurato che ognuna delle sei frustate lasciasse una ferita profonda.
Non era la prima volta che veniva frustata, ma era stata senz'altro la più dolorosa.
Sentì la porta aprirsi e vide entrare la locandiera con un vestito troppo grande.
Il suo ruvido abito grigio, ormai a brandelli e macchiato di sangue, era appoggiato su una sedia, ma quello che le era stato portato non sembrava molto meglio.
«È un po' largo, mia cara» si scusò la proprietaria della locanda con un marcato accento dello Yorkshire che le ricordò casa sua, «comunque almeno sarete presentabile. E ora diamo un'occhiata alla vostra schiena.»
L'aiutò a vestirsi, lasciando il tessuto un po' scostato dietro, in modo che non aderisse alle ferite aperte.
Alice guardò la propria immagine riflessa nello specchio appannato e vide i capelli bagnati che le contornavano il viso, il naso scottato dal sole e le lentiggini che erano comparse sulle guance negli ultimi mesi.
Il vestito era troppo lungo, e le cadeva male sui fianchi. Assomigliava a una bambina che aveva indossato per gioco gli abiti della madre.
«Per il momento andrà bene» le assicurò la proprietaria della locanda osservandola con le mani sui fianchi. «Senz'altro Mr. Fitzgerald vi comprerà qualcosa della vostra misura, quando arriverete a casa.»
La parola casa suscitò in lei un fremito di terrore, perché era proprio quello che aveva cercato di evitare, nei nove mesi di permanenza in Australia.
La maggior parte delle donne con le quali era stata deportata e molte che erano arrivate dopo di lei si erano già sistemate con uomini liberi, proprietari terrieri, lavoratori, i quali avevano il diritto di scegliere una carcerata come moglie, o come amante. Altre, invece, si erano accasate con deportati che avevano promesso di prendersi cura di loro, in quella nuova vita che metteva paura.
Alice aveva rifiutato qualsiasi uomo.
Nella vita aveva già poco e non desiderava che un maschio controllasse le poche scelte di cui disponeva.
Aveva già commesso quell'errore in Inghilterra, legandosi a qualcuno che le aveva promesso la luna e, a poco a poco, l'aveva trasformata nell'ombra di se stessa, finendo per invischiarla nella situazione che aveva portato al suo arresto e alla sua deportazione.
In quel frangente, tuttavia, sembrava non avere scelta. Era grata a Mr. Fitzgerald che era accorso in suo aiuto, ma quale sarebbe stato il prezzo da pagare?
«Venite, cara, vi sta aspettando» la esortò la locandiera. «Immagino che non veda l'ora di tornare a casa.»
Alice abbozzò un sorriso e si lasciò accompagnare fuori della stanza.
Per sua fortuna quel gentile sconosciuto aveva insistito affinché lei si facesse un bagno e si cambiasse d'abito, prima di iniziare il viaggio. In effetti, dopo aver lavato via il sangue della schiena e la polvere dalle mani, si era sentita di nuovo un essere umano.
Mentre scendeva le scale, lo vide seduto in un angolo, i piedi sopra uno sgabello e le mani dietro la testa.
Se anche non fosse stato l'unico avventore presente di mattina presto, non sarebbe mai passato inosservato, pensò. Come non notare un uomo alto, con le spalle larghe e le braccia forti, le stesse che non avevano esitato a difenderla?
Nell'istante in cui lui la vide e si rese conto che indossava un abito tre volte più grande della sua taglia, un lampo divertito accese il suo sguardo.
Devo avere un aspetto terribile, rifletté Alice con un certo disagio, ma poi si riscosse. Forse, se mi trova poco attraente, non mi obbligherà a infilarmi nel suo letto. Sono ingiusta a sospettare di lui? Forse, ma purtroppo non riesco proprio a fidarmi.
Dopo che era stata condannata, in più occasioni, gli uomini avevano cercato di approfittarsi di lei, quindi non poteva abbassare la guardia, malgrado l'estrema cortesia che Mr. Fitzgerald aveva dimostrato nei suoi confronti.
«Ve la sentite di viaggiare?» le domandò lui, alzandosi.
A dispetto della corporatura, era agile e scattante, e la raggiunse in un batter d'occhio. «Certo, signore» rispose lei, guardando per terra. Si trovava in una brutta situazione, non c'era dubbio. Vista la quantità di gendarmi che pattugliavano la città, scappare sarebbe stato insensato. Al suo salvatore sarebbe bastato lanciare un grido per farla frustare di nuovo. Tuttavia, l'idea di lasciarsi alle spalle la vita che aveva conosciuto negli ultimi nove mesi la metteva a disagio.
«Dopo di voi.» Lui le porse il braccio. «Tornerò la prossima settimana a saldare il conto» aggiunse, rivolgendosi alla locandiera.
Alice rimase senza parole. Non era abituata ai modi galanti, e dedusse che quel gentiluomo doveva essere molto potente, se gli facevano credito sulla parola.
Una volta usciti, ignorò la mano che lui le aveva teso e salì da sola sul calesse a due posti, sul quale erano stati caricati due grossi bauli.
Nonostante si fosse rannicchiata il più possibile, quando Mr. Fitzgerald prese posto, i loro corpi si sfiorarono, e Alice dovette chiudere gli occhi e respirare a fondo per non farsi prendere dal panico.
«State comoda?» si informò lui, studiandola.
«Cosa importa?» ribatté lei cercando di concentrarsi sulla strada e non