D'amicizia, d'amore e guerra
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D'amicizia, d'amore e guerra - Patrizia Petruccione
Patrizia Petruccione
D’AMICIZIA, D’AMORE E GUERRA
Prima Edizione Ebook 2021 © R come Romance
ISBN: 9788893471794
Immagine di copertina su licenza Adobestock.com, elaborazione Edizioni del Loggione
img1.pngwww.storieromantiche.it
Edizioni del Loggione srl
Via Piave 60
41121 Modena – Italy
romance@loggione.it
http://www.storieromantiche.it e-mail: romance@loggione.it
img2.jpgLa trama di questo romanzo è frutto della fantasia dell’autore.
Ogni coincidenza con fatti e persone reali, esistite o esistenti, è puramente casuale.
Patrizia Petruccione
D’AMICIZIA, D’AMORE
E GUERRA
Romanzo
Indice
Prima parte
16 ottobre 1935 Anno XIII E.F.
La Profumata
24 ottobre
Anna
26 ottobre 1935 (sabato)
Oro alla patria
18 dicembre 1935 Anno XIV E.F.
L’ Impero
La guerra di Spagna
La Retirada
Il campo di Gurs
La partenza- Agosto 1939
Le leggi razziali
Il rientro
Genova
1936
Rosa
Settembre 1939
Rosa
Seconda parte
La ricerca
Ottobre-novembre 1939
Aprile 1940
Ad Alassio
Maggio 1940
La guerra
Aldo e Gianni
Rosa
Roma giugno 1940
Agosto settembre 1940
Febbraio 1941
1942
Agosto 1942
L’arresto
Ottobre 1942
La scuola di Ventotene
Lo sbarco in Sicilia
18 ottobre
Il viaggio
Rosa
A Roma
Gianni
Rosa
La linea gotica
La repubblica di Torriglia
Nina
Luglio 1948
L’autrice
Catalogo
Il concorso
Prima parte
16 ottobre 1935 Anno XIII E.F.
Di tutte le marce che rallegrarono la nostra penisola, da quella di Quarto in poi, la marcia su Roma è la più gaia, la più numerosa, la più riuscita. Nessun triste incidente la rattrista, tutto si svolge in perfetto ordine fascista.
(Leo Longanesi).
Svolgete il tema commentando i fatti della storia con interventi personali e critici.
Gianni Torazza dalla cattedra osservava i suoi alunni. Qualcuno avrebbe capito, ne era certo. Almeno uno o due dei ragazzi della terza B avrebbero colto l’ironia di quel commento apparso diversi anni prima su L’Italiano, il giornale diretto da Leo Longanesi, commento che lui aveva proposto come enunciato del tema il secondo giorno di quell’anno scolastico 1935- 1936.
L’argomento che la classe doveva sviluppare risultava in linea con i dettami del regime: esaltava l’allegria e l’ordine fascista della marcia su Roma. Nessuno avrebbe potuto eccepire alcunché. Del resto, pensava il professore, per cogliere l’ironia servono intelligenza e sensibilità, qualità che non si poteva dire caratterizzassero gli uomini del regime, che si segnalavano piuttosto per volgarità e grettezza. I ragazzi del liceo genovese in cui insegnava, invece, in quegli anni stavano imparando, sotto la guida di diversi insegnanti non conformisti, la necessità di sottoporre a vaglio critico ogni giudizio, per quanto fosse difficile risultare immuni dalla retorica del fascismo. Di fronte a quell’affermazione di Longanesi, alcuni avrebbero dovuto appunto sfrondare la retorica dalle parole, come lui stesso li aveva educati a fare.
Gianni si domandava costantemente quanti di loro fossero in grado di distinguere negli eventi di quegli anni la verità dei fatti dalla ricreazione opportunisticamente deformata di essi. Ci aveva provato ogni giorno in classe a mostrare l’ipocrisia del regime. Aveva posto di fronte agli occhi dei suoi alunni quei libri di testo, dove delle epoche della storia venivano messi in luce gli aspetti più congeniali agli ideali di imperialismo, violenza e razzismo sostenuti dalla dittatura. «Stanno strumentalizzando il nostro passato. Aprite gli occhi, ragazzi» li aveva ammoniti spesso.
«Perché professore? Per quale motivo farebbero questo?» aveva chiesto un giorno con una nota di scetticismo Mariani, uno dei più impegnati tra gli Avanguardisti.
«Per attribuire alla nostra storia, o per cercarvi, i valori che il regime sostiene e che vogliono indurci a condividere. Non è difficile capire gli intenti e i modi della propaganda. Ne abbiamo già parlato, Mariani. Non se lo ricorda?»
Poi, visto che Mariani non rispondeva, aveva proseguito: «La romanità e il Rinascimento sono le epoche del nostro passato la cui immagine il regime sfrutta di più. La storia di Roma, la sua potenza, le conquiste, la gloria che ha raggiunto diventano il modello per il nuovo Impero che sta progettando. Così voi senza quasi avvedervene finite col riconoscervi in esso. Ma non basta. L’esaltazione degli artisti del Rinascimento mira ad accendere lo spirito nazionalistico. Tutti i capolavori delle arti rinascimentali incarnano il valore della nazione, la distinguono dalle altre, la rendono eccellente. E voi diventate nazionalisti.»
La sua era una lotta costante contro quella propaganda subdola e insistente che era rivolta in larga misura ai giovani proprio attraverso la scuola. S’insinuava sottile, attraverso le immagini e gli slogan: il moschetto disegnato sulla copertina del quaderno, l’aratro e la spada su quella dei libri riservati alle scuole rurali. Libro e moschetto, fascista perfetto. È l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende.
Da quel 28 ottobre del 1922, quando il re aveva aperto le porte di Roma a Mussolini, erano passati ormai tredici anni, durante i quali il Fascismo aveva prima acquisito il potere legale, poi con il delitto Matteotti aveva mostrato il suo vero volto, trasformandosi in dittatura e infine giorno dopo giorno era entrato nelle menti della popolazione. Era questo che più spaventava Gianni, come professore e come uomo, il potere che la propaganda fascista esercitava soprattutto sui giovani, le cui menti venivano controllate, influenzate, guidate.
Ora era iniziato l’attacco all’Etiopia. Si sentiva nell’aria un entusiasmo nazionalistico, lo stesso che riempiva le pagine dei giornali. Si esaltavano gli animi nel grido irrazionalistico della guerra: la situazione era nuova, ma il mito era sempre lo stesso, quello dell’aggressione, della violenza. Lo stesso mito che aveva guidato le camicie nere nella loro marcia sgangherata verso la capitale.
«Professore, ma o Roma o Orte chi l’ha detto?» gli domandava Ardenzi, secondo banco, fila di destra.
Dunque qualcuno ricordava quei commenti che, sottoforma di critica storica e con le parole di giornalisti dell’epoca, aveva proposto all’attenzione della classe.
«Pare sia stato Maccari, il giornalista.»
«La frase originale, o Roma o morte, invece, è di Garibaldi, è vero professore?» interveniva Rossello, con il solito tono saccente e puntiglioso del primo della classe.
Mentre il professore assentiva, «Maccari quindi ha partecipato anche lui alla marcia su Roma...» riprendeva Ardenzi. «Però non so più cosa vuol dire quella frase...»
«La meta, o meglio l’obiettivo, è sempre Roma, come per Garibaldi, ma questa volta sono le camicie nere a marciare verso la capitale» chiariva Gianni. «Per il blocco dei nodi ferroviari nei pressi di Roma, gli squadristi restano però bloccati a Orte, e Maccari, che pure è uno di loro, con la riflessione dell’intelligenza e la sagacia della critica, avverte il ridicolo della situazione. Quegli uomini disarmati, fradici e affamati, partiti per conquistare il potere con una forza che non possiedono e che pure sono convinti di avere, sono così sprovveduti da non rendersi conto della fragilità dell’armata disarmata che formano, mentre i loro capi, animati dall’arroganza del potere, perdono la cognizione della realtà. Perciò restano lì sotto la pioggia ad aspettare un ordine che non arriva fino al momento in cui il re sospende lo stato d’assedio e conferisce a Mussolini l’incarico di formare il nuovo governo. Allora le porte della città si aprono ad accoglierli. E le camicie nere sfilano in trionfo per le vie di Roma.»
La stessa arroganza con cui Mussolini aveva preteso il governo aveva animato il suo discorso del 2 ottobre di quel 1935 alle forze del regime e al popolo d’Italia. Dal balcone di piazza Venezia: «Con l’Etiopia abbiamo pazientato quaranta anni! Ora basta!» aveva proclamato, mentre la radio trasmetteva le sue parole in tutta l’Italia e la folla applaudiva. Avevano ascoltato insieme Gianni e Aldo, il suo amico e collega, quelle parole e le acclamazioni e ne erano stati angosciati. Perché l’entusiasmo della folla faceva loro paura, in quanto - pur senza comprenderne fino in fondo le ragioni - intuivano che quella per cui ci si era incamminati era una strada pericolosa per il Paese.
Il giorno seguente era iniziata la guerra, una guerra che il duce giustificava come rivendicazione della sconfitta subita dall’esercito italiano nel conflitto d’Abissinia. Le truppe del generale De Bono avevano invaso l’Etiopia attraverso l’Eritrea, mentre quelle del generale Graziani entravano dalla Somalia. L’11 ottobre la Società delle Nazioni aveva deliberato provvedimenti di sanzione contro l’Italia.
Erano passati solo pochi giorni da quella data e ancora non si conosceva quali sarebbero stati l’oggetto e l’esito del blocco economico, anche se si temeva un embargo severo. Gianni pensava che in classe fosse troppo presto per sottoporre alla riflessione degli studenti quell’ultima azione del regime: l’impresa coloniale con l’eco di glorificazione retorica che l’accompagnava non avrebbe potuto che esaltarli. Serviva il distacco del tempo trascorso sul fatto compiuto per permettere un’analisi libera almeno dalle influenze emozionali: ora, dopo tredici anni, forse gli alunni potevano cominciare a capire qualcosa della marcia su Roma. Per parlare dell’attacco all’Etiopia, bisognava che almeno la guerra fosse finita. Invece era appena iniziata. Oltre a tutto, il Fascismo in quegli anni aveva attratto anche i giovani: dopo la battaglia del grano, che grazie all’introduzione dei fertilizzanti aveva incrementato di molto la produzione, si era iniziata la bonifica delle terre paludose, da Catania al Piave, dalla Maremma alla Sardegna. Ma il fatto che aveva ottenuto maggiore risonanza era stata la costruzione di due città, Sabaudia e Littoria; e la retorica del regime proclamava si sarebbero edificati altri centri negli anni a venire là dove il mare creava acquitrini malsani.
D’altra parte - ma gli italiani sembravano non essersene quasi accorti - il regime, con la legge Rocco, sin dal 1926 aveva attuato una forma di sindacalismo fascista, che aveva soppresso i sindacati antifascisti, costituendo al loro posto le Corporazioni e non a tutti doveva apparire chiaro che queste ultime erano organi statali controllati dal Gran Consiglio del Fascismo. Aveva anche abolito il diritto di sciopero. E anche questo era passato sotto silenzio. Poi aveva proclamato contro l’inflazione la battaglia della lira, facendole raggiungere la quota 90 nel cambio con la sterlina, per mantenere la quale era stata necessaria una politica di austerità che si era espressa fondamentalmente nella riduzione dei salari. Allora gli italiani finalmente avevano aperto gli occhi e gli scioperi, pur vietati, erano ripresi, promossi dalla clandestinità da quelli che Gianni, rivolgendosi ad Aldo, definiva i tuoi compagni comunisti
. Comunque a pagare erano le classi più umili che accettavano la riduzione dei salari condizionate dalla propaganda insistente del regime e da alcuni provvedimenti allettanti, come le ferie pagate e la conservazione del posto in caso di malattia.
«Consegno, professore» aveva detto Mariani avvicinandosi alla cattedra. «Non so però se le piacerà quello che ho scritto…»
«Non si preoccupi Mariani. Sa bene che qui non si giudicano le idee, ma la coerenza. In questa classe il pensiero è libero» gli aveva risposto Gianni.
Mariani era già tornato al banco e raccoglieva i libri preparandosi a uscire, quando la porta si spalancò e il Preside condusse con l’autorevolezza monumentale del suo incedere un primo passo all’interno dell’aula.
Immediatamente concentrò l’attenzione sull’enunciato del tema trascritto sulla lavagna. E capì quello che doveva capire. «Bene, professore. Ottima scelta quella di ricordare l’inizio delle nostre glorie. A maggior ragione oggi che i soldati delle coraggiose armate fasciste combattono per riconquistare all’Italia un impero oltremare.»
Gianni Torazza non aveva risposte che potessero soddisfare il suo dirigente. Soffocò un sorriso, mentre lo squillo della campana annunciava la fine della mattinata di scuola liberandolo da quella situazione imbarazzante. Il Preside infatti con un cenno indicò agli alunni che potevano uscire e si fece da parte per permettere loro di accedere alla porta.
Ma, quando tutti furono fuori, il Preside, che non aveva nessuna intenzione di andarsene, «Abbiamo un problema, professore» enunciò con fare grave e misterioso.
Gianni intuì immediatamente l’essenza della questione: non poteva essere che il suo più o meno manifesto antifascismo. Sapeva del ruolo di delatore di Santi, il collega insegnante di Educazione Fisica, ex squadrista, esaltato, pieno di boria e millantatore, assai pericoloso anche perché del tutto privo di capacità di giudizio autonomo. Inoltre era a conoscenza della bravata di tre alunni della seconda B, anche quella una sua classe. Carlini, Rossi e Delucchi durante un’ora di lezione, mentre l’insegnante in cattedra veniva convocato in Presidenza per comunicazioni del Preside, avevano imbrattato la parete di un corridoio con scritte che avevano suscitato un’eco dilagante. La polemica di ora in ora cresceva e si allargava a coinvolgere nuovi imputati.
«Avete mai pronunciato in classe le parole che sono state scritte sulla parete del corridoio, professor Torazza? Insomma sono vostre quelle frasi?» chiedeva il capo d’Istituto.
Non erano propriamente suoi quei versi, si giustificava Gianni, ma in classe erano venuti fuori dalla sua bocca, certo, mentre traduceva una lirica di Alceo. Non aveva aggiunto alcun commento che potesse attualizzare il ritratto del condottiero: a quello i suoi alunni erano pervenuti da soli. E in fondo l’immagine proposta da Alceo era spiritosa.
Non vo’ d’alta statura un condottiero
Maestoso incedente,
Né di bei ricci adorno,
Né raso acconciamente:
Picciol sia pure, sia di gambe storto
In vista, ma in pie’ saldo, ardito, accorto.
Era stato divertente anche leggere quei versi sulla parete del corridoio e coglierne l’ironia e soprattutto lo aveva soddisfatto capire che alcuni studenti non solo erano in grado di giudicare quello che stava accadendo in Italia ma anche, per quanto era nelle loro possibilità, provavano a reagire.
«Sono versi di Alceo, signor Preside. Sì, certo, li abbiamo tradotti in classe.»
«Bene. Per quale motivo li avete scelti? Perché questi versi?»
«Non li ho scelti. Abbiamo tradotto anche molti altri frammenti.»
«Con questo vorreste negare una vostra intenzione denigratoria nei confronti del nostro Duce?»
«Assolutamente» rispose deciso stringendo le labbra a nascondere il sorriso che gli si stava stampando sopra. «Comunque sono certo che Santi sarà più preciso di me. Di sicuro sarà informato su tutti i passi che sono stati letti in classe.»
Allora il Preside si fece da parte.
Mentre Gianni scendeva le scale, in fondo soddisfatto perché il liceo restava un luogo di cultura e libertà, Aldo lo raggiunse.
«Tua sorella è tornata?» gli domandava.
«Ancora no» rispondeva Gianni. Per una volta senza ironizzare sull’interesse che Aldo manifestava nei confronti della propria sorella Anna.
«Non corre rischi a raggiungere tuo fratello in Francia?» continuava Aldo un po’ preoccupato. «L’OVRA potrebbe già averla presa di mira.»
«Siamo tutti sorvegliati ormai, a maggior ragione con un fratello come il mio, che ha dovuto lasciare l’Italia per non finire al confino o in una cella. Certo che l’OVRA terrà d’occhio anche lei, ma mia sorella è davvero fuori da tutto. La politica non le interessa, anzi fatica a capire la lotta di mio fratello e di mio padre. Ora ha raggiunto Giuseppe solo per rivederlo. Perché lui, finché non abbattiamo il regime, non potrà rientrare in Italia. Ecco, forse però un rischio lo corre Anna, ed è quello che mio fratello le affidi delle copie di Giustizia e Libertà da portare in Italia. Svelare sul giornale di Rosselli gli obbrobri del fascismo è diventata la ragione di vita di Giuseppe e non si rende conto dei rischi che si corrono a far circolare in Italia quei fogli.»
«Ma tu da che parte stai? Sei con Rosselli o stai con noi comunisti?» insistette a chiedergli Aldo.
«Devo dire che Rosselli mi piace. Solo lui poteva riuscire a portare Turati fuori dall’Italia, con quell’avventura da brivido, per poi tornare, sfidando i Fascisti, finire a Lipari, evadere, fuggire a Parigi… Per quanto riguarda il movimento, alcune delle idee di Giustizia e Libertà le condivido, come quella di coinvolgere nella rivoluzione anche i ceti medi... perché quello operaio non è ancora pronto. Le nuove generazioni, poi, hanno subito troppo forte l’impronta del fascismo. Si devono formare dei quadri, come sostiene lui, e il comando deve essere affidato agli intellettuali, a cui spetterà poi il compito di educare e guidare le masse operaie… Però io non mi riconosco del tutto neanche in questa formazione politica…»
«Comunque ammetti che GL ha una connotazione intellettuale e borghese?»
«Non è questo il punto. Prova a andare all’Ansaldo e parla con gli operai. Vedrai quanti di loro sono pronti per la rivoluzione. Ma non si tratta solo di attribuire un carattere al movimento: Rosselli critica l’attendismo di socialisti e comunisti che lasciano campo libero all’aggressività e all’imperialismo dei regimi. E non parla solo di Mussolini. Anche su questo sono d’accordo. Sono riuscito a leggere il numero di Giustizia e libertà
del 4 ottobre. Me lo ha fatto avere mio fratello tramite un suo emissario che lo ha portato da Parigi. Accusa il duce di follia megalomane e criminale e gli attribuisce la responsabilità dell’attacco all’Etiopia, che definisce una guerra privata e non dell’Italia. Capisci? Rosselli e i suoi, compreso mio fratello, non vedono altra strada che quella della lotta: d’altra parte, quando Hitler ha preso il potere, Rosselli aveva minacciato un futuro di guerre. E mi sembra che ci stiamo avviando proprio in questa direzione.»
«Continuo a non capire con chi stai...»
«Con il pensiero libero, Aldo, di questo sono sicuro. Per il resto non so: vorrei essere in grado di riconoscermi in uno schieramento e condividerne fino in fondo le idee e la lotta. Ma non sono capace di seguire ciecamente le direttive e i programmi di un partito e lottare quando me lo dicono. Può darsi che un giorno io trovi le motivazioni per condurre una lotta armata. Ma, se lo farò, difficilmente sarò inquadrato in una formazione politica. Sono antifascista perché mi disturba l’ipocrisia e odio l’autoritarismo e la violenza, perché trovo ridicola la scenografia dell’apparato del regime e mi fa paura il meccanismo burocratico su cui si regge, fatto di gente ottusa e ignorante che ha un’unica religione, quella della forza. Sono antifascista e cerco di creare nei giovani un’anti-opinione... Almeno ci provo. Sono antifascista e basta.»
«Peccato. Speravo ancora di farti diventare dei nostri. Ma non importa. Prima o poi capirai che è questa l’idea giusta. Allora andiamo al bordello, oggi? Sono arrivate le signorine della nuova quindicina{1}: sono curioso di vederle.»
Gianni lo guardò con aria critica. Aldo era passato dal chiedere notizie di Anna alla proposta del bordello. Sì che di mezzo c’era stata la discussione politica, ma anche quella era stata superata con facilità. Se fosse stato un altro a fare quel discorso, si sarebbe risentito, ma con Aldo no. Aldo era superficiale, forse. O era solo diverso da lui. Comunque Aldo era così. «Sì andiamo. Ho voglia di festeggiare» rispose dopo qualche minuto di silenzio. «Hai visto i versi scritti sulla parete del corridoio?»
«Grandi i nostri ragazzi! Ma di questi versi la matrice sei tu.»
Gianni Torazza rise divertito. «Alle cinque?»
«Alle cinque» concordò Aldo.
Era mercoledì, un giorno infrasettimanale in cui difficilmente si sarebbe corso il rischio di incontrare in sala qualcuno degli alunni della terza a fare flanella: di solito avveniva il sabato che gli studenti ricercassero nel fascino eccitante delle persiane chiuse del bordello lo sfogo anche solo virtuale della loro sessualità. Disturbava molto Gianni trovare lì i suoi ragazzi, cosa che un paio di volte era capitata: lo imbarazzava salire in camera con una delle signorine mentre i più intraprendenti tra gli alunni restavano a guardare forse anche ridacchiando alle sue spalle. Ma il pomeriggio al bordello valeva il rischio. Si poteva anche scegliere una casa diversa: invece che in vico Castagna andare in un altro bordello della zona di Porta Soprana o del resto della città. Ce n’erano parecchi. Gli studenti comunque li frequentavano più o meno tutti. Il Dragone, il Sottomarino, il Sommergibile, che forse era il più a buon prezzo. Gli unici bordelli dove si era sicuri di non trovarli erano il Lepre, perché preferito dai gerarchi fascisti, e la Suprema, la casa chiusa di Galleria Mazzini, perché troppo chic. Ma Aldo e Gianni avevano l’abitudine di andare al Castagna.
La Profumata
La sala era affollata: della nuova quindicina mancavano solo un paio di ragazze già salite nelle loro stanze con i clienti. Aldo prese posto su uno dei divani accanto a una brunetta minuta, dalla pelle candida, che aveva i seni piccoli e turgidi nudi e i fianchi coperti da un velo. Le gambe aperte lasciavano intravvedere il triangolo scuro del pube. Lui le sfiorava con la mano la coscia, aprendo sempre di più a ogni carezza il velo che scendeva con apparente noncuranza sui fianchi e sulle gambe. Poi si alzò dal divano e si accostò al bancone della tenutaria, nella stanza d’ingresso, per pagare la marchetta. Rientrò dopo pochi minuti nel salottino, prese per mano la donna che aveva scelto e insieme salirono le scale.
Gianni li seguiva con lo sguardo, ma, volgendo il capo verso la scala, vide lei. Era seminascosta alla sua visuale dalla scala stessa, seduta su una sedia. Teneva lo sguardo fisso davanti a sé. Gianni riusciva a osservarla quasi di profilo: gli occhi grandi, i capelli castani lisci che incorniciavano un viso dolce e triste, il naso sottile, le labbra rosse appena socchiuse. Poi fece scorrere lo sguardo a inquadrarne il corpo. La ragazza non aveva assunto una posa sensuale: era seduta con le ginocchia strette, la schiena appoggiata alla parete, un braccio morbido, la mano appoggiata sulla coscia, e l’altro braccio sollevato e piegato ad angolo con la mano dietro il collo, a stuzzicare i capelli.
Non poteva dirsi bella, ma il suo corpo trasmetteva un languore dolce che turbò Gianni e lo attrasse; immediatamente seppe che quella ragazza gli piaceva. Le si avvicinò. Quando le fu di fronte lei finalmente lo guardò.
La tenutaria in quel momento entrò nel salottino e iniziò a presentare le ragazze. Quando fu la volta della donna che Gianni ormai per il quarto d’ora seguente considerava sua, la tenutaria s’intromise tra di loro.
«Questa è Rosa, la Profumata. Vuoi incontrarla? Ti saprà dare tutto il piacere che cerchi.»
Sì, era proprio con lei che Gianni aveva deciso di stare quel pomeriggio. La Profumata si alzò sollevando con una mano la spallina della tunica corta di seta che, scivolata, le lasciava scoperti l’omero e il seno destro. «Saliamo» le disse Gianni dopo che la tenutaria aveva preteso il pagamento.
Rosa lo precedette sulle scale che portavano alla camera.
Un odore penetrante di lisoformio investì Gianni appena varcò la porta della stanza. Era un odore che ogni volta lo disturbava: più che l’idea della pulizia gli trasmetteva la sensazione di un ambiente medicale.
«Posso sapere il tuo nome vero?» domandò alla ragazza, consegnandole la marchetta.
«Io sono la Profumata. Senti…» e gli si accostò.
Un aroma intenso di rose gli entrò nelle narici e spense ogni sentore del disinfettante che l’aveva infastidito pochi minuti prima. La pelle era liscia, morbida e fresca. L’eccitazione lo prese e strinse a sé il corpo di lei facendole percepire con il contatto fisico il desiderio che già lo aveva assalito e che si faceva sempre più intenso.
Lei lo trascinò verso il letto. Cominciò a spogliarlo. Quando gli ebbe abbassato i pantaloni, prese da un cassetto un preservativo, lo pose sul comodino e glielo indicò. Quindi, lasciata cadere la tunica che la copriva e rimasta nuda, sollevò un poco il lenzuolo e si sedette sul letto, stendendo le braccia per afferrare le mani di Gianni e attirarlo a godere di lei.
Ora l’iniziativa spettava a lui. Quello per cui aveva pagato era un intrattenimento semplice, come la marchetta testimoniava, ma l’essenza che la pelle di lei emanava lo eccitava provocandogli un desiderio che forse un rapporto semplice non sarebbe bastato a soddisfare. In piedi accanto al letto, tirando a sé il busto di lei, le strofinò il membro contro il seno. Lei si mosse un poco e lo eccitò ancora. Poi si distese e lui le fu sopra.
Sulla scelta della marchetta alla fine Gianni ammise di non aver sbagliato a chiedere un rapporto semplice perché tanto acuta era stata quell’eccitazione che l’orgasmo era arrivato appena una manciata di secondi dopo che aveva sentito il caldo umido della sua vagina. Del resto, questo era un limite della sua sessualità che lo condizionava quasi costantemente. Ma, avendo diritto ancora a qualche tempo di permanenza in camera «Hai voglia di parlare un po’?» le chiese.
«Perché? Abbiamo qualcosa di cui parlare noi due?» aveva risposto lei alzandosi dal letto.
«Forse. Non ti ho mai vista qui. Mi piacerebbe incontrarti ancora.»
«Puoi venire quando vuoi. Mi trovi per quindici giorni. Tu cosa fai? Lavori in banca?»
«Ti sembro il tipo del bancario?»
«Sì… bancario, impiegato. Non sei un operaio.»
«Brava. Sono un professore.»
«Perché non sei arruolato?»
«Potrebbero chiamarmi da un momento all’altro. O forse non sono arruolabile, perché mio padre è un comunista rifugiato in Svizzera e mio fratello è un antifascista militante e ricercato.»
«Mio fratello invece deve partire. Va in Etiopia.»
Detto questo, per la Profumata il dialogo era finito. Gli volse le spalle e si accostò al lavandino.
Gianni chiuse la porta e scese le scale pensando a lei. Non era riuscito a conoscerne neppure il nome. Ma presto l’avrebbe rivista.
Aldo, un po’ euforico, lo aspettava. La Livornese con cui era stato…! Diceva che non poteva non parlarne. E Gianni, che ancora faticava a staccarsi dalle sensazioni appena provate, provava ad ascoltarlo.
24 ottobre
Il pomeriggio era grigio. Non c’erano nubi a ingombrare il cielo ma una calotta densa e uniforme lo occupava e colorava di malinconia la città. Gianni camminava veloce lungo corso Giulio Cesare, verso la Stazione Brignole. Passava davanti alla Casa dello Studente. Erano stati impiegati solo due anni per costruire quell’edificio, e ora era diventato uno dei tanti simboli dell’architettura fascista che giorno dopo giorno rinnovava la città. Una casa per gli Studenti. Non si poteva negarne la validità della funzione: un altro asso nella manica per i sacerdoti della liturgia littoria. Scese verso la Stazione. Per arrivare al Castagna doveva percorrere via XX Settembre fin quasi a Piazza De Ferrari. Poi, raggiunta Porta Soprana, doveva immergersi nella vita autentica della città, quella dei vicoli. Camminava veloce. Il desiderio di incontrare la Profumata lo aveva tormentato per la settimana intera. Non poteva permettersi di cedere troppo spesso alla passione, con l’unica entrata del suo stipendio di professore da una parte, e le spese di casa e di mantenimento della sorella che gravavano sul bilancio dall’altra.
Varcò il portone della casa dalle persiane chiuse. Salì due alla volta i gradini della scala ansimando un poco per l’eccitazione e la fatica insieme e finalmente fu nella sala. Il Castagna era uno dei bordelli che a Genova si dicevano da misci; perciò non si trovavano lì quelle bellezze delicate dalla pelle bianca che sembrava porcellana, che gli avevano detto essere la prerogativa del Pomino o del Suprema. Le ragazze del Castagna comunque erano giovani e, coperte appena da qualche sembianza di abito, sfilando davanti ai clienti muovevano dolcemente i loro fianchi morbidi, i seni pieni e le braccia sode. Le osservò ma non vide la Profumata.
Anna
26 ottobre 1935 (sabato)
Anna era tornata. Il suo rientro a casa aveva riportato Gianni alla normalità delle regole della vita quotidiana. Basta mangiare pane e formaggio, senza neppure apparecchiare la tavola: sua sorella Anna cucinava ogni giorno pretendendo però che si rispettassero gli orari e si salvasse la forma dei riti familiari - quella famiglia che era dispersa lei la mitizzava nelle loro due persone - primo fra tutti quello dei pasti. Anche se da mangiare in quel periodo non c’era molto perché le sanzioni stabilite dalla Società delle Nazioni contro l’Italia per l’attacco all’Etiopia cominciavano a far sentire i loro effetti. Il caffè e il tè scarseggiavano, la carne si trovava ma sulla loro tavola compariva di rado. Il duce invitava a consumare italiano, alimentando il mito del bastare a se stessi, e Anna ci provava facendo bastare a sé e a lui ogni giorno qualcosa di meno.
Comunque con Anna a casa Gianni si sentiva bene perché lei gli garantiva un’identità, quella della famiglia a cui entrambi appartenevano. Poi, con Anna a casa, anche Aldo aveva ricominciato a farsi vedere il pomeriggio. Diceva: «Passavo di qui» e Anna spesso lo invitava a fermarsi. Così si sedevano a tavola tutti e tre insieme e Gianni si rassicurava vedendo di fronte a sé le persone che in quella fase della sua esistenza costituivano per lui i più immediati riferimenti. Gli mancavano il padre e il fratello, con il loro esempio e le loro certezze. Erano lontani, sorretti da quelle convinzioni incrollabili per le quali avevano affrontato l’esilio. Una fede che a lui non erano stati capaci di trasmettere. O che forse non aveva saputo recepire. Gli mancava sua madre: di lei invidiava il coraggio con cui aveva lasciato la casa. Aveva abbandonato anche loro, i figli, per seguire il marito. A volte le serbava rancore per questo. Ma ammirava la fermezza con cui sua madre sosteneva i propri ideali: bisogna che la fede negli ideali sia davvero solida per poter far di essi una ragione di vita, rifletteva con una nota d’amarezza.
L’unica dottrina in cui lui credeva, invece, quella della cultura, si manifestava come una credenza timida e privata, un mito debole e sottomesso, incapace di armare le folle e di scatenare rivoluzioni. Perciò, a volte, si sentiva un uomo senza forza. La cultura gli diceva che il regime era una struttura artificiosa e ingannevole, che tutte quelle parate nascondevano una serie d’inganni, un vuoto morale dietro gli slogan e le immagini della propaganda; ma non gli forniva armi per combatterlo: solo quella della parola, di cui si serviva ogni giorno con gli alunni, anche se non tutti la capivano. Si chiedeva però quanto in fondo gli importasse di convincere gli altri: i suoi obiettivi erano verità e libertà di pensiero, valori che il verbo del regime ignorava e che la condotta fascista calpestava. E lui questi principi li aveva dentro di sé, sapeva riconoscerli. Prima o poi anche gli altri sarebbero stati in grado di farlo.
Era sabato. Varcò la soglia del Castagna e la vide.
Ma quel giorno la Profumata non era per lui.
Era appena entrato, quando la tenutaria chiese il libero
e la sala fu quindi immediatamente sgomberata da tutti i clienti comuni
per lasciare spazio appunto libero a un personaggio che non voleva essere visto. A volte succedeva. Nella maggior parte dei casi si trattava di gerarchi fascisti che potevano così scegliere in privato la propria compagna d’intrattenimento.
Gianni rientrò in sala e notò che mancava proprio lei.
«È tornata la Jolanda professore…» lo invitava la tenutaria. Ma lui non voleva la Jolanda che pure gli piaceva, con il suo seno pieno e turgido e le sue cosce sode: avrebbe aspettato che la Profumata si liberasse.
«La Profumata è impegnata per due ore, ma ci sono le altre signorine» lo deluse la tenutaria. «Provi la Sorbona. Poi mi saprà dire.»
Il nome indicava la specialità e Gianni già aveva sentito parlare delle proprietà particolari della Sorbona. Ti faceva uscire di testa, dicevano. Bisognava sentire come lavorava con la lingua. Ma lui era qui per la Profumata: se non riusciva ad averla se ne sarebbe tornato a casa.
«Aspetto la Profumata. È lei che voglio.»
Profumata era scesa in sala al termine delle due ore previste e Gianni era riuscito anche a intravvedere l’uomo che era stato con lei: esibiva la figura solida e dritta dell’uomo sicuro di sé e l’incedere arrogante di quello che conosce il proprio potere. Esattamente l’opposto dell’aspetto di Gianni, fragile ed esile nelle spalle strette sulle quali una donna non poteva fare affidamento, e del suo portamento un po’ curvo nella maniera di quello che il mondo lo affronta insicuro, mai di petto, e che nelle proprie scelte, per quanto oneste, è sempre tormentato dall’incertezza del dubbio. Ma a Gianni questo non importava: ora, per il quarto d’ora che poteva permettersi di pagare, avrebbe avuto Rosa per sé.
Salirono in camera.
«Come stai professore?» lo salutò la Profumata.
«Ho voglia di stare con te. Sono due ore che aspetto. Chi era quello?»
«Un pezzo grosso. Vice segretario federale. Ma non si deve sapere che viene qui. Mi raccomando. È un buon cliente. E non voglio perderlo.»
«Perché? Cos’ha di diverso dagli altri?» l’apostrofò Gianni che già cominciava ad alterarsi.
«Non sono fatti tuoi. I miei clienti li giudico io e non devo spiegazioni a nessuno, nemmeno a un professore. O sei qui per parlare degli uomini che ricevo?»
«Scusa. Il fatto è che per due ore non ho fatto che pensare all’uomo che stava con te e a quello che faceva.»
«Ehi, professore, questo per me è lavoro…»
Gianni non sapeva se fosse gelosia la sensazione che lo assaliva: Rosa gli piaceva e lo infastidiva pensare che un Fascista, perché era un buon cliente
, potesse soddisfare le sue voglie con lei per oltre due ore. Le si avvicinò con prepotenza, accarezzandone e baciandone avidamente la pelle profumata e la possedette con un’irruenza quasi aggressiva.
«Che ti è successo oggi professore? Sei stato appassionato…» gli sussurrò lei all’orecchio quando Gianni raggiunse l’apice del suo desiderio. «Dunque sei