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Damigella
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E-book339 pagine3 ore

Damigella

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Info su questo ebook

Sullo sfondo del sacco di Roma a opera dei famigerati Lanzichenecchi, una cortigiana, intenzionata a cambiare vita, si trova paradossalmente sposata a un nobiluomo straniero. È l'inizio di un'intrigante avventura alla scoperta di sé stessa, dove niente e nessuno sono realmente ciò che sembrano...
"Ombre Rosa" è una collana e insieme un viaggio alla riscoperta di un'intera generazione di scrittrici italiane che, tra gli anni Settanta e gli anni Duemila, hanno posto le basi del romanzo rosa italiano contemporaneo. In un'era in cui finalmente si colgono i primi segnali di un processo di legittimazione di un genere letterario svalutato in passato da forti pregiudizi di genere, lo scopo della collana è quello di volgere indietro lo sguardo all'opera di quelle protagoniste nell'ombra che, sole, hanno reso possibile arrivare fino a questo punto, ridando vita alle loro più belle storie d'amore.
LinguaItaliano
Data di uscita13 mag 2024
ISBN9788727061092
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    Anteprima del libro

    Damigella - Roberta Ciuffi

    Damigella

    Cover image: MidJourney

    Copyright ©2000, 2024 Roberta Ciuffi and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788727061092 

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Sommario

    Nota dell'autrice

    10 

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    Conclusione

    Nota dell'autrice

    L'occupazione di Roma da parte degli eserciti imperiali di Carlo V fu un evento talmente sconvolgente che finì per rappresentare agli occhi dei contemporanei, come dei posteri, il Sacco per antonomasia.

    Tutti gli storici hanno evidenziato come la responsabilità delle atrocità perpetrate vada equamente divisa tra i soldati delle varie nazionalità; ma è indubbio che nella memoria popolare i lanzichenecchi siano rimasti come il simbolo stesso dei razziatori, esseri quasi demoniaci per crudeltà e avidità.

    Anche del Conestabile di Borbone, che pure morì il giorno dell'assalto, restò un ricordo indelebile: storpiato in Barbone, per secoli il suo nome venne usato a Roma come spauracchio per spaventare i bambini.

    Fate la ninna e passa via Barbone

    E nun vieni' più su, che c'è papane

    Che te caccia fora cor bastone!

    Ninna nanna, ninna oh!

    Mia madre ricordava di averla sentita cantare a sua nonna.

    Superando i consueti tre giorni consentiti per far bottino, le vessazioni degli imperiali proseguirono in effetti per nove mesi. Il calcolo dei morti si aggirò sulle 30.000 persone (circa metà della popolazione), e 13.500 furono le case distrutte.

    La devastazione operata è evidenziata da un indice indiscutibile: la modificazione della lingua parlata. Il dialetto romano antecedente al 1527 era simile al napoletano; quello seguente (l'attuale) un dialetto del centro Italia. Segno che in seguito al Sacco la composizione cittadina mutò.

    Per quanto riguarda 'Damigella', per lo più mi sono basata su fatti realmente accaduti, pur con qualche necessario volo di fantasia: la descrizione degli appartamenti del Governatore della biblioteca vaticana, ad esempio, è del tutto inventata.

    Alcuni dei personaggi del romanzo, invece, sono storici, effettivamente esistiti, e tra questi vi è Jehan de Bontemps. Egli fu davvero scudiero e persona di fiducia del principe d'Orange, che seguì nella sua avventura italiana. Di lui si persero le tracce nel 1528, a Napoli, in concomitanza con l'assedio della città da parte dei francesi; dopo di allora non se ne seppe più nulla.

    Forse morì. Forse disertò. O forse a quel tempo si era già fatto una famiglia e aveva altro cui pensare.

    Voglio raccontarvi di come è nato questo personaggio.

    Avevo la protagonista femminile, ma il protagonista maschile non voleva saperne di rivelarsi. Pensavo a un capitano spagnolo, forse… ma era tutto molto vago. Facendo delle ricerche alla Biblioteca Nazionale, trovai un libretto piuttosto vecchio, in francese, che riportava le spese della 'casa' del principe d'Orange. Compreso il periodo del Sacco. Mi colpì particolarmente un'annotazione fatta nella notte precisa della caduta della città. Mentre tutto attorno infuriava l'inferno, lo scudiero e segretario del principe annotava la perdita di due ducati al gioco dei tarocchi. È stato così che ho conosciuto Jehan de Bontemps, il suddetto scudiero. E leggendo della sua misteriosa scomparsa, mi sono detta: è lui. Avevo trovato il mio protagonista. E assieme a lui i suoi amici e compagni, gli altri scudieri del principe.

    La realtà storica di questi personaggi spiega la somiglianza dei nomi di alcuni di loro. Fossero stati di fantasia, non li avrei chiamati tutti Jehan o Jean.

    Al contrario dei cavalieri francesi, la protagonista ne ha parecchi e vari. Damigella è il suo nome da cortigiana, Inez quello con cui è stata battezzata, Agnese quello con cui la chiamavano le persone che l'avevano cresciuta e con cui lei chiamava se stessa. Nel rivedere questo romanzo, mi sono posta la domanda se eliminare almeno Inez, ma ho deciso di no. Non mi avrebbe fatto gioco per un punto cruciale della storia, quello in cui Agnese viene scambiata per una dama spagnola. La motivazione originale per cui ho usato più di un nome per la stessa protagonista, è però che avevo intenzione di scrivere una trilogia, una saga. Il primo volume si sarebbe chiamato Damigella, il secondo Agnese e l'ultimo Inez. Purtroppo, non sono riuscita a realizzare il progetto. L'incertezza di come sarebbe stato accolto mi ha scoraggiato dall'intraprendere la massa di ricerche necessarie a portare i miei due de Bontemps nella Narni assediata dai lanzi e poi alle Quattro Pietre, nel Contado Venassino. E tutto è rimasto nel cassetto delle storie incompiute.

    Roma, anno 1517 

    «Damigella, smetti di grattarti la fronte. Ti guasterai la pettinatura.»

    Anche se in realtà stava solo cercando di tergere le goccioline di sudore che continuavano a scivolare fino alle sopracciglia, al severo richiamo della madre Agnese ritirò in fretta la mano.

    Giugno era un mese già caldo per lei, cresciuta sotto i monti della Savoia. Inoltre, le cortine della scomoda carretta che procedeva faticosamente, a balzelloni, erano tirate e non facevano passare neppure un filo d'aria. Alle sue proteste, però, la madre aveva dichiarato che era proprio così che dovevano restare, con quel tono secco che ormai le conosceva e che le aveva tolto il coraggio di continuare a lamentarsi.

    La bambina sbirciò la donna che le sedeva di fronte. Era sua madre, ma anche un'estranea. La zia che l'aveva allevata aveva spesso esaltato la bellezza e l'ingegno di questa sorella minore, il cui nome, Lionora Rivadeneyra, detta la Catalana, ricorreva in poesie e canti d'amore scritti apposta per lei. Quel che la zia aveva dimenticato di menzionare era che Lionora non provava il minimo affetto per sua figlia e che evidentemente non vedeva motivo di fingerne.

    Le rare volte in cui i suoi freddi occhi celesti la sfioravano, tutto quel che Agnese riusciva a scorgervi era il riflesso di un sentimento di repulsione. La sua voce, nel rivolgerle la parola, vibrava sempre d'impazienza. Le sue dita schioccavano, come per impedirsi di darle un ceffone.

    E chissà perché non lo faceva, rimuginò tra sé la bambina. La zia non era stata certo avara di punizioni, con lei come con i suoi cinque figli, eppure non ne aveva pensato male per questo. Quanto meno, era stato un segno di interesse da parte sua.

    «Damigella, stai ferma. Ti agiti come un'anguilla.»

    Al richiamo, si immobilizzò, mordendosi l'interno delle labbra. Non le piaceva il nuovo nome che la madre le aveva imposto, ma non osava dirlo. Avrebbe preferito continuare a essere Agnese, anche se ben poche delle donne che frequentavano la casa della Catalana sembravano possedere un nome cristiano.

    Le amiche della mamma erano tutte giovani e belle, allegre e rumorose come uccelli variopinti in una giornata di sole. Dovevano essere anche molto ricche, perché le tolette che indossavano erano le più eleganti che la bambina avesse mai visto e di certo le più vistose.

    Il colore dei loro capelli spaziava dal biondo vivo fino al rosso cupo, mentre una natura molto propizia pareva aver bandito dalle loro teste ogni tonalità bruna. La cosa era risultata strana ad Agnese, almeno fino a due giorni prima, quando una donna grassa e dalla faccia di luna piena l'aveva sottoposta a un procedimento inteso a trasformare il castano carico delle sue chiome in un cosiddetto 'rosso tramonto'.

    La seduta era stata lunga e irritante, e più volte la bambina si era ritrovata con le lacrime agli occhi, ma i rimbrotti della madre le avevano impedito di spingere oltre le sue proteste. Non aveva osato ribellarsi neppure quando la grassona le aveva strappato i peli delle sopracciglia, che aveva giudicato troppo folte. Poi, denudatala, l'aveva esaminata attentamente. Agnese s'era sentita morire di vergogna sotto lo sguardo che scorreva dai suoi piccoli seni alle gambe magre, e aveva respirato di sollievo quando quella, alla fine, le aveva detto di rivestirsi.

    «Non c'è altro da togliere» aveva affermato la donna. «È ancora troppo giovane, là sotto.»

    «Oh, non poi troppo, credo, no!» aveva esclamato Paradisia, la migliore amica della mamma, scoppiando a ridere.

    Anche le altre donne, quella sera, ne avevano riso. Dalla stanzetta in cui era alloggiata, Agnese aveva udito il suono sgangherato delle loro voci, le piccole strida alticce, e si era chiesta cosa avessero mai di tanto divertente quelle poche parole.

    Nella carretta, il caldo diventava sempre più intenso. Immobile, il volto apparentemente sereno e privo d'espressione, Lionora Catalana era assorta nella contemplazione delle proprie mani giunte in grembo, quasi fosse immune da ogni emozione volgare.

    La bambina avrebbe desiderato volerle bene, ma non ci riusciva. Per anni aveva favoleggiato su questa sua misteriosa, bellissima madre, e si era sempre sentita un po' diversa dalle cugine perché era certa che un giorno lei sarebbe tornata a reclamarla. Il suo destino non sarebbe stato simile a quello delle altre: un marito scelto tra gli apprendisti dello zio, una piccola dote, una casa appena dietro l'angolo. Qualcosa l'aspettava, lontano, a Roma: una città altrettanto remota quanto l'Oriente misterioso.

    E nonostante nei suoi sogni di bambina cullasse un timido innamoramento per il maggiore dei suoi cugini, che era partito soldato, attendeva anche con ansia il giorno in cui si sarebbe ricongiunta alla sconosciuta che l'aveva messa al mondo.

    Ora, invece, nella traballante carretta soffocata dal caldo e dai profumi di cui Lionora si cospargeva in abbondanza, Agnese provò un lancinante senso di rimpianto per la sua vita passata, nella semplice e affollata casa del falegname che le aveva fatto da padre.

    Lionora alzò d'improvviso lo sguardo su di lei, che sorrise, accendendosi a quell'imprevisto interesse. La donna non corrispose al sorriso; parve anzi accigliarsi e dopo un istante girò la testa di lato.

    Il volto della bambina si allungò per la delusione. Avrebbe tanto voluto sapere perché non l'amava. Perché, se la sua presenza l'infastidiva al punto di proibirle di chiamarla mamma, l'aveva mandata a prendere per portarla a Roma. E avrebbe soprattutto voluto sapere dove la stava portando, abbigliata come una principessa, con i capelli tinti e la testa velata.

    Era troppo piccola per andare sposa. Non aveva ancora compiuto i tredici anni. Forse le avevano trovato una posizione come ancella presso qualche grande signora… anche se dubitava che in tutto il mondo potesse esisterne una più grande di sua madre.

    Un sobbalzo della carretta la fece d'improvviso scivolare di lato. Scoppiò a ridere prima di potersi frenare e poi si mise la mano sulla bocca. Lanciò un'occhiata alla donna, che però parve non aver notato nulla. Allora si ricompose, disponendosi ad attendere la fine del viaggio.

    Senza che la figlia lo notasse, invece, di tanto in tanto Lionora gettava uno sguardo in tralice alla piccola figura seduta di fronte a lei. Non era propriamente soddisfatta di quel che vedeva. Si era aspettata che fosse più in carne, più matura per la sua età; ma anche così, la bambina era graziosissima.

    Con una punta di fastidio pensò che un giorno, quando le sue attrattive femminili fossero sbocciate appieno, sarebbe potuta diventare bella.

    Non bellissima, però: per quello, le mancavano i colori giusti, alla moda. I capelli, almeno, potevano essere tinti; ma per quegli occhi tra il grigio scuro e il verde non c'era niente da fare. Che stranezza: e dire che, alla nascita, Paradisia le aveva assicurato che con il tempo sarebbero diventati celesti, proprio come i suoi!

    Quanto alla pelle, poi, a nulla era servito segregare la bambina in casa per evitarle ogni raggio di sole. E nessun effetto avevano avuto le miracolose pomate cosmetiche della sua erborista di fiducia. Aveva dovuto rassegnarsi: quel tono dorato era naturale e non modificabile con accorgimenti o artifici. Chissà da quale dei suoi amanti passati l'aveva ereditato.

    Lionora emise un piccolo sospiro d'impazienza. Era seccante che Agnese si discostasse dalla perfezione che si era aspettata da lei. E tuttavia, pensò con un sorrisetto di compiacimento, anche consolante. Sua figlia non l'avrebbe mai superata in bellezza.

    «Stai dritta, Damigella. Devo risistemarti il corsetto. Cosa hai fatto, santo cielo? Non ho mai visto una persona agitarsi tanto.»

    Gli occhi della bambina guizzarono di lato, stupefatti. Per una volta i rimproveri della Catalana non le facevano alcun effetto. Già da qualche tempo s'era accorta che avevano lasciato la zona più popolosa della città. Aveva sentito scemare le grida dei venditori, il cupo rimbombo delle ruote e quella specie di mormorio incessante che faceva da sfondo alle sue giornate, rinchiusa nella casa della madre. Stupita, s'era drizzata sul suo posto, desiderando fino allo spasimo di poter aprire le tende e guardare fuori.

    Il fondo stradale, sempre sconnesso, era sembrato però divenire meno intralciato. E gli odori, quei terribili odori che ristagnavano nelle vie, erano stati sostituiti da un aroma dolce, di fiori, misto a quello appena più pungente dell'erba tagliata. Stavano andando in campagna.

    Infine, quando già credeva che sarebbe morta dalla curiosità, la carretta s'era fermata e la madre le aveva imposto di scendere.

    Quasi accecata dal sole dopo tanta penombra, Agnese aveva battuto le palpebre più volte, prima di sbarrarle sbalordita. Davanti a lei s'ergeva una costruzione di un tipo che non aveva mai visto né immaginato. Colonne, statue, marmi, festoni, ampie scalinate che s'avvolgevano sinuose per incontrarsi al centro su ballatoi leggeri come ricami… Mille particolari sconnessi la colpivano, senza che riuscisse a fonderli in un qualcosa di unico e descrivibile. E tutto ciò era circondato da un giardino talmente grande che non se ne vedeva la fine.

    «È la casa del Papa?» chiese, intimorita.

    Lionora fece un sorrisetto, prima di risistemarle il velo che le era scivolato sulle spalle. «No. Ma non sei molto lontana dal vero.»

    Senza sapere come spiegarsi quell'affermazione, Agnese accettò la mano della madre, la quale con passo svelto la condusse a una rampa che scendeva fino a una porta un po' interrata. Un servitore in attesa aprì in fretta, senza che ci fosse bisogno di segnale, e si mise a precederle indicando loro il percorso. Il velo scivolò di nuovo più volte, mentre la bambina camminava con il capo rovesciato all'indietro e lo sguardo perso sui soffitti affrescati.

    Scene di battaglie, divinità sconosciute, carri alati e fiammeggianti, bellezze discinte, strani animali mai visti, un tale vorticoso mutare di immagini da farle girare la testa. Agnese era talmente confusa e stupefatta che quasi non si accorse quando la madre si fermò davanti a una porta chiusa e il servo, dopo un colpo e un cenno di saluto, prese congedo.

    Non sapeva cosa si fosse aspettata, ma, dopo la magnificenza delle sale che avevano attraversato, la modestia della stanzetta in cui entrarono la deluse. Era una specie di camerino, grande quanto poteva esserlo uno di quelli della casa di Lionora. Disadorno, a parte un tavolino apparecchiato per il gioco degli scacchi e due seggioloni accanto. Su uno di questi sedeva un uomo.

    La bambina ebbe appena il tempo di dargli una rapida occhiata, prima che la madre la precipitasse in un profondo inchino.

    «Su, su, non esageriamo.» La voce maschile era bassa, ma suadente.

    Agnese si raddrizzò, notando, perplessa, che lo sconosciuto non s'era mosso affatto. Era la prima volta che riscontrava quell'indifferenza quasi arrogante in un uomo che si trovava al cospetto della madre e girò lo sguardo su di lei, per vedere che ne pensasse.

    Le labbra di Lionora sorridevano, ma nei suoi occhi brillanti si rincorreva un misto di emozioni che la bambina non seppe decifrare.

    Lo sconosciuto parlò di nuovo. «Così questa è la vostra pupilla.»

    «Sì mio signore» rispose Lionora, chinando appena il capo. «La madre me l'affidò in punto di morte, scongiurandomi di fare il possibile per garantire il suo avvenire. Questa è la promessa che le ho fatto e non le sono mai venuta meno» concluse in tono modesto, ignorando l'espressione stupita della figlia.

    «Torna a vostro merito l'aver tenuto fede a una promessa tanto onerosa» commentò l'uomo, spostando su Agnese uno sguardo distratto.

    Era ancora giovane, notò lei, anche se non troppo. I capelli lunghi alle orecchie erano lisci e scuri, con una frangia fitta sulla fronte. Le guance prive di barba erano fresche, gli occhi limpidi. Sulle mani ben curate non portava anelli e, benché sotto fosse perfettamente vestito, indossava una lunga veste da camera non annodata. Lo sguardo dell'uomo tornò sulla Catalana.

    «Vi ringrazio dell'incomodo che vi siete voluta prendere» disse, in tono di chiaro congedo.

    «Non è neppure il caso di farne menzione, mio signore.»

    La voce flautata della madre fece guizzare un'espressione sorpresa sul volto della bambina. Lo sconosciuto, che se n'accorse, non poté reprimere un sorriso. La mano di Lionora si sciolse da quella della figlia. La donna si esibì nuovamente in un profondo inchino e, ad Agnese che stava per imitarla, sibilò: «Tu no, sciocca».

    Il servitore di poco prima apparve sulla soglia e con un gesto le indicò la via. La bambina fece per insinuarsi dietro la madre, la quale, girandosi a mezzo, l'allontanò da sé con una spinta noncurante. La porta si richiuse sulla sua faccia stupefatta.

    Senza capire, Agnese si afferrò alla piccola maniglia, ma non ottenne alcun risultato. Chiamò, esitante: «Madrina?» Le rispose solo un trepestio di piedi in movimento. «Madrina?» ripeté, in tono più allarmato. Tornò ad attaccarsi alla maniglia, girando, tirando e spingendo, ma la porta non si aprì.

    Di colpo terrorizzata, comprese di essere stata abbandonata. Abbandonata in quella casa sconosciuta, in compagnia di quell'uomo sconosciuto… Incapace di dominare la paura si avventò contro la porta, gridando: «Madre! Madre, per carità, non mi lasciate!»

    Nessuno le rispose. Battendo disperatamente le palme contro il legno, continuò a chiamare con una nota isterica nella voce: «Madre! Madrina mia, tornate indietro! Sarò buona, ve lo giuro… non vi farò più arrabbiare… Madre!»

    «Damigella.»

    Si girò rapidamente, rammentando d'un tratto la presenza dell'uomo. Lui teneva lo sguardo fisso al gioco sulla tavola e non la guardava. Sembrava un po' corrucciato, soprappensiero. La bambina premette con forza il corpo contro la porta chiusa, quasi potesse passarvi attraverso. Il rumore del suo cuore martellante le riempiva le orecchie.

    «La tua madrina mi ha riferito che conosci l'arte degli scacchi.»

    Non rispose, limitandosi a guizzare gli occhi sbarrati sulle pareti della stanza, alla ricerca di una via di scampo.

    Senza far caso alla sua scortesia, l'uomo chiuse una mano a pugno e vi poggiò sopra il mento. «Devo confessarti che mi trovo in una situazione imbarazzante» disse in tono lievemente irritato. «Ieri sera, giocando con il mio segretario, ho sbadatamente posto il mio Re in una situazione molto difficile, dalla quale non mi riesce di uscire. Saresti in grado di aiutarmi?»

    Agnese fece cenno di no con la testa. Per la verità, incapace di concentrarsi, non aveva capito che la metà delle parole dello sconosciuto.

    «Che peccato!» esclamò lui, sollevando una mano a sfiorare i pezzi bianchi, quasi volesse trarne ispirazione. «Ed io che speravo di averla vinta su quel saccente presuntuoso…»

    La bambina spostò lo sguardo sulla scacchiera. «Il cavallo» disse di getto. «Potreste avanzare il cavallo.»

    La mano dell'uomo si bloccò sul pezzo da lei nominato. Le sue sopracciglia scure si inarcarono, dubbiose. «Tu dici? Per la verità ci avevo già pensato, ma mi sembrava un sollievo temporaneo.»

    Afferrò il cavallo, una piccola statua d'avorio accuratamente scolpita, e lo batté un paio di volte con impazienza sul suo riquadro. Poi, per la prima volta da quando Lionora se n'era andata, girò gli occhi sulla bambina immobile accanto alla porta. Sotto la fronte aggrottata, il suo sguardo era sereno, privo di minaccia.

    «Ascolta cosa faremo» propose, impulsivamente. «Tu prenderai i pezzi bianchi e tenterai un'estrema difesa del mio Re. Io farò la parte del mio segretario. Vedremo come andrà a finire.»

    Con gesto rapido fece ruotare la scacchiera, avvicinandosi la postazione dell'esercito nero. Perplessa, Agnese seguì il movimento. La sua attenzione fu catturata dall'immagine del Re bianco, su cui convergeva la minaccia riunita della Regina nera e del suo alfiere. Era veramente in una pessima posizione. L'uomo aveva ragione, la sua mossa di cavallo non sarebbe mai stata sufficiente.

    Impercettibilmente, i piedi della bambina si staccarono dal pavimento e, un passo dopo l'altro, Damigella cominciò ad avanzare in direzione della scacchiera.

    Dieci anni dopo

    «Fuoco e fiamme! Una tempesta di fuoco e fiamme si avventerà su di voi, figli di Satana!»

    Inerpicato in equilibrio precario in cima alla statua di San Pietro, l'uomo si sbracciava verso il basso, additando ora l'uno ora l'altro nella folla che lo circondava. L'agitazione che a ogni momento minacciava di farlo cadere si manifestava anche nell'espressione del volto, negli occhi sbarrati e animati da un fuoco fanatico, nella bocca stirata sui radi denti neri.

    Era terribilmente magro e le vesti stracciate gli pendevano dal corpo, riparandolo appena il necessario per non offendere il pudore. Una foresta di pelo rosso brulicante d'insetti gli copriva testa e guance.

    «Fermatevi.» L'ordine, impartito da una tranquilla voce femminile, fu accompagnato da un cenno della mano che aveva scostato le cortine della lettiga. «Voglio ascoltare.»

    «È solo quel pazzo di senese, mia signora» replicò scontento uno dei portatori. «Non dice niente di nuovo.»

    «So bene chi è. Ma voglio ascoltare comunque.»

    «L'ira di Dio spazzerà via il peccato! Per le vostre colpe la città cadrà con il fuoco e con il ferro!»

    Delle grida di malcontento coprirono le ultime parole dell'uomo. La portantina oscillò sotto la spinta di una massa di corpi che si spostava per andare a raggiungere il piedistallo della statua.

    «Sta' zitto, profeta di sciagura! Abbiamo abbastanza guai senza che tu ci attiri anche l'ira dell'Onnipotente…»

    «Pentitevi, peccatori malnati! E tu, bastardo sodomita, convertiti o vedrai il sangue della tua gente scorrere sugli altari!»

    Un'esclamazione oltraggiata riecheggiò nella piazza antistante la basilica di S. Pietro e corse tra le case che la circondavano, quando la maledizione del pazzo, volando di bocca in bocca, ne raggiunse ogni angolo. La folla sotto la statua oscillò, si divise, permettendo il passaggio di una pattuglia di guardie svizzere.

    Il capitano piegò la testa per rimirare con espressione contrariata il triste profeta. Non aveva certo voglia di issarsi fin lassù per stanarlo e i suoi uomini condividevano quell'avversione.

    «Scendi giù, Brandano, o chiamo Iddio a testimone che stavolta ti taglio la gola» esclamò, portandosi i pugni ai fianchi.

    «Non potete mettere a tacere la collera di Dio…»

    «E intanto provvedi di tacere tu, pidocchio. Forza, scendi.»

    La donna nella portantina lasciò ricadere la tenda. Scosse il capo, un lieve sorriso sulle labbra appena ravvivate dal trucco. «Lo arrestano di nuovo.

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