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È facile vivere bene a Firenze se sai cosa fare
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È facile vivere bene a Firenze se sai cosa fare
E-book317 pagine4 ore

È facile vivere bene a Firenze se sai cosa fare

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Info su questo ebook

Una guida che va oltre i soliti percorsi turistici

A Firenze si coltiva un’arte segreta, nascosti all’ombra degli antichi capolavori: l’arte dello star bene

Il viver bene non è soltanto una tradizione locale, ma un’attitudine che il fiorentino porta sempre con sé, in patria come all’estero. È facile vivere bene a Firenze se sai cosa fare vuole seguire questa traccia proponendo una guida insolita, che suggerisce non tanto dei percorsi turistici, ma veri e propri “percorsi benessere”. Perché, per quanto suoni banale, in vacanza – e non solo – star bene è importante. Per chi arriva a Firenze da turista sarà l’occasione per scoprire la città in modo diverso, magari andando alla ricerca di trattorie tipiche in viuzze poco battute, o passando una serata in un piccolo teatro poco noto. Per chi a Firenze vive, sarà uno strumento per godere appieno di tutto quello che la città può offrire, e che spesso passa inosservato.
Francesco D'Isa
è nato a Firenze. Laureato in Filosofia, le sue opere di arte visiva vengono pubblicate ed esposte in tutto il mondo. È autore del fumetto I. (2011) e del romanzo Anna - storia di un palindromo (2014). Dirige la rivista «L’Indiscreto» e scrive per testate online tra cui «Post». Insieme con Matteo Salimbeni per la Newton Compton ha pubblicato Forse non tutti sanno che a Firenze… e È facile vivere bene a Firenze se sai cosa fare.
Matteo Salimbeni
è nato a Firenze. Si è diplomato all’Accademia d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano. È drammaturgo e autore di varie opere teatrali di prosa e lirica rappresentate in giro per l’Italia e all’estero. Fa parte del collettivo teatrale snaporaz. Ha scritto romanzi, sceneggiature e racconti per numerose riviste.
LinguaItaliano
Data di uscita9 nov 2016
ISBN9788822702340
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    Anteprima del libro

    È facile vivere bene a Firenze se sai cosa fare - Francesco D'Isa

    Parte prima

    Musei insoliti

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    Santa Maria del Fiore in un’incisione ottocentesca.

    Di certo a Firenze i musei non mancano e chi è in città per la prima volta non si negherà una visita ai più celebri della zona – che oltretutto coincidono con alcuni dei più famosi e antichi al mondo. Nonostante questo, però, i musei fiorentini più noti non sono che una piccola percentuale di quelli visitabili; sembra strano, ma Firenze non ospita solo i capolavori del Rinascimento italiano.

    D’altra parte i musei non sono tutti uguali, anzi, se si osserva la storia di queste istituzioni è evidente come si differenzino nel tempo e nello spazio. Sviluppatisi in antichità come donazioni o bottini accumulati nei templi, nei santuari e nelle case dei principi, i musei assumono una forma simile a quella contemporanea attorno al 1570, con l’Antiquarium a Monaco di Baviera, seguito di lì a poco (nel 1581) proprio dalle gallerie degli Uffizi di Firenze, una struttura espositiva che supera in grandezza tutte quelle fino allora diffuse in giardini, corti e ninfei. Ma l’anima del museo non è solo quella di un luogo «sacro alle Muse» (da cui il nome) e vive anche della tradizione più estrosa del «gabinetto delle meraviglie» (Wunderkammer), collezioni di oggetti non esclusivamente artistici, stipati in stanze private se non addirittura segrete, dove lo sguardo dei fortunati visitatori viene aggredito ovunque si posi da esemplari di storia naturale, strumenti, invenzioni meccaniche, carte geografiche, quadri, rarità archeologiche, monete, cammei eccetera Queste stanze sono sia collezioni di opere che opere in sé e per sé, e rappresentano forse la testimonianza più evidente della volontà di classificare, ordinare e collezionare oggetti dell’uomo. Sebbene siano lontane dalla scientificità delle moderne istituzioni museali, quel che perdono in merito archivistico, storico e didattico lo guadagnano talvolta in forza suggestiva. I musei comunque non si esauriscono nemmeno tra grandi istituzioni e Wunderkammer, ma sono anche la testimonianza della storia locale e della vita di singoli o gruppi di individui. È il caso, per esempio, delle case dei grandi artisti, collezionisti, uomini di Stato, ricchi industriali o fortunati avventurieri, la cui abitazione viene trasformata dopo la morte in una sorta di museo.

    Una volta dedicato il giusto tempo ai grandi capolavori dell’antichità, dunque, non dimenticate che l’interesse e la curiosità non si attivano soltanto con delle esplosioni di bellezza. I loro frutti migliori nascono invece quando si sollecitano zone dell’intelletto abitualmente addormentate; visitare uno dei musei più insoliti di Firenze potrebbe dunque essere la giusta soluzione per scoprire qualcosa di nuovo ed evitare tediosissime file.

    1. Museo Stibbert

    Un buon esempio è il Museo Stibbert (via Federigo Stibbert, 26), lascito alla città di un ricchissimo dandy inglese di nome, appunto, Frederick Stibbert (1838-1906). La fortuna della famiglia Stibbert ha origine nei non pulitissimi traffici del nonno di Frederick, Giles, nelle colonie inglesi in India, dove rivestiva un’importante carica militare. Ereditata una larga parte di questa dubbia fortuna, il nobile si inserisce presto nella vita mondana e culturale della città. Acquista una scuderia di purosangue, si iscrive al Circolo delle corse e intrattiene relazioni amorose con numerose nobildonne – senza sposarne nessuna, né ora né in futuro. Nonostante le folli spese, però, Frederick eredita sia il carattere pratico che quello bohémien che caratterizza anche altri esponenti della sua famiglia, e, anche in virtù del viscerale attaccamento per madre e sorelle, non dimentica i propri doveri familiari e investe oculatamente il proprio denaro. Una volta accasate le sorelle, l’uomo si ritrova libero di dedicare tempo e denaro come più gli piace, che sarebbe a dire nel gestire e arricchire un’immensa collezione di artigianato e arti applicate. Inizialmente le raccolte di Stibbert sono abbastanza casuali; accumula pezzo dopo pezzo una moltitudine di armi e armature, europee e orientali, così come abiti, dipinti, arredi e oggetti di ogni genere – tutti esempi di arte applicata e di grande artigianato artistico. La passione per i costumi del passato si unisce al desiderio sempre maggiore di rivivere le epoche trascorse, tanto che l’uomo utilizza la collezione come una sorta di ingombrante macchina del tempo; in varie fotografie, da lui stesso realizzate, indossa le armature della collezione e coinvolge parenti e amici nell’interpretazione di scene storiche. I suoi acquisti sono tali da colmare ben presto la pur vasta villa, tanto che è costretto, per poter proseguire la collezione, ad acquistare anche quella adiacente, villa Bombicci, e farne un’unica residenza. Realizza così il grande salone dell’Armeria, ristruttura sia gli spazi destinati alle raccolte che quelli per la vita familiare e crea un grande parco. Alla sua morte (10 aprile 1906) esprime la volontà che le proprie collezioni (di ormai oltre 50.000 pezzi) e la villa vengano istituite in un museo aperto al pubblico, con la clausola che ne venga rispettata l’organizzazione originale. Come primo legatario viene nominato il governo britannico, con la possibilità di recedere a vantaggio del secondo, ovvero la città di Firenze, che di fatto ne entra in possesso nel 1908 e istituisce la Fondazione Opera Museo Stibbert. Grazie a questi accordi, ancora oggi è possibile accedere alla sua macchina del tempo e passeggiare in stanze stipate di armi e armature di tutti i tipi.

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    L’ingresso al gran salone del Museo Stibbert, in una fotografia degli inizi del Novecento.

    2. Museo di Storia naturale sezione di zoologia La Specola

    Un altro museo celebre ma spesso ignorato è il Museo di Storia naturale sezione di zoologia La Specola (via Romana, 17, nei pressi del Giardino di Boboli), detto per brevità semplicemente La Specola. Chi esplora questo museo non troverà opere d’arte, o perlomeno non quelle che ci si aspetta di trovare in un museo; alla Specola infatti sono in mostra perlopiù animali. Non animali vivi – è un museo, non uno zoo – ma impagliati, talvolta anche in epoche lontane. Congelati in pose a effetto e inscatolati nelle grandi teche dei saloni. Dal ruggito silenzioso di un leone alle fauci immobili dei coccodrilli (uno dei quali risale all’antico Egitto), fino alle ali paralizzate di aquile, gufi e pipistrelli giganti, o le zanne pietrificate di enormi squali… le stanze della Specola generano un continuo stupore, e, in una struttura ferma ai primi dell’Ottocento (le origini del museo risalgono alla seconda metà del Settecento) è possibile ammirare una vastissima selezione di insetti, invertebrati, mammiferi, rettili, pesci, uccelli. Tra le creature più strane c’è il coleottero Titano proveniente dall’Amazzonia (18 cm circa), dei crostacei giganti del Messico, alcune specie di uccelli e invertebrati estinte o quasi (c’è persino un dodo) o i trofei di caccia donati al museo dalla famiglia reale di casa Savoia. Per inciso, è curioso notare come le specie indiane di qualunque cosa, dagli insetti ai pipistrelli, siano tendenzialmente cinque volte più grandi di quelle europee. Ma il percorso all’interno del museo è destinato a stupire sempre più; nelle sale successive, infatti, sono esposti numerosissimi modelli anatomici in cera realizzati per la scienza medica dell’epoca. L’elevata qualità della realizzazione di queste cere, che a volte sono delle vere e proprie opere d’arte, è da ascriversi a ceroplasti di fama, come Clemente Susini, Francesco Calenzuoli e Luigi Calamai, affiancati nelle loro creazioni da anatomici quali Egisto Tortori, Tommaso Bonicoli, Filippo Uccelli e Paolo Mascagni. Il museo espone solo una parte della raccolta (che ammonta a più di 1400 pezzi), conservata a una temperatura costante di diciotto gradi per evitare danni – cosa che rende la visita particolarmente piacevole in estate. Alcuni dei modelli esposti sono talmente celebri da essersi guadagnati dei nomi, come per esempio «lo Spellato», che raffigura un uomo sdraiato su un letto in una posa che si direbbe lasciva, se non fosse, per l’appunto, spellato. La statua esibisce un dettagliato manto di vasi sanguigni e capillari, realizzati facendo colare la cera da sottili fili di seta. La procedura usata per creare i manichini è molto raffinata: a partire dalla dissezione di cadaveri dell’Arciospedale di Santa Maria Nuova vengono modellate delle statue in argilla, dalle quali in seguito si ottengono calchi in gesso che vengono riempiti e rimodellati con una mistura di cere, resine e coloranti di cui ancora oggi non si conosce l’esatta composizione.

    Il museo, oltre ai summenzionati modelli, possiede inoltre quasi tutto quel che resta del famoso ceroplasta siciliano Gaetano Giulio Zumbo, che lavora a Firenze per il granduca Cosimo III de’ Medici tra il 1691 e il 1694. Si tratta di tre piccole rappresentazioni, conosciute con il nome di Cere della peste, di grande valore artistico più che anatomico: sono come spioncini da cui sbirciare l’effetto della peste in tutto il suo macabro splendore, con un vivo realismo reso ancor più grottesco dal patetismo delle pose in voga all’epoca. Chi non si accontenta di questo tour infernale può infine dedicarsi all’osservazione di una testa in decomposizione in cera, modellata su un cranio vero, e di una serie di statuine, unici resti di una figura illustrante gli effetti della sifilide, di proprietà del principe Corsini e purtroppo danneggiata dall’alluvione del 1966. Anche le cere della peste, che si trovavano al Museo di Storia della scienza, furono alluvionate e danneggiate molto gravemente; ci vollero mesi di paziente e abile restauro per riportarle al primitivo splendore.

    3. Museo di Storia naturale sezione di antropologia ed etnologia

    Il Museo di Storia naturale sezione di antropologia ed etnologia (via del Proconsolo, 12, non lontano dal Duomo) non è tra i più famosi della città, ma basta dedicare un attimo di attenzione alla sede e alla sua storia per incuriosirsi. Il museo, infatti, è situato nel cosiddetto palazzo non finito, un edificio cupo e massiccio, con grandi finestre, arricchite da grottesche di inquietanti gargoyle col muso di pipistrello e gli occhi incavati, sormontati da grandi ali piumate. Questo palazzo, la cui fondazione risale alla fine del XVI secolo, non venne mai terminato e ancora oggi è possibile osservare nel cortile interno varie sezioni con i mattoni a vista; anche all’interno l’opera è incompleta, tanto che chi lavora nel museo racconta dell’esistenza di lunghi corridoi ciechi. Un po’ per la sua storia sfortunata e un po’ per il suo aspetto sinistro, l’edificio ha dato adito a una leggenda: il ricco banchiere Strozzi (la cui famiglia commissionò l’edificio) ha così a cuore la buona riuscita del palazzo che pur di costruirlo in un solo anno stringe un patto con il diavolo, il quale, desideroso di nuove anime, non si fa pregare e si mette alacremente al lavoro, e in appena sei mesi il palazzo è quasi terminato. Mancano solo alcuni elementi strutturali e gran parte delle decorazioni; la proposta del diavolo non può che vertere su demoni, spiritelli e affini. Strozzi invece ha una richiesta spiazzante e decisamente di cattivo gusto, perlomeno per un architetto infernale: Madonne e fregi di carattere sacro. Il diavolo, non avendo né modo né voglia di eseguirli, costruisce dei gargoyle per dispetto e abbandona il progetto, lasciando dietro di sé la consueta nube di zolfo. Prima di scomparire, però, maledice il palazzo, col grido: «Mai finito, mai finito!».

    Non è solo la storia della sede museale a essere interessante, ma anche quella del suo fondatore: Paolo Mantegazza, fisiologo, antropologo, patriota e scrittore, che diede vita al museo nel 1869. Una foto dello studioso è la sua migliore introduzione; a dover trovare un volto (ottocentesco) che sintetizzi le qualità dell’avventuriero, l’estroso pensatore, l’antropologo e l’inventore, non si potrebbe scegliere di meglio. Tra i suoi meriti più bizzarri si ricordano le sperimentazioni sulla fecondazione artificiale e l’ibernazione, l’ideazione di banche di sperma per i soldati, la scrittura di libri di fantascienza (nel suo L’anno 3000 i protagonisti partono da Roma, capitale degli stati uniti d’Europa, per visitare le meraviglie di Andropoli, capitale del mondo ai piedi dell’Himalaya), ma soprattutto l’aver studiato e sperimentato più o meno tutte le droghe esistenti all’epoca – più alcune probabilmente scomparse. Celebre perlopiù per gli studi sulle foglie di coca, nel 1858 propose una classificazione di tutte le sostanze stupefacenti diffuse all’epoca e nel 1871 pubblicò il trattato Quadri della natura umana. Feste ed ebbrezze, in cui sono riportate le maggiori conoscenze dell’epoca riguardo alle sostanze psicoattive. Concludiamo il suo ritratto con una breve citazione da un suo trattato, Il concetto femminile attraverso i tempi, col solo scopo di rendere lo stile dell’autore: «Dove appare una bella donna, tutte le energie umane zampillano dalle loro fonti schierate in battaglia: tutto ciò che l’uomo ha di meglio e di peggio balza per portarle omaggio o per oltraggiarla con invidia».

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    Paolo Mantegazza in un ritratto d’epoca.

    Se le storie attorno al museo non bastano a destare il vostro interesse, lo farà il suo contenuto, un enorme patrimonio distribuito su venticinque sale, composto da utensili, gioielli e capi di vestiario provenienti dalla gran parte delle popolazioni del mondo, dalle culture africane (soprattutto le ex colonie italiane quali Libia e Somalia, ma anche Etiopia e Africa subsahariana), a quelle asiatiche (perlopiù indonesiana, ma anche delle steppe mongoliche e degli Ainu del Giappone), dalle isole dell’Oceania alle tribù indigene dell’Amazzonia. I reperti provengono sia dalle collezioni dei granduchi medicei, attratti da qualsiasi curiosità scientifica, che dalle numerose spedizioni esplorative dei secoli successivi (sarebbe più corretto definirle di conquista), fra le quali il terzo viaggio di Sir James Cook. Un contenuto interessante non solo in sé e per sé, ma anche per un’esplorazione storica del passato coloniale dell’Italia e dell’Europa.

    4. Accademia delle Arti del disegno

    Se siete nei pressi di via dei Calzaioli merita una visita l’Accademia delle Arti del disegno (via Orsanmichele, 4), la più antica accademia di belle arti del mondo (da non confondere con l’Accademia di belle arti di Firenze). Questa accademia ha origine nelle associazioni di mutuo soccorso dei mestieri tardomedievali – una sorta di arcaici sindacati – e più precisamente nella Compagnia di San Luca, che raggruppava tutti i pittori della città. L’accademia, fondata nel 1563 per volere di Cosimo I de’ Medici e su suggerimento di Giorgio Vasari, era però limitata agli artisti di spicco della summenzionata compagnia. Tra le star della prima accademia si ricorda Francesco da Sangallo, Agnolo Bronzino, Benvenuto Cellini, lo stesso Giorgio Vasari, Bartolomeo Ammannati, il Giambologna, Jacopo Ligozzi, Tiziano, Tintoretto, e, unica (e osteggiata) rappresentante femminile, Artemisia Gentileschi; membro di spicco e autore del logo dell’accademia, infine, Michelangelo Buonarroti. Dal Rinascimento al duca Leopoldo, dall’Unità d’Italia al Fascismo fino ad arrivare ai giorni nostri, l’accademia ha subìto notevoli trasformazioni e ha visto più di 6500 artisti e intellettuali tra i suoi iscritti, tra cui ricordiamo i più celebri: per la classe di Pittura, Leonardo Cremonini, Hans Erni, Lucian Freud, Richard Hamilton, Anselm Kiefer, Piero Guccione; per la classe di Scultura, Arnaldo Pomodoro, Giuliano Vangi, Dani Karavan; per la classe di Architettura, Massimo Carmassi, Marco Dezzi Bardeschi, Adolfo Natalini, Renzo Manetti; per la classe di Storia dell’Arte, Wolfram Prinz, Erich Steingräber, Detlef Heikamp, Antonio Paolucci, Zygmunt Waźbiński, David Whitehouse; per la classe di Discipline umanistiche e Scienze, Franco Cardini, Umberto Colombo, Tullio Gregory, Carlo Ginzburg. La maggior parte delle opere dell’accademia è confluita in vari musei cittadini e nazionali, ma l’attuale struttura è rimasta proprietaria di molti lavori artistici. L’interesse della visita comunque, più che per le opere esposte, è per il luogo stesso, che già dalle stanze visitabili al pubblico rende palpabile la lunga tradizione di questa antica istituzione. Molto suggestivo soprattutto il salone delle cerimonie, gremito di sedie antiche, cassepanche, bandiere ed emblemi e con le mura interamente ricoperte dai ritratti dei presidenti dell’accademia dal Cinquecento a oggi.

    5. Museo e chiesa di Orsanmichele

    Sempre in zona Calzaioli vale la pena visitare il Museo e chiesa di Orsanmichele. Questo edificio nasce come monastero femminile per poi divenire, attorno al 1240, un magazzino di granaglie. In seguito, anche se riacquista le funzioni religiose, non perde quelle civili, dando vita a un ibrido molto particolare; una piccola chiesa-granaio, abbastanza forte da sopravvivere a molti incendi e all’epidemia di peste nera. Amata e protetta soprattutto da commercianti e rappresentanti delle arti e dei mestieri, nel 1339, l’arte della Seta si propone per eseguire una serie di tabernacoli con le statue dei santi protettori delle Arti. Queste statue, opera di celebri artisti fiorentini del Quattrocento (Nanni di Banco, Donatello, Brunelleschi, Verrocchio, Ghiberti e altri), vengono sistemate nella parte bassa dell’edificio e rendono Orsanmichele una chiesa ancora più affascinante. Sebbene lontana dalla magniloquenza dei grandi edifici ecclesiastici, infatti, Orsanmichele, simbolo della forza della società civile, è molto amata dai fiorentini; durante la seconda guerra mondiale, per esempio, per preservare le statue dai bombardamenti, gli abitanti si organizzano spontaneamente per imbottirne i tabernacoli con delle speciali impalcature.

    Attualmente la visita al museo si articola lungo i tre piani dell’edificio e permette di ammirare tutti i caratteri della chiesa. Dopo aver affrontato delle scale brevi ma ripide raggiungerete un nuovo ingresso, dove, se siete meno che ottuagenari, dei signori anziani faranno delle battute sul fatto che ansimate di fatica. In questo piano potrete ammirare sia la chiesa che l’antico granaio e, oltre a godere di una splendida vista sul centro storico, si possono osservare le varie statue. A rendere più interessante la visita, se siete fortunati, è la sporadica programmazione di concerti di musica classica.

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    Firenze: lato occidentale della chiesa di Orsanmichele, da La Patria di G. Strafforello.

    6. Museo casa Siviero

    Una buona scusa per una passeggiata sul Lungarno è la visita al Museo casa Siviero (Lungarno Serristori, 1), che ospita la collezione privata di Rodolfo Siviero, il cosiddetto 007 dell’arte a cui si deve il recupero di moltissime opere che erano state trafugate dall’Italia durante il periodo dell’occupazione nazista. Siviero non è solo un agente segreto; è un uomo colto ed elegante, un collezionista, uno storico d’arte, intellettuale, uomo d’azione, avventuriero e conquistatore galante – il soprannome di 007 dell’arte non è immeritato, anzi, più ci si addentra nella sua storia più ci si convince che sia James Bond a essere un Siviero del cinema.

    Figlio di un sottufficiale dei carabinieri, Rodolfo nasce nel 1911 a Guardistallo (Pisa) e studia Storia dell’arte a Firenze. In tempi di guerra, se si hanno le caratteristiche adatte, l’agente segreto è uno sbocco professionale plausibile anche per un critico d’arte e già dal 1934 Siviero lavora per lo Stato, che nel 1937 lo trasferisce in missione segreta in Germania con la copertura di una borsa di studio. Inizialmente – come molti – Siviero è un entusiasta fascista, ma cambia posizione durante la sua permanenza in Germania, soprattutto per due motivi: l’introduzione delle leggi razziali, considerate dallo storico un’offesa alla tradizione culturale nazionale, e il commercio di opere d’arte che i gerarchi nazisti esportano illegalmente dall’Italia con il beneplacito dei fascisti. In seguito, quando l’alleanza italo-tedesca si sgretola, il commercio di opere diventa una vera e propria razzia e lo 007 dell’arte si schiera con le forze antifasciste, diventando il punto di riferimento dei servizi segreti britannici a Firenze. È in questo periodo che contrasta il cosiddetto Kunstschutz, il corpo militare tedesco che avrebbe dovuto proteggere le opere d’arte, ma che con la scusa del pericolo dei bombardamenti le requisisce per trasportarle verso la Germania. Sospettato dalle frange più violente dei fascisti fiorentini, capeggiati da Mario Carità (nome che per triste ironia capita a un sadico assassino), viene catturato e torturato, ma resiste agli interrogatori e si salva grazie all’aiuto di alcuni ufficiali repubblichini dalla parte degli inglesi. Finita la guerra, Siviero non depone il lavoro di protettore dell’arte e dà la caccia a capolavori perduti dell’arte italiana. È grazie a lui che è possibile ammirare, tra le tante, l’Annunciazione del Beato Angelico, varie opere di De Chirico e la Danae di Tiziano, che era stata regalata a Göring per il suo compleanno.

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    Il messaggio del generale Alexander fatto affiggere a Firenze il 30 luglio 1944.

    I locali di Casa Siviero sono costituiti dal piano terreno della bella palazzina del Poggi sul Lungarno Serristori, ove l’uomo è vissuto per lunghi anni. Durante la sua vita l’agente segreto era riuscito a possedere un’ampia raccolta di opere d’arte antiche, tra cui reperti etruschi, busti romani, statue lignee trecentesche e quattrocentesche, dipinti fondo oro, rinascimentali e barocchi, bronzetti, terrecotte, suppellettili liturgiche, mobili d’epoca. Nel nucleo di opere più importanti, potrete ammirare artisti italiani moderni come Giorgio De Chirico, Giacomo Manzù, Ardengo Soffici, Pietro Annigoni, ai quali era legato da rapporti di amicizia.

    7. Museo Marino Marini

    Interamente dedicato al celebre scultore toscano del Novecento, il Museo Marino Marini (piazza San Pancrazio) rappresenta una visita interessante anche per chi non è legato alla sua opera. Sebbene esponga prevalentemente i lavori dello scultore, infatti, la sede espositiva è molto suggestiva; si tratta dell’antica chiesa di San Pancrazio, ricostruita nel Settecento e adibita a scopi civili sin dall’inizio dell’Ottocento. Gli architetti Lorenzo Papi e Bruno Sacchi, incaricati di redigere il progetto di recupero e rifunzionalizzazione del complesso durante gli anni Ottanta, lavorano alla chiesa sconsacrata ispirandosi all’opera scultorea dello stesso Marini, integrando un ibrido dinamico e non invasivo di forme e materiali contemporanei con la struttura preesistente. Dimostrazione di quanto un intervento rivoluzionario possa adattarsi e convivere in armonia col passato, la struttura è affascinante in sé e per sé e rende anche giustizia all’ampia selezione di opere dello scultore che vi è esposta. La visita è un tour tra cavalli (e cavalieri) squadernati, che nitriscono silenziosi nelle grandi sale, mentre busti e figure umane, più o meno stilizzati, spiano negli angoli e sorprendono il visitatore; interessante anche la sezione dei disegni e delle bozze preparatorie dell’artista. In aggiunta a una splendida selezione di opere e alla meravigliosa ambientazione, il Museo Marini nasconde un ulteriore capolavoro: il Tempietto del Santo Sepolcro. Si tratta di un monumento funebre progettato da Leon Battista Alberti nel 1457 e completato nel

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