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Una dottoressa a palazzo: Harmony Bianca
Una dottoressa a palazzo: Harmony Bianca
Una dottoressa a palazzo: Harmony Bianca
E-book165 pagine2 ore

Una dottoressa a palazzo: Harmony Bianca

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Info su questo ebook

La famiglia Halliday 2/4
Una famiglia speciale.
Quattro fratelli alla ricerca del vero amore.

Lo sceicco Tariq al Askeba capisce che invitare la dottoressa Lila Halliday nella sua terra è stato un madornale errore nel momento stesso in cui la vede arrivare con al collo l'antico amuleto rubato alla sua famiglia tanti anni prima. Lo scandalo è alle porte e ora spetta a lui fare in modo che non distrugga il suo regno.
Lila è incredula ed esterrefatta quando scopre il segreto che segna il passato della sua madre naturale. Lei è venuta a Karuba per ritrovare le proprie radici, non certo per minare le fondamenta della corona!
C'è però un modo per placare la bufera che si sta per abbattere su di loro: accettare l'ultimatum di Tariq. Lila dovrà cioè decidere se lasciare il paese per sempre o diventare la sua sposa del deserto.
LinguaItaliano
Data di uscita19 set 2018
ISBN9788858986981
Una dottoressa a palazzo: Harmony Bianca
Autore

Meredith Webber

Tra le autrici più amate e lette dal pubblico italiano.

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    Anteprima del libro

    Una dottoressa a palazzo - Meredith Webber

    successivo.

    1

    Lila era seduta sull'enorme jet, circondata da sconosciuti, ognuno immerso nelle proprie attività. Chissà se quelle persone conoscevano la loro destinazione oppure, come lei, andavano incontro all'ignoto?

    Si sentì stringere lo stomaco al pensiero di quanto la meta del suo viaggio le sarebbe stata estranea e, per distrarsi prima che l'assalisse il panico, pensò alla sua famiglia che era venuta compatta in aeroporto per augurarle ogni bene prima della partenza.

    C'erano Hallie e Pop, i suoi genitori adottivi, e la squadra di ragazzi adorati con i quali era cresciuta, divenuti come veri fratelli e sorelle grazie all'amore di quelle due persone meravigliose. E adesso, con loro, c'erano anche i mariti, le mogli, i nipoti e le nipotine...

    Una famiglia vera.

    L'aereo su cui si era imbarcata dopo il primo scalo era più piccolo ma fornito di ogni comfort, tuttavia solo quando salì sul terzo velivolo, per concludere quello che cominciava a sembrare un viaggio infinito, conobbe il vero lusso. Era un aereo con pochi posti, arredato sontuosamente, con poltrone al posto dei sedili e assistenti di volo premurosi che offrivano gustose prelibatezze e dolci squisiti.

    La novità di quel volo la distrasse finché un assistente le si avvicinò, indicandole il finestrino.

    «Ci stiamo avvicinando all'aeroporto di Karuba e mentre viriamo potrà ammirare le montagne rocciose, le dune del deserto e i fenicotteri nel lago. Vedrà quanto è bello il nostro Paese e saprà riceverla col calore che si riserva a un'amante.»

    La serietà nello sguardo dell'uomo, le cui parole lasciavano trasparire tutto il suo amore per la propria terra, fece capire a Lila che non vi era nulla di audace o personale in ciò che le aveva appena detto.

    Un Paese che l'avrebbe accolta come un'amante?

    Era poetico, ecco!

    E poetico sembrava anche quel territorio. Si ergevano grandi lastroni di roccia, come gettati da giganti, altipiani e piramidi, lisci e marroni, con una vegetazione lussureggiante in valli profonde... Oasi? Ma il lago con i fenicotteri l'aveva ingannata perché la sabbia che vide non era rosa, ma dorata.

    Il rosa doveva essere solo un ricordo confuso... Magari un giocattolo rosa sulla spiaggia...

    L'aereo sfiorò la pista d'atterraggio, si posò e raggiunse un edificio bianco e lindo, con cupole e minareti dalle guglie dorate.

    Un palazzo fiabesco come terminal?

    I passeggeri sbarcarono lentamente percorrendo un tunnel che li condusse verso i controlli doganali.

    Mentre era in coda, Lila osservò i suoi compagni di viaggio. Alcuni erano cittadini del posto che tornavano a casa, le donne indossavano il burka da cui si scorgeva qualche sprazzo colorato degli indumenti che portavano sotto. C'erano poi degli uomini che indossavano la tunica nera decorata con intricati ricami colorati; altri, invece, portavano abiti occidentali dal perfetto taglio sartoriale.

    Karuba era un Paese cosmopolita?

    Arrivò il suo turno per i controlli alla dogana. Presentò il passaporto australiano e il modulo compilato e attese che i documenti venissero esaminati, una volta, due... Poi l'uomo dietro il bancone iniziò a squadrarla ripetutamente dalla testa ai piedi, osservando la foto e poi lei, quasi come se durante il viaggio il suo aspetto fosse cambiato.

    L'agente rilesse il formulario dell'immigrazione che lei aveva compilato prima di sbarcare, mentre la gente alle sue spalle sbuffava e Lila cominciava ad avvertire un po' di preoccupazione.

    L'agente doveva aver premuto un campanello per chiamare un collega, perché improvvisamente si materializzò un altro uomo, vestito con un abito nero immacolato, una camicia bianca inamidata e la cravatta rossa. Il tizio le sorrise da dietro il vetro dello sportello.

    Non era un sorriso cordiale, ma era un sorriso.

    «Dottoressa Halliday, dobbiamo parlarle» le disse con voce suadente... Troppo suadente. «Vuole seguirci da questa parte?»

    Doveva chiedere spiegazioni?

    Rifiutarsi?

    Era appena arrivata in uno Stato straniero e chissà cosa poteva accaderle.

    «Ha bisogno di aiuto?» le chiese il passeggero alle sue spalle.

    «Non credo. Sono qui per lavorare in ospedale. Forse qualcuno dello staff è venuto a prendermi» ipotizzò lei. «Grazie, comunque.»

    Lila prese il suo bagaglio a mano e si preparò a seguire l'uomo che l'aveva chiamata.

    L'ospedale mi vuole riservare un'accoglienza speciale, si disse, ma le dita della mano destra andarono al ciondolo che portava appeso al collo e iniziò a giocherellarci come faceva sempre quando era nervosa.

    «Da questa parte» la invitò l'agente quando si ritrovarono davanti a una porta che si apriva su un corridoio. «Non la tratterremo a lungo.»

    Tratterremo?

    Non era una bella parola, aveva un'accezione negativa; di solito si tratteneva qualcuno contro la propria volontà, o no?

    Venne condotta in una stanza abbastanza confortevole e l'agente le offrì una sedia e poi si sedette davanti a lei.

    «È già stata nel nostro Paese?» le chiese, con una gentilezza che spaventò Lila, al punto da provocarle un brivido di paura lungo la schiena.

    «Mai» rispose. «Sono qui per lavorare nel vostro ospedale. Sono una pediatra.»

    Forse avrebbe dovuto aggiungere che pensava che i suoi genitori fossero originari di Karuba, ma come le avevano detto tutti in famiglia, era improbabile, considerato che l'unico indizio era una scatola vagamente famigliare. Perciò decise di non parlarne.

    L'uomo la osservava con discrezione, ma quegli occhi indagatori la facevano sentire sempre di più a disagio.

    «Ho l'indirizzo di posta elettronica del medico che mi ha assunto» gli spiegò. «Magari potrebbe essere così gentile da contattarlo per me.»

    Infilò la mano in borsa in cerca del foglietto su cui si era segnata la mail, e mentre toccava il pezzetto di carta, si ricordò dell'aspetto di quel medico, anche se lo aveva visto solo sul monitor del computer per fissare l'appuntamento.

    Tariq al Askeba era il direttore dell'ospedale o il primario di pediatria, non l'aveva capito con esattezza.

    Porse il foglietto all'agente e si sorprese quando lo vide aggrottare la fronte.

    «Lavorerà con lo sceicco Al Askeba?» le chiese.

    «Esatto» rispose Lila con fermezza. «E vorrei che lo chiamasse subito, così risolviamo il problema.»

    L'uomo sembrò ancora più preoccupato.

    «Sta già venendo. Lei è sua amica?»

    «Sarò una sua collega» ribatté Lila.

    «Allora andrà tutto a posto» la rassicurò l'uomo, anche se il suo crescente nervosismo stava cominciando a preoccuparla.

    Fortunatamente la preoccupazione scomparve quando la porta si aprì silenziosamente ed entrò un uomo alto e dalla figura regale, con una tunica bianca come la neve e una treccia nera intorno al capo che teneva fermo un altrettanto bianco copricapo.

    La prima cosa che venne in mente a Lila fu un'aquila. Esistevano le aquile bianche?

    Ma gli occhi profondi, il naso leggermente adunco, le labbra sensuali evidenziate da una barba fittissima le dissero subito chi era.

    Già l'immagine un po' sgranata a video del dottore, o dello sceicco Al Askeba, le aveva dato l'idea di potenza, ma nel suo abbigliamento regale metteva soggezione... Era splendido...

    Splendido ed esausto, se le rughe intorno agli occhi e alla bocca significavano qualcosa.

    Lei si alzò, gli tese la mano e si presentò. Le dita lunghe e snelle di lui la strinsero piano, leggermente, più per buona educazione che per darle il benvenuto.

    E non scorse un cordiale benvenuto neanche negli occhi cupi che sembravano guardarle dentro, occhi duri sotto le sopracciglia scure e ampie. Né lo scorse nella bocca sensuale, sottolineata dai baffi folti e scuri e dal mento volitivo.

    «Dottoressa Halliday, mi perdoni. Sono Tariq al Askeba. Mi dispiace per questo inconveniente. Volevo essere qui ad accoglierla ma... È stata una lunga notte.»

    Le parole erano corrette, la scusa sembrava sincera, ma l'uomo la osservava attentamente e alla confusione si stava sommando la stanchezza che gli leggeva in volto.

    Lui si girò verso l'agente e gli parlò in fretta in una lingua molto musicale e alcuni di quei suoni le riecheggiarono nella testa, come se avessero fatto riaffiorare in Lila alcuni ricordi del passato.

    «L'abbiamo turbata» osservò lo sceicco, rivolgendosi di nuovo a lei dopo aver notato il suo disagio.

    Lila fece un cenno di diniego con la mano.

    «È tutto a posto» replicò. «Vorrei solo sapere cosa sta succedendo. Cosa ci faccio in questa stanza? Perché sono stata separata dagli altri viaggiatori?»

    Cercava di sembrare forte e composta, ma sapeva che il continuo giocherellare delle sue dita con il ciondolo stava dimostrando il contrario.

    «Posso?» le chiese avvicinandosi e, sopraffacendola con la sua presenza incombente, allungò la mano, le bloccò le dita agitate e prese il ciondolo, esaminandolo attentamente.

    Lei avrebbe voluto strapparglielo di mano, ma era troppo vicino, una vicinanza paralizzante, e sentiva il calore bruciante della sua mano sulla pelle del décolleté.

    Provò a inspirare profondamente, ad allontanare l'imbarazzo, ma il suo respiro era affannoso, come se lui effettivamente la turbasse.

    «Questo è tuo?» le chiese infine, abbandonando le formalità.

    «Certo» replicò Lila, e si detestò per essere stata poco incisiva. «Me l'ha regalato mia madre quando ero piccola.»

    Lui raddrizzò le spalle, abbassò lo sguardo su di lei e le scrutò il volto. Il suo sguardo era penetrante.

    «Tua madre?»

    Di nuovo Lila divenne l'oggetto della sua attenzione, il suo sguardo era affilato, totale, come se volesse vedere tutto di lei.

    E quando parlò, pronunciò con un filo di voce una sola parola.

    «Nalini?»

    E da qualche parte nella nebbia del tempo, del dolore e della sofferenza, quel nome le riecheggiò nella testa.

    «Cosa hai detto?» sussurrò lei, tremante, completamente stralunata da ciò che stava accadendo, terrorizzata che i fantasmi del passato che credeva ormai sepolti fossero tornati a tormentarla.

    «Nalini» ripeté lui, e Lila chiuse gli occhi e scosse il capo.

    Ma non bastò chiudere gli occhi e scuotere il capo per farlo andare via.

    «Conosci questo nome» insistette lo sceicco e lei sollevò la testa. Lo fissò negli occhi scuri proprio come i suoi, scavati in un volto che pareva scolpito nella stessa roccia delle montagne che aveva ammirato dall'aereo.

    L'aveva ipnotizzata per farla rispondere?

    Le parole uscirono con emozione...

    «Potrebbe essere il nome di mia madre» disse Lila. «Potrebbe esserlo! Dopo l'incidente in Australia la polizia non fece che chiedermelo, ma non lo sapevo. Ero troppo piccola.»

    Era come se il corpo le andasse in frantumi, ma le pareva di risentire la voce di quell'uomo, con la stessa chiarezza con cui sentiva quella dei due uomini presenti. «Vieni, mia piccola Nalini, vieni.»

    Erano in spiaggia, lo ricordava perfettamente, suo padre pagaiava tra le onde, e chiamava Nalini...

    Era la voce di suo padre?

    Era il nome di sua madre!

    «Tua madre è morta?» insistette l'uomo, lasciando andare il ciondolo e appoggiandole una mano sulla spalla.

    Pronunciò piano quella domanda, dolcemente, ma si rendeva conto di essersi spinto troppo in là.

    Era stata così contenta di scoprire finalmente il Paese da cui credeva provenisse sua madre che aveva fatto carte false per riuscire a trovarsi quel lavoro in ospedale. Lavorare per la prima volta fuori dall'Australia, in un posto di cui solo recentemente aveva conosciuto l'esistenza, poteva non essere stata la scelta giusta. Ma essere trattata in quel modo, con sospetto e diffidenza, senza alcun motivo e senza che le venissero porte delle scuse, era troppo.

    «Senti» disse, raddrizzando le spalle per farsi coraggio, «sono venuta a Karuba per lavorare, ho tutti i documenti necessari e non capisco perché mi stiate trattenendo. Adesso vorrei contattare il mio consolato per avere un avvocato.»

    Lo sceicco fece un passo indietro, ma lei sapeva che non era per farla passare. Era troppo autoritario, troppo controllato.

    «Mi dispiace. Ti prego, siediti. Posso spiegarti tutto, ma nel frattempo desideri del caffè, o un tè o una bibita fresca?»

    Senza aspettare una risposta, fece cenno a un altro uomo presente nella stanza, e probabilmente gli ordinò di andare a prendere qualcosa da offrirle.

    «Si tratta del tuo ciondolo» le spiegò, sedendole davanti mentre anche lei si accomodava, le

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