Gli ingredienti della felicità
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Will: Sono rimasto scioccato nello scoprire che il nuovo cardiologo dell'ospedale è una mia vecchia conoscenza, la ragazza della porta accanto, Alexandra Hudson. Ma quello che mi stupisce ancora di più è questo desiderio prepotente di tenerla al sicuro tra le mie braccia. Ora che ho una figlia di cui occuparmi, non ho tempo per l'amore. O forse sì? In fondo non è proprio l'amore l'ingrediente principale della felicità?
Meredith Webber
Tra le autrici più amate e lette dal pubblico italiano.
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Anteprima del libro
Gli ingredienti della felicità - Meredith Webber
Prologo
Seduta su una sedia di plastica rossa appoggiata alla parete del Pronto Soccorso, Alex aspettava sconfortata. Un paio di ore prima le si era avvicinata una dottoressa, ma l'improvviso trambusto di un'ambulanza in arrivo l'aveva fatta scappare via subito, e Alex era rimasta lì, talmente stanca che gli occhi le si continuavano a chiudere. Un paio di volte le si era avvicinato un infermiere, ma, non tollerando che un uomo la toccasse, Alex aveva mentito, affermando di essere in attesa di qualcuno.
Finalmente, la dottoressa che aveva visto prima stava venendo di nuovo verso di lei.
«Sei qui per una terapia?» le domandò con gentilezza.
Incapace di proferire parola tanto era disperata e infelice, Alex si limitò ad annuire.
La dottoressa le si inginocchiò davanti e le sfiorò una guancia, asciugandole le lacrime che lei non aveva smesso di versare, per quanto si fosse sforzata di trattenerle. Probabilmente pensava che fosse una ragazzina di strada, si disse Alex. Anche se indossava degli abiti puliti.
«Ti va di dirmi cosa c'è che non va?»
La mente di Alex si concentrò sulla domanda.
«Sto sanguinando» sussurrò con un filo di voce, imbarazzata. Chissà cosa avrebbe pensato di lei la dottoressa, adesso...
«Sono la dottoressa Isobel Armitage» le disse la donna con dolcezza. «Vieni con me, così posso vedere come aiutarti.» E, senza aspettare la sua risposta, la prese per mano e la condusse in un cubicolo, tirando le tende.
L'infermiere che aveva offerto ad Alex il proprio aiuto poco prima si affacciò da dietro la tenda, ma la dottoressa, accorgendosi del disagio della sua paziente, lo congedò subito.
«Ti senti abbastanza bene per dirmi chi sei e rispondere a qualche domanda?»
Alex annuì di nuovo e in qualche modo riuscì a fornire il proprio nome, Alexandra Hudson, e l'età, sedici anni. Ma, quando toccò all'indirizzo, il coraggio che l'aveva portata in ospedale le mancò all'improvviso, facendola scoppiare ancora in lacrime.
La dottoressa si limitò ad abbracciarla, aspettando che si calmasse e chiedendo a qualcuno al di là della tenda di portare subito una tazza di tè.
«Qualcosa di caldo ti farà bene» le disse, porgendole una scatola di kleenex, prima di avvolgerle intorno al braccio la fascia dello sfigmomanometro. «Ti va di raccontarmi cos'è successo?»
Alex alzò la testa. Con il viso arrossato dalle lacrime e i capelli scarmigliati doveva avere un aspetto orribile, ne era conscia.
Respira! Ce la puoi fare!
«È stato il reverendo Spencer, l'amico di papà... Lui... lui...»
«Ti ha violentato?»
Alex annuì.
«Ti devo visitare» le disse Isobel.
Il tono era gentile, ma Alex si accorse che gli occhi della dottoressa fiammeggiavano di rabbia.
«I tuoi genitori lo sanno?»
Era una domanda lecita, Alex lo sapeva perfettamente, e la dottoressa doveva porgliela, ma...
La sofferenza che le aveva provocato la loro reazione la invase di nuovo, eppure doveva dire, spiegare...
«Mi hanno chiamato bugiarda e sgualdrina» mormorò con un filo di voce. «E hanno detto che non sono più loro figlia. Sono molto religiosi, sa? Quando ho raccontato alla mamma che il reverendo Spencer continuava a toccarmi, mi ha chiuso in camera accusandomi di essere sporca.»
Stava di nuovo piangendo, disperata, e non aveva la minima idea di cosa la dottoressa stesse pensando, finché Isobel non le prese le mani tra le proprie, stringendogliele con tenerezza. «Dovremmo andare a sporgere denuncia alla polizia.»
Alex annuì. Ci aveva già pensato e sapeva che la dottoressa aveva ragione, anche se la donna sembrava un po' sorpresa del suo immediato consenso.
«In chiesa ci sono altre ragazzine, anche più giovani di me» continuò Alex. «E molesta anche loro. Qualcuno deve fermarlo.»
«Sei molto coraggiosa» la lodò Isobel, sorridendo. «Ma dobbiamo prendere in considerazione anche la tua famiglia. Questa storia susciterà molto clamore e probabilmente un processo. Come reagiranno?»
Alex scrollò le spalle. «Mi hanno cacciato. Cos'altro di peggio potrebbero farmi?»
La forza della sua determinazione dovette trasparire da quell'affermazione, perché Isobel le si avvicinò e l'abbracciò con forza. «Ci prenderemo cura di te» le promise. «E io ti starò sempre vicino. Ma prima mi metterò in contatto con Marcie Clarke, della polizia. È gentile e comprensiva, e non è la prima volta che affronta una situazione del genere» le spiegò. «Quando sarà qui, ti visiterò e preleverò dei campioni organici.»
«Cosa?» Alex la guardò smarrita e Isobel corrugò la fronte.
«Non è appena successo? Sei tornata a casa?»
«Ho dovuto» le disse Alex, rabbrividendo. «Dovevo lavarmi e strofinare via quello che quell'uomo mi ha fatto, ma sono trascorsi due giorni e ho continuato a sanguinare e non sapevo cosa fare...» Le parole le morirono in un singhiozzo disperato, e una volta ancora le braccia della dottoressa la circondarono, consolandola.
Tre ore dopo, denunciato lo stupro, confortata Alex con l'informazione che il sanguinamento sarebbe potuto andare avanti ancora per un paio di giorni e congedata Marcie con in mano le poche prove che Isobel era riuscita a fornirle, la dottoressa scomparve per fare una telefonata.
Alex era esausta, talmente tanto che non le importava più di nulla. Avrebbe trovato un tetto? Come avrebbe potuto vivere? A Heritage Port c'erano case-famiglia per adolescenti senza dimora? Era un carico troppo pesante, così si accoccolò sul letto e cadde in un sonno profondo.
Quando si svegliò, Isobel era al suo capezzale. «Hai un posto dove andare?» le domandò, porgendole una tazza di tè e un muffin.
Alex scosse la testa in segno di diniego. «Lei conosce qualche struttura?»
«Be', un'idea ce l'avrei» rispose la donna con un sorriso. «Ti piacciono i bambini?»
«Li adoro» replicò Alex, le labbra che con sua grande sorpresa si incurvarono in un sorriso. «Ho lavorato spesso come babysitter, per guadagnare un po' di soldi per comprarmi un'auto tutta mia, rossa. E il sabato mattina ho fatto volontariato con i bambini in età prescolare del centro organizzato dal comune.»
«Ecco perché avevi un'aria familiare!» esclamò Isobel. «Ogni tanto porto lì i miei gemelli.» Le sorrise. «So che ti sembrerà una proposta strana e un po' avventata, ma ti piacerebbe venire a casa mia? Sono certa che i miei due mostri ti terranno abbastanza occupata da non lasciarti troppo tempo per rimuginare sui tuoi problemi. Anche mio marito Dave è un dottore, e la nostra vita è talmente caotica che è da un po' che pensiamo alla possibilità di assumere una ragazza alla pari. Che ne dici?»
Stavolta fu Alex ad abbracciarla forte.
1
Era tornata a Heritage Port con molti dubbi, ma a poche ore dal suo arrivo Alex si rese conto di aver fatto la cosa giusta. Per quanto avesse avuto un'infanzia felice, i suoi ricordi più belli erano legati ai tre anni e mezzo trascorsi con la famiglia Armitage a badare ai due turbolenti gemelli, finire le superiori e intraprendere la carriera universitaria in medicina. Con un po' di organizzazione lei e i genitori delle due pesti erano riusciti a far combaciare tutto splendidamente. Certo, qualche volta le erano tornati in mente l'orrore della violenza subita e l'umiliazione del processo che era seguito, e il suo ex fidanzato non aveva perso occasione di farla sentire in colpa per la sua incapacità di vivere l'intimità. Ma lei era comunque felice di essere a casa, in uno dei posti più belli del mondo.
Sul taxi che dall'aeroporto la stava portando a casa, si era persa ad ammirare l'oceano scintillante e la spiaggia. Il fiume era ancora verde e pacifico come se lo ricordava e, soprattutto, con il trascorrere degli anni, il nodo che le stringeva il cuore si era in qualche misura allentato.
Ora, seduta in ospedale al capezzale del padre, guardandolo vedeva solo l'uomo che le aveva insegnato a preparare gli ami e le canne da pesca, il padre che aveva amato con tutta se stessa...
«Da dove viene?» le chiese uno degli infermieri della Terapia Intensiva, sentendola raccontare a bassa voce al padre sedato di quando erano andati a pescare sotto le mangrovie in riva al fiume.
«Da qui» gli rispose Alex. «Sono solo stata via per un po'.»
Via quando le bambine che erano state sue compagne di scuola si erano sposate e avevano avuto dei figli. Via quando sua madre era morta senza mai perdonarla per tutto il trambusto che aveva creato. Via, ma sempre in attesa di una lettera con tre semplici parole. Torna a casa.
«E quanto sarebbe un po'?» insistette l'infermiere.
«Sedici anni.»
«Caspita!»
Già... Quando gli Armitage si erano trasferiti a Melbourne perché Isobel e Dave potessero fare carriera nelle rispettive specializzazioni, Alex aveva scelto di andarsene a nord, a Brisbane, per completare l'università. Da lì, su suggerimento di Isobel, si era messa in contatto con i suoi genitori, scrivendo loro per informarli di dove fosse e di cosa stesse facendo. Non aveva mai ricevuto risposta, eppure aveva continuato a scrivere, per i compleanni e per Natale, sempre nella speranza che un giorno... Poi, tre settimane prima, a Glasgow, aveva ricevuto una lettera di suo padre. Sua madre era morta, il cane Rusty anche, e così pure il reverendo Spencer, e lui, suo padre, era in procinto di subire un intervento a cuore aperto per sostituire una valvola occlusa. La lettera non le chiedeva di tornare a casa, ma eccola lì, seduta in Terapia Intensiva nel nuovissimo e moderno ospedale di Heritage Port, a parlare con voce dolce al padre sedato ricordando i vecchi tempi felici.
«Chi è la donna al capezzale del signor Hudson?» chiese a una delle infermiere Will Kent, medico intensivista del reparto.
«Sua figlia. Mi pare che si chiami Alexandra. È appena arrivata dalla Scozia. A quanto pare sono anni che non torna a casa.»
Alexandra Hudson. Alex.
Certo che erano anni che non tornava... Appena adolescente l'avevano praticamente esiliata. Ed era finita con i suoi vicini di casa, Isobel e Dave Armitage, a fare da babysitter ai loro gemelli. Will rammentava bene il giorno in cui Isobel gli aveva chiesto di accompagnare lei e Alex a casa degli Hudson, in modo che Alex potesse recuperare qualche vestito. Dave era al lavoro e Will si era sentito tremendamente orgoglioso di avere ricevuto quell'incarico. Si era sentito come una vera guardia del corpo. Un bodyguard ventiduenne alto, allampanato e occhialuto.
La signora Hudson aveva buttato alla figlia gli abiti dalla finestra del primo piano, senza smettere per un secondo di chiamarla sgualdrina e vergogna della famiglia, mentre il signor Hudson si era barricato davanti alla porta d'ingresso, in piedi come un profeta biblico.
La povera Alex era diventata scarlatta per l'umiliazione e il dolore, gli occhi pieni di lacrime dietro gli occhiali da sole che in quei giorni non si toglieva mai. Will avrebbe solo voluto abbracciarla, consolarla, ma sapeva che lo avrebbe respinto, imbarazzata. Sembrava accettare solo gli abbracci e i baci dei suoi adorati gemelli.
Non che lui avesse mai provato a baciarla. Alex aveva... quanto? Quindici anni? No, probabilmente sedici. Non se lo ricordava bene. L'unica cosa che rammentava era la profonda compassione che aveva provato per quella povera ragazzina.
Il paziente che aveva davanti era quel signor Hudson? E la donna addormentata al suo capezzale era Alex?
Come se i suoi pensieri l'avessero raggiunta, la donna si mosse e alzò la testa, i due profondi occhi azzurri che lo guardavano senza capire.
Occhi azzurri da favola incorniciati da capelli biondo oro, arruffati per il sonno. Anche così, appena sveglia, era bellissima.
«Alex?»
La donna corrugò la fronte.
«Sono Will... Will Kent, il vicino di casa degli Armitage, ti ricordi?»
Il solco sulla fronte divenne più evidente e