La conoscenza di Sofia
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Anteprima del libro
La conoscenza di Sofia - Riccarda Riccò
Riccarda Riccò
LA CONOSCENZA DI SOFIA
Prima Edizione Ebook 2021 © R come Romance
ISBN: 9788893471817
Immagine di copertina su licenza Adobestock.com, elaborazione Edizioni del Loggione
img1.pngwww.storieromantiche.it
Edizioni del Loggione srl
Via Piave 60
41121 Modena – Italy
romance@loggione.it
http://www.storieromantiche.it e-mail: romance@loggione.it
img2.jpgLa trama di questo romanzo è frutto della fantasia dell’autore.
Ogni coincidenza con fatti e persone reali, esistite o esistenti, è puramente casuale.
Riccarda Riccò
LA CONOSCENZA
DI SOFIA
Romanzo
Indice
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
Capitolo 44
Capitolo 45
Capitolo 46
Capitolo 47
Capitolo 48
Capitolo 49
Capitolo 50
L’autrice
Catalogo
Il concorso
"Il comportamento umano scaturisce
da tre fonti principali: desiderio, emozione, e conoscenza"
(Platone)
Capitolo 1
Non hai bisogno di lavorare.
Quante volte si era sentita dire questa frase nella sua vita? Troppe per contarle. Tutti sembravano in diritto di dirle quello che doveva o non doveva fare, come ad esempio che non aveva bisogno di lavorare, allo stesso modo in cui si può dire: non c’è bisogno di mettersi la cravatta, non c’è bisogno di indossare la cuffia, non c’è bisogno di chiudere a chiave la portiera dell’auto. A una cena informale la prima, in una piscina privata la seconda, in un paese fuori dal mondo la terza.
Sofia era molto stanca, come quando ci si sente stanchi davanti agli spettatori parlanti della propria vita. Quelli che pensano di sapere tutto e non sanno niente, come non si sa niente dell’esistenza degli altri. Vivi la tua vita e non quella degli altri, si ripromise.
Sbocconcellò risentita il terzo vol-au-vent ai gamberetti, controllandosi le unghie laccate di rosso.
You don’t have to.
Questa era la formula in inglese. Mentre al positivo indica obbligo, al negativo esprime la Non necessità di.
Sofia era sfinita di sentirsi dire che non aveva bisogno di lavorare. Poteva malamente tollerarlo da parte dei suoi genitori, le provocava irritazione sentirselo dire dal fidanzato, la mandava su tutte le furie che glielo dicessero gli amici e le amiche.
Nonostante tutta la consapevolezza di una posizione privilegiata, Sofia pensava che dirle quella frase sul lavoro avesse mille altri significati.
Primo: che lei non fosse in grado di fare niente.
Secondo: che lei non capisse in che stato versava gran parte dell’umanità, tutti a dover lavorare per sbarcare il lunario, tutti tranne pochi fortunati, tra i quali lei.
E Terzo e conseguentemente: che lei fosse una povera mentecatta, distaccata dalla realtà, nel paese di Bengodi.
Si allungò verso la flûte e bevve lo champagne. Poi estrasse uno specchietto dalla borsa di Louis Vuitton e scoprì i denti controllando che non si fossero tinti di rossetto. Salì con lo specchietto verso gli occhi azzurri e si soffermò a guardarsi.
Che cosa vuoi capire tu delle fatiche umane... del doversi svegliare presto di mattina... del dovere risparmiare guardando anche all’euro del caffè.... tu non hai bisogno di lavorare!! Tu sei ricca, nata e cresciuta nella bambagia, coccolata, figlia di papà. Sottotitolo: stronza viziata fighina.
Sofia aveva una gran voglia di riscattarsi, di dimostrare al mondo di saper fare qualcosa, di essere in grado di lavorare. Aveva voglia di fare fatica, perché quando è tutto troppo facile, si perde il sapore dell’esistenza, il vissuto troppo leggero non lascia segni.
Sì, ma cosa poteva fare? Passò in rassegna diverse possibilità, partendo dagli studi fatti.
Aveva frequentato il Conservatorio, conseguendo il diploma accademico di secondo livello, in pratica la laurea magistrale. Non contenta di quello, e per dimostrare agli spettatori parlanti di non essere avulsa da un certo spirito umanitario, si era quindi iscritta a scienze dell’educazione e della formazione, fino a ottenere la laurea triennale. Aveva la qualifica di educatore professionale socio-sanitario; aveva dunque una laurea magistrale idonea all’accesso a una classe di concorso e ventiquattro crediti formativi in materie socio-psico-pedagogiche, un titolo di specializzazione... poteva informarsi per capire come arrivare nelle scuole... Sì!! Si disse. Ecco cosa posso fare per dimostrare a tutti che riesco a lavorare. Ecco cosa posso fare della mia vita, in un momento in cui qualcosa mi opprime e non basta più alzare la musica a palla guidando di notte e urlando le canzoni per non sentire il malessere.
Nei giorni seguenti fece una lunga ricerca e mandò la sua candidatura attraverso il portale MadOnline. Fu talmente soddisfatta che era come se avesse già avuto un incarico. Girava per strada sentendosi finalmente utile alla società. Come spiegare a chi la circondava l’idea di vuoto che deriva dal non lavorare?
Un conto era descrivere quella condizione da disoccupato povero, un altro era cercare di esprimere le sensazioni di malessere psicosomatico da ragazza ricca che non ha bisogno di lavorare, e dalla quale nessuno si aspetta un impegno in quel senso... anzi. Chiaramente nel primo caso si parla di soldi, di bisogno primario. Nel secondo d’identità personale, autostima, autoefficacia. Se lavori nel secondo caso, rubi addirittura i soldi a qualcuno che ne ha veramente bisogno.
Sofia non arrivava a percepire la disoccupazione come una malattia... chi l’aveva definita così? Forse Moravia... ma sicuramente era giunta al punto di non sopportarsi più a non fare niente. Il vuoto dentro di lei la stava soffocando.
Non fece cenno a nessuno della sua ricerca, fino al momento in cui le telefonarono da un istituto professionale per una supplenza lunga, una maternità.
In quel momento si trovava in una profumeria del centro città, indecisa se acquistare un bagnoschiuma alla rosa o alla verbena. La rosa è il fiore del mio ascendente, il Toro, pensava Sofia, mentre la verbena è quello della Bilancia, il mio segno zodiacale... quale prendere? Il profumo della rosa le piaceva di più.
Chiese consiglio a una commessa annoiata che stava spostando delle ciabatte di spugna da un grande cesto a uno scaffale. Quella le disse che in quel momento andava molto di moda la gardenia, per le sue proprietà: aiutava a migliorare la comunicazione nelle relazioni e soprattutto rinnovava la passione.
Sofia pensò al suo fidanzato, al tiepido incontro che avevano avuto la sera prima, e optò per la gardenia, scartando l’approccio astrologico. Stava ringraziando sentitamente per il consiglio quando le squillò il telefono. Pescò dalla sacca di Louis Vuitton il suo nuovo iPhone e pensò qualche secondo se fosse il caso di rispondere a un numero che non conosceva. La curiosità ebbe il sopravvento e fu talmente felice di sentire che la cercavano per un impiego che accettò entusiasta senza neanche pensarci un attimo. Mise giù e guardò con occhi brillanti la commessa chiedendole un’essenza che desse sicurezza. Quella rimase qualche secondo con una mano posata sul mento, poi le suggerì l’olio essenziale di geranio, per il suo profumo che dà equilibrio e padronanza. Lo poteva trovare nel piccolo reparto erboristico.
Sofia pensò poi che per la sua nuova vita dovesse cambiare alcuni aspetti del suo look, sfoggiando un trucco il più naturale possibile. Rimase quindi almeno un’altra ora a provare polveri, colori e fondotinta, per poi uscire dalla profumeria dopo avere speso una cifra quasi corrispondente a una settimana di quello che sarebbe stato il suo nuovo lavoro.
Quella sera uscì a cena con il fidanzato, al quale confidò trepidante la novità. Lui scoppiò a ridere, dandole della fuori di testa e scommettendo che non avrebbe resistito più di qualche giorno nell’ambiente scolastico.
«Dove sarebbe questo istituto?» le chiese poi con fare divertito.
«In un paese su, della montagna, Appennino tosco-emiliano» disse con nonchalance Sofia mettendosi in bocca un cucchiaio di vellutata di patate viola e stracciatella.
«Dove????» chiese incredulo Gianguido diventando più serio.
«In montagna» ripeté lei alzando la voce.
«Stai scherzando», scosse la testa lui, «quanto ci vuole in auto da qui?»
«Un’oretta credo.»
«Un’oretta?? Ma amore, ti sembra poco? Senza considerare la neve che solitamente cade in quelle zone» fece lui con una faccia un po’ impensierita.
«Sembra che parli della Lapponia. E comunque non mi interessa, potrebbe anche essere sul monte Trollheimen», scattò nervosa Sofia, «lunedì inizio.»
«Questo lunedì?» disse Gianguido restando con il coltello a mezz’aria, come per dare un taglio a una conversazione per lui assurda.
«Sei diventato sordo? Sì, questo lunedì. Questo lunedì inizio a lavorare. Fatevene una ragione. Sono stanca di queste vessazioni! Potrò fare qualcosa in più che non sia ritirare degli affitti da degli appartamenti?» Sofia era alterata.
«Certo amore, non arrabbiarti. Sono solo preoccupato per te, nient’altro...» la calmò lui accarezzandole una mano, «mi dispiace saperti sulla strada tutti i giorni, con il rischio d’impedimenti o incidenti... senza considerare che odi la montagna, che non sopporti il freddo» e si portò la mano di lei alle labbra per un bacio sfiorato, o per scaldargliele.
«Okay okay, va bene. Grazie per il pensiero, ma sono pronta a rischiare» tagliò corto Sofia ritirando la mano.
«Come farai quando le strade saranno inagibili? Quando sarà buio alle quattro e mezzo del pomeriggio e tu sarai ancora su per qualche impegno pomeridiano? Come farai?» continuò con una preoccupazione fuori misura Gianguido, alzando drammaticamente le sopracciglia in su.
«Ripeto che in un qualche modo me la caverò. Al massimo mi fermerò a dormire in qualche albergo... non credo sia un luogo disabitato» rispose Sofia ancora leggermente irritata, mettendo in un piatto a parte tutto quello che aveva l’apparenza di possedere più di due calorie.
«E poi sono strade strane quelle lassù... ci si perde con facilità. Ci sono mille viuzze, che girano su per la montagna. Come farai?» ripeté lui lamentandosi.
«Oddio Gian, che ansia mi fai venire. Ho un navigatore eccellente, ultima generazione, il migliore in circolazione. Capirai se mi perdo...» Sofia buttò giù un sorso di Tignanello.
«Quindi cominci lunedì... se non avessi quell’udienza in tribunale ti accompagnerei» disse lui premuroso.
«Addirittura. Neanche fossi una bambina di sei anni al primo giorno di scuola.»
«Amore, vorrei solo esserti vicino...»
«Ci sei vicino» disse lei.
Le nostre sedie si sfiorano, pensò poi, più vicini di così.
Si guardò attorno annoiata, soffermando infine lo sguardo su una tela di arte moderna appesa a una parete del ristorante. Era una rivisitazione pop della Monna Lisa di Leonardo, in cui la famosa Gioconda era raffigurata con un seno nudo azzurro e la bocca spropositatamente carnosa, come se si fosse fatta un filler esagerato. La posizione era la stessa, con l’inquadratura di tre quarti e le mani incrociate in primo piano, mentre sullo sfondo, al posto della valle, del lago e delle montagne, si potevano scorgere degli edifici grigi di una squallida periferia di città.
Sofia guardò meglio le mani della Monna Lisa e vide che le unghie erano deformate da una smaccata French manicure. Tornò a guardare la bocca rifatta, al che fece una leggera smorfia di avversione. Le venne in mente una frase del Vasari, la cercò sul cellulare.
Et in questo di Leonardo vi era un ghigno tanto piacevole che da cosa più divina che umana
pensò che la parola ghigno fosse in quel caso proprio azzeccata.
«Tutto bene?» chiese Gianguido seguendo lo sguardo della fidanzata, convinto che stesse osservando l’uomo seduto sotto il quadro.
«Sì, certo, scusa... stavo pensando che ho bisogno di cose vere, che sono stanca di tutta questa realtà artificiale. Credo che alla fine mi faccia bene un’esperienza in un contesto più rurale.»
«Speriamo», disse lui sospirando, «dormiamo insieme stanotte?» chiese poi guardandola negli occhi.
«Mi sento molto stanca, scusami. Preferisco andare a casa.»
«Perché ancora non riesci a considerare casa tua la mia? La nostra? Hai già tanta tua roba negli armadi, in bagno, in sala...»
«Gianguido ne abbiamo già parlato. Ti prego... te l’ho detto, sono molto stanca.»
«Okay okay. Va bene così. Come vuoi.»
Capitolo 2
Le tre ore calcolate da Sofia per essere sul luogo del lavoro quel lunedì mattina ci vollero abbondantemente tutte, poco meno di una metà per prepararsi, il resto per arrivare.
Dopo Sant’Antonio, poco prima di Pavullo, all’altezza di Acquabona, il navigatore l’aveva erroneamente diretta verso una località chiamata Crocette, e da lì a Benedello. Di fronte alla chiesa del borgo, perduta e scoraggiata, Sofia aveva pensato bene di fare inversione a U, tornare indietro fino alla strada provinciale e da lì proseguire per Lama Mocogno. Dopo pochi chilometri reimpostò il navigatore, sentendosi in una botte di ferro, ma a Pavullo fu indirizzata a destra. Seguì le indicazioni fino quasi a Montecuccolo, capendo di essere su una strada più stretta della precedente. Stramaledì il famoso navigatore, girò la macchina e tornò sulla strada di prima seguendo il suo istinto anziché il GPS.
La sua decisione fu vincente, perché la succursale temporanea dell’istituto secondario di secondo grado era poco prima di Montecenere. Una volta arrivata capì che anche l’altra strada era giusta, anzi, probabilmente più breve. Quindi tirò un altro accidente verso il navigatore, neanche fosse colpevole di tutte le strade e le scelte del mondo. Ad avere un navigatore per quelle, si saprebbe a chi dare la colpa.
Alle otto e qualcosa scese già stanca ma trionfante dalla sua Mini Cooper verde inglese per entrare nell’edificio scolastico. Salendo la breve scalinata di cemento, prese una buca col piede destro e piegandosi sulla scarpa col tacco, si storse la caviglia. Soffocò un lamento ma finse indifferenza, continuando la sua salita con un’andatura leggermente claudicante. Una volta entrata nello stabile, si guardò velocemente intorno, capendo al volo di sfoggiare una mise che c’entrava come i cavoli a merenda e prendendo nota mentalmente di dovere riguardare al più presto il suo guardaroba.
Quello che le sembrò un bidello la diresse in una specie di stanzino adibito a segreteria, dove le fecero firmare il contratto e la presentarono al vicepreside che, dopo averla squadrata dall’alto al basso, le diede alcune informazioni sullo studente da seguire.
Lo stesso vicepreside, tale Piero Bartolini, si scusò poi del piccolo ufficio, spiegando che la segreteria vera e propria era nella sede principale, e che quella era una soluzione temporanea di fortuna, in attesa della ristrutturazione di parte dell’edificio scolastico centrale.
Sofia fece un cenno con la testa, che poteva significare allo stesso modo un Ho capito, non c’è problema
, così come un Non me ne sbatte niente di questa vostra stamberga
. Conscia poi dell’espressione che doveva avere avuto, si addolcì in un sorriso, determinata a ricoprire il ruolo della perfetta educatrice, prima di tutto educata a sua volta. Il professor Bartolini a quel punto sembrò finalmente rilassarsi e le disse, sorridendo di rimando: «Benvenuta tra noi.»
Il ragazzo da seguire era catalogato come autistico. Giulio, questo il suo nome, sembrava timido, ma forse era solo distaccato da quello che lo circondava. Erano davvero pochi i momenti in cui guardava negli occhi con la consapevolezza di vedere la persona che aveva di fronte. Più frequentemente il suo sguardo era perso nel vuoto, o meglio, finiva in un punto leggermente spostato di lato, verso sinistra, come se chi aveva di fronte avesse qualcosa di strano da quella parte, sui capelli, come un insetto appeso o una molletta di una forma strana.
All’inizio, quando ancora non si era abituata a quello sguardo obliquo, Sofia si toccava una ciocca da quel lato, come per scrollare un mostro invisibile, oppure girava leggermente la testa verso quella direzione, per controllare che non ci fosse un ufo o un fantasma.
Oltre a quel particolare modo di non guardare in faccia l’interlocutore, Giulio oscillava il busto avanti e indietro, a volte quasi impercettibilmente, altre come una tenda rigida sbattuta da un vento sempre uguale.
Non parlava mai, ma ogni tanto, molto raramente, diceva una frase in rima, che poteva avere un senso contingente oppure no.
Dopo circa mezz’ora che Sofia e Giulio si erano incontrati, trenta minuti di silenzio pressoché assoluto, lui aveva detto, con voce meccanica: «Bububummmmm!!! Capelli belli dentro ai castelli. Bububummmmm!!!»
Subito lei non capì e lo guardò chiedendo: «Cosa??»
Lui non rispose.
Stavano leggendo un libro di geografia umana, un capitolo sui castelli e le torri medievali in Italia. Il testo era intramezzato da immagini; Sofia girò la pagina e i suoi capelli sfiorarono una foto del castello Estense a Ferrara. Capello bello dentro al castello... e lei capì. Sorrise contenta, come se avesse decifrato il messaggio di un cinese davanti a un treno in partenza. Gli disse: «Ahhhh, ho capito! Grazie!», ma lui non diede altri segni di contatto.
Durante la ricreazione Sofia entrò in sala insegnanti, forse l’unico spazio degno di chiamarsi sala
di tutto lo stabile. Guardò oltre l’ampia finestra e il suo sguardo si posò sul piccolo retro dell’edificio, disseminato di qualche bicicletta sgangherata e tante Apecar di colori sgargianti mezzi coperti da adesivi fluo. Pensò ai parcheggi dei locali che frequentava di solito, alle Porsche e alle Ferrari messe davanti all’ingresso, come sentinelle a proteggere un’immagine di patrimonio economico degli avventori abituali. Strizzò gli occhi per mettere a fuoco un autoadesivo arancione che campeggiava sul vetro dell’abitacolo di un’Ape 50 e che urlava un Fuck youuuuuuuuuu all!!!!!
Sorrise pensando la stessa cosa. Guardò oltre la ringhiera mezza arrugginita e si perse in un campo lontano dove alcune mucche pascolavano annoiate.
Scosse impercettibilmente la testa e si girò verso l’ampio tavolo centrale, dove una donna con un ciappo¹ rosso in testa e una pila di verifiche di matematica davanti le stava facendo i raggi x. Colta sul fatto si presentò dicendo di chiamarsi Marzia Guidetti.
Capitolo 3
Marzia Guidetti ripensava a quella mattina, a quando era uscita da casa e suo marito non l’aveva neanche salutata.
Macchisenefrega
aveva pensato lei. Anche se avesse avuto un Ciao meccanico, o un Buona giornata robotizzato, cosa sarebbe cambiato? Meglio il silenzio oppure due parole svuotate di ogni consapevolezza? Meglio il niente, più onesto. Non era così quando dieci anni prima, nella stessa stanza della stessa casa, lo stesso specchio sulla parete rifletteva le labbra allora più affamate di lui su quelle allora più giovani di lei. Uno stampo che le restava addosso come una promessa di calore disponibile a breve e per lungo tempo. Che fine aveva fatto? Quel calore si era dissipato tra le fessure della ripetitività. Dapprima racchiuso e intimo, aveva nel tempo trovato sottili vie di fuga nell’ingranaggio dell’abitudine.
Marzia si sentiva sola. Contrariamente a quanto da lei pianificato, non era servita la pienezza della maternità a riempire il vuoto della sua vita. Un figlio non era bastato a eliminare il senso di solitudine che la attanagliava. Sì, lo amava con tutta se stessa e più di se stessa, ma quella sensazione di vuoto, se possibile, era addirittura aumentata. Forse era stato proprio sdoppiarsi
nel momento in cui era diventata madre che le aveva fatto sentire nel profondo l’isolamento dalla realtà, da se stessa. Come se il suo pieno essere fosse stato travasato in quell’esserino ancora vuoto di mondo. Come spiegare la lacuna, la tristezza, il senso di impotenza, di responsabilità, il soffocamento, il senso di colpa? Il sentirsi un mostro ingrato solo per permettersi di essere tristi davanti al proprio bambino?
Ricominciare a lavorare, qualche mese prima, l’aveva dilaniata, ma al tempo stesso sollevata. Stare sola con suo figlio, sempre, era a volte insostenibile.
Suo marito lavorava tutto il giorno, arrivava la sera e il suo impegno con il piccolo aveva la durata di un telefilm. Del resto, come pretendere qualcosa in più da un uomo oberato dal