R come Romance 2021: I migliori racconti romantici
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R come Romance 2021 - Autori vari
Autori Vari
R COME ROMANCE ‘21
Prima Edizione Ebook 2022 © R come Romance
ISBN: 9788893472050
Immagine di copertina su licenza Adobestock.com, elaborazione Edizioni del Loggione
img1.pngwww.storieromantiche.it
Edizioni del Loggione srl
Via Piave 60
41121 Modena – Italy
romance@loggione.it
http://www.storieromantiche.it e-mail: romance@loggione.it
img2.jpgLa trama di questo romanzo è frutto della fantasia dell’autore.
Ogni coincidenza con fatti e persone reali, esistite o esistenti, è puramente casuale.
Autori Vari
R COME ROMANCE ‘21
Racconti
INDICE
PRIMO AMORE Carla Barbagli
IL RAGAZZO CHE FOTOGRAFAVA VAN GOGH Cristina Biolcati
SOLA CON LA PIOGGIA Blue Ace
IL TRENO PER ROMA Lisa Bortolini
LA SOLITUDINE Guido Burgio
LA MASCHERA DEL DEMONIO Roberta Cadorin
RITORNO A BLUE RIVER Lea Da Ponte
VELLUTO TRA I TUOI POLSI Demian
L’ALBERO BOTTIGLIA Luigi De Rosa
PALOMA Manuela Fiorini
LA RABBIA E IL VENTO Eugenia Gabriella Gammarrota
TI VA DI INSEGNARMI? Michela Garau
CAFFÈ UGO’S Margherita Gobbi
LE NOTE DI UNA NOTTE Bogdan Groza
TRE MINUTI DA SOGNO Silvana Guarina
LETTERA CON RISPOSTA ovvero Anche questo è amore Patrizio Iezzi
INSIEME A TE NON CI STO PIÙ Corrado Izzo
LA PROPOSTA E LA CURA Elisa La Bruna
MALEDIZIONI E CICATRICI Lisa Libralato
ANCHE AD AUSCHWITZ NASCONO I FIORI Donato Maglio
QUESTO MATRIMONIO S’HA DA FARE! Enrica Mambretti
LA PRIMAVERA CHE NON TI ASPETTI Roberta Mammola
IN RICORDO DI TE Savina Marchesini
IN TRENO E OLTRE Antonio Maviglia
L’AMORE FORSE È SOLO UNA BUGIA Gianluca Melis
YES E BEAUTIFUL Anna Patrizia Mongiardo
L’IRRINUNCIABILE Barbara Muto
AFFINITÀ ELETTIVE Massimiliano Oliva
IL GATTO Gabriella Olivieri
CACCIA AL TESORO Gabriella Olivieri e Sandra Becker
COMPLEANNO CON NAUFRAGIO Francesca Panzacchi & Vito Introna
AMORE ANTICO Renata Pieroni
IL PIANISTA Walter Serra
PORTOVENERE, ’76 Edi Sist
NEPPURE LA MORTE Federica Talarico
NON SERVONO PAROLE Luciano D. Urietti
PAROLE DI FUOCO Angelica Vasile
Gli Autori
PRIMO AMORE
Carla Barbagli
La prima volta che mi sono innamorata di Marco Pastore avevo sedici anni, lui ne aveva diciannove ed era il migliore amico di mio fratello Enrico. Io e Marco eravamo vicini di casa ma quella era l’unica cosa che avevamo in comune, per il resto eravamo agli antipodi: lui andava a scuola in moto, io in autobus; lui aveva un sorriso che incantava, io avevo i brufoli; lui aveva i riccioli biondi, io avevo i capelli crespi; lui aveva moltissimi amici, io ero timida e spesso arrossivo. Nonostante tutto continuavo ad amarlo in silenzio e fantasticavo sulla nostra futura storia d’amore, con la certezza che un giorno si sarebbe accorto di me. In realtà le mie speranze di fare breccia sul suo cuore erano pressoché inesistenti perché Marco aveva già una ragazza: si chiamava Serena, aveva gli occhi azzurri, un caschetto sbarazzino e le gambe lunghissime. Nonostante il sentimento che provavo per lui, non potevo negare che formavano una bellissima coppia e chiunque avrebbe affermato che sembravano molto felici. A pensarci bene il mio non era vero amore, era la tipica infatuazione che provano tutte le sedicenni romantiche e sognatrici di questo mondo, ma in quel momento ero sicura che avrei amato Marco per tutta la vita.
Con il passare degli anni nella mia vita sono successe molte cose: mi sono diplomata, mi sono fidanzata, mi sono laureata, ho viaggiato, mi sono sfidanzata, sono diventata zia, ho trovato un buon lavoro e il mio amore per Marco è finito senza che me accorgessi, non mi ero nemmeno accorta che non abitava più accanto a casa mia. Poi un giorno Marco Pastore è tornato a fare capolino nella mia vita. È successo un mercoledì mattina di fine maggio quando è venuto a chiedere un prestito nella banca dove lavoro. Appena l’ho visto non l’ho riconosciuto, e come avrei potuto? Erano passati ben sedici anni ed eravamo cambiati entrambi. Ho però riconosciuto il suo nome e la sua data di nascita in un modulo che aveva riempito per la banca: Marco Pastore nato ad Arezzo il sedici aprile 1983. Non ho avuto dubbi, era proprio lui, il mio primo amore. Non so dire con esattezza cosa ho provato quando l’ho rivisto, era una sensazione un po’ strana: un misto di incredulità, disorientamento e diffidenza. Perché veniva a cercare dei soldi? Cosa aveva combinato? Avevo molti dubbi su di lui e su quelli che potevano essere i suoi motivi, chissà perché immaginavo che avesse a che fare con delle persone poco raccomandabili.
La seconda volta che è venuto in banca mi ha guardato a lungo e poi mi ha fatto una domanda.
«Ma tu sei Elisabetta… la sorella di Enrico?» nelle sue parole c’era un po’ d’incertezza, ma nel suo volto leggevo la speranza che io fossi veramente Elisabetta.
«Sì, sono io…» mormorai poco convinta.
«Ciao io sono Marco, una volta abitavo accanto a casa tua ed ero molto amico di tuo fratello… mi chiamavano il biondo
, forse non ti ricordi di me…»
«Marco… Sì, ora mi ricordo. Scusa se non ti ho riconosciuto, ma è passato così tanto tempo…»
Gli avevo nascosto che lo avevo riconosciuto perché non mi andava di aprire una finestra che dava sul mio passato, e se devo essere del tutto onesta avrei preferito che non avesse capito chi ero.
«Non preoccuparti ti capisco perfettamente» fece lui con un tono allegro e cinguettante, «non ti avevo riconosciuto nemmeno io, poi il direttore mi ha detto il tuo nome… Elisabetta Folletti, e ho capito che sei la sorellina di Enrico.»
«Già… la sorellina di Enrico
, mi chiamavano tutti così.»
«È una bella sorpresa rivederti dopo tutti questi anni, e in queste circostanze…» Marco continuava a sorridere e non nascondeva che il nostro incontro inaspettato lo aveva messo di buon umore. Io invece me ne stavo zitta e non sapevo cosa dire, poi farfugliai qualcosa per non passare da maleducata.
«Mio fratello aveva tanti amici, ma la maggior parte li ho persi di vista, poi otto anni fa si è trasferito a Bologna e anche lui ha meno occasioni per frequentarli.»
«Sì, lo so, infatti negli ultimi anni ci siamo visti davvero poco e devo ammettere che mi dispiace perché andavamo d’accordo, ma la lontananza complica tutto e questo lo sai anche tu. Comunque mi ha fatto piacere incontrarti e quando vedi Enrico portagli i miei saluti …»
«Sì, certo, lo farò.»
Non so perché, ma più parlava e più mi stava antipatico. Era troppo sorridente, troppo sdolcinato e perdeva tempo a parlare di cose lontane e prive di significato che avevano solo lo scopo di farmi tornare in mente quel ragazzo vanesio e pieno di sé che scorrazzava in moto per il centro di Arezzo. Guardandolo bene dovevo ammettere che era molto diverso dal ragazzo che mi aveva fatto innamorare: aveva perso la sfrontatezza di chi pensa di essere pronto per sfondare a Hollywood; i suoi riccioli biondi erano spariti, adesso aveva i capelli cortissimi ed erano più scuri; nel suo viso c’erano un paio di rughe che lo rendevano più pensieroso e meno spensierato; il suo corpo era più massiccio di quello del diciannovenne longilineo e scavezzacollo che tanto avevo amato. Davanti a me c’era un uomo di trentacinque anni attraente e sicuro di sé che comunicava una grande vitalità, aveva una voce profonda, dei modi gentili, si muoveva con eleganza e sapeva esattamente cosa voleva. Non c’erano dubbi sul fatto che il suo aspetto e la sua dialettica costituivano un bel biglietto da visita, però mi stava antipatico, lo trovavo falso e presuntuoso e avevo il sospetto che volesse scappare con i soldi della banca. Speravo davvero che il direttore gli negasse il prestito perché ero convinta che avesse in mente solo cose balorde.
Una settimana dopo incontrai di nuovo Marco. Mi trovavo al supermercato e improvvisamente lo vidi sbucare dal nulla con un carrello pieno di frutta e verdura, evidentemente ci teneva a mangiare in modo sano.
«Ciao Elisabetta, che strano anche tu fai la spesa?» mi chiese sorridendo. Forse pensava di essere simpatico, secondo me era solo scontato e banale.
«Sì, in effetti anche io faccio la spesa, ma deve rimanere un segreto…» alzai le spalle come per ammettere che ero stata scoperta.
Marco aveva voglia di scherzare perché iniziò subito a ridere come un bambino, poi mi confessò di essere un marziano che si trovava per la prima volta in un supermercato e andò avanti un bel po’ con quella strana storiella. All’inizio cercai di mostrarmi interessata e continuammo a parlare, ma dopo dieci minuti mi scusai e gli dissi che dovevo salutarlo perché dovevo andare al cinema con un’amica. Lui mi rispose che gli aveva fatto piacere vedermi e mi salutò con un abbraccio. In realtà la mia era solo una scusa, ero diretta a casa e non al cinema, ma non avevo nessuna voglia di continuare e parlare di marziani che facevano visita ai supermercati di Arezzo. Due settimane dopo incontrai di nuovo Marco e quella era la quarta volta in un mese. Cosa stava succedendo? Non ci eravamo visti per sedici anni e improvvisamente eravamo diventati quasi inseparabili. Questa volta si trattava di una cena in giardino a casa della mia ex collega Teresa, quando me lo presentò mi disse che lei e Marco frequentavano la stessa palestra. Marco fu felice di vedermi, mi abbracciò, mi diede due baci sulle guance e per buona parte della serata mi seguì ovunque andassi, la sua sembrava quasi una missione. Ma cosa voleva da me? Perché mi stava appiccicato come un francobollo? Non c’era nessun altro alla cena che aveva voglia di parlare con lui?
Quando venne il momento di mettersi a tavola me lo ritrovai vicino, era seduto alla mia destra e mi fece una fila di domande come fosse Sherlock Holmes. Mi chiese quale era il mio piatto preferito, se amavo la cucina esotica, che tipo di vini mi piacevano e se sapevo cucinare. Era gentile e affabile, era colto e concreto e devo ammettere che sapeva tenere le redini di una conversazione con disinvoltura e savoir-faire, peccato che io non avessi molta voglia di parlare, mi tornavano in mente i suoi riccioli biondi e la sua bellissima Serena con il caschetto sbarazzino e le gambe lunghissime, e quei particolari allontanavano ogni possibilità di dialogo. Lui continuava a mangiare con gusto e a fare domande. Io invece avevo perso l’appetito. Perché era così interessato? Cercava forse di influenzare il mio giudizio per avere la certezza di ottenere il prestito? Era così ingenuo da non sapere che la decisione spettava esclusivamente al direttore? Per non fare la figura della maleducata cercai di portare avanti la conversazione con un po’ di entusiasmo e così finimmo per parlare di vacanze, di cinema e di libri. A fine serata Marco mi chiese se poteva invitarmi a cena, ma io gli dissi subito che non era una buona idea e lo feci senza nemmeno tentare di giustificarmi perché sapevo bene che non ne avevo nessun bisogno. Pensavo avesse intuito che non avevo voglia di rivederlo.
«Ah ok…» fece lui con una faccia un po’ sorpresa. «Mi dispiace, ma ti capisco…»
Probabilmente non aveva messo in conto che gli avrei risposto di no. Pensava di essere ancora al liceo quando le ragazze erano tutte innamorate di lui?
Dopo un paio di settimane venni a sapere che Marco aveva ottenuto il prestito, la cosa non mi entusiasmò per niente e dissi al direttore della banca che quella sua decisione mi aveva lasciato un po’ sconcertata.
«Sono sorpresa che lo abbia ottenuto così in fretta…» dissi con noncuranza, come se stessi parlando di qualcuno che abitava in un altro continente.
«Perché?» fece lui sorpreso.
«Pensavo non ne avesse i requisiti.»
Lui mi guardò con un’espressione un po’ contrariata, si vedeva che non era d’accordo con me.
«Credimi se ti dico che Marco è una persona seria, è un imprenditore che ha sempre lavorato sodo e in modo onesto. Lo conosco da quasi dieci anni e non ho nessun dubbio sulla sua integrità.»
«Davvero?» rimasi colpita da quello che avevo appena sentito, sembrava addirittura che non parlassimo della stessa persona.
«Te lo posso assicurare» fece lui annuendo. «Devi sapere che nella sua fabbrica di accessori ha sempre cercato di assumere chi aveva una famiglia a carico, e negli ultimi anni ha assunto anche quelle persone prossime alla pensione che erano state rifiutate da tutti. Marco è una brava persona… non è uno che pensa solo al proprio tornaconto. Ha sempre dimostrato un forte interesse verso quelli che hanno bisogno di aiuto.»
Le parole del direttore furono una specie di doccia fredda ed ebbero il potere di riportami alla realtà perché dal momento in cui Marco si era presentato in banca lo avevo dipinto come una persona leggera e poco affidabile e solo in quel momento me ne resi conto. Avevo commesso un grosso errore ma finalmente qualcuno mi aveva fatto aprire gli occhi; non potevo dubitare del direttore perché sapevo che non si entusiasmava molto facilmente, se affermava che una persona era degna di fiducia voleva dire che ne era assolutamente sicuro.
Cosa mi era successo?
Perché avevo pensato che Marco fosse un poco di buono? Solo perché alle superiori andava in moto? O perché quando avevo sedici anni mi aveva ignorata e mi considerava solo la sorellina del suo migliore amico?
Provavo vergogna di me stessa.
Nel mio giudizio ero stata superficiale e avventata. Normalmente ero una persona riflessiva e avevo fiducia negli altri, non era mia abitudine giudicare senza essere a conoscenza dei fatti. Ma in quella particolare occasione la sedicenne che era ancora dentro di me aveva preso il sopravvento e aveva annullato la mia obiettività.
Non potei fare a meno di ripensare alla cena nel giardino della mia amica Teresa e vedere tutto con occhi diversi: quella sera Marco era stato gentile, brillante, educato e mi aveva riempito di attenzioni e io come ricompensa lo avevo trattato come fosse un criminale. Cercai di non pensare più a lui perché se lo facevo mi sentivo avvolgere da una grande tristezza. Mi consolava il fatto che aveva ottenuto il prestito.
Quel weekend vidi mio fratello Enrico. Da quando si era trasferito a Bologna almeno una domenica al mese veniva a pranzo a casa dei nostri genitori insieme a sua moglie. Mentre eravamo a tavola gli dissi che avevo incontrato il suo amico Marco e mi aveva chiesto di salutarlo.
«Ah Marco… purtroppo è un bel po’ che non lo vedo. Sta bene?»
«Sì… a me sembrava di sì, perché?»
«Ha passato un brutto periodo e non puoi capire quanto mi dispiace.»
«Ha avuto dei problemi con il lavoro?»
«No, il lavoro non c’entra… ha perso sua moglie.»
«Non sapevo che fosse sposato… non ne ha mai parlato. E sua moglie quando è morta?»
«Quasi due anni fa, mi sembrava di avertene parlato...»
«Non lo ricordo… di cosa è morta?»
«È stata investita da un automobilista ubriaco.»
«Che cosa orribile…»
«Sì… una vera tragedia, era una donna così dolce e bella… si chiamava Serena e si erano conosciuti quando frequentavano le superiori.»
Quel nome mi colpì come un pugno sullo stomaco. Mi ricordavo molto bene di Serena anche se l’avevo vista poche volte, era la ragazza con cui usciva quando ero innamorata di lui, era la ragazza con il caschetto sbarazzino e le gambe lunghissime. Quando ero una sedicenne romantica e sognatrice ero stata stupidamente e incredibilmente gelosa di quella ragazza che poi sarebbe diventata sua moglie; adesso invece, pensando a lei, provavo un grande senso di angoscia e di sconforto. Marco era felice da quindici anni insieme alla sua Serena e all’improvviso, con tanta crudeltà, gli era stata portata via per sempre. Doveva essere stato un colpo durissimo perdere in modo così tragico la persona con cui aveva scelto di passare tutta la vita. Ancora una volta mi sentii in colpa per essere stata fredda e sbrigativa con lui, avevo bloccato in partenza ogni suo tentativo di allacciare un’amicizia senza dargli nessuna possibilità.
Perché lo avevo fatto?
Chissà perché il mio comportamento nelle ultime settimane era stato un susseguirsi di impressioni sbagliate e di giudizi affrettati. Sapevo di essere una persona aperta e comprensiva, ma purtroppo Marco non lo avrebbe mai scoperto.
Un paio di settimane dopo avere parlato con mio fratello vidi di nuovo Marco, fu in occasione della sagra paesana La Festa del Cocomero
che si tiene ogni anno a Castiglion Fiorentino, il paese natale di Marco, dove ero andata insieme a due amiche. Era una bellissima domenica di agosto, il sole accendeva la campagna e la colorava come fosse stato un pittore del Quattrocento. Io e le mie amiche passammo buona parte del tempo a curiosare fra i banchini che vendevano fiori, bigiotteria, dolciumi, palloncini colorati, occhiali da sole, giocattoli e altri oggetti che si trovano a quel tipo di festa. Poco prima che iniziasse la cena a base di carne locale grigliata, fra cui la famosa bistecca Chianina, il Comitato Organizzativo premiò alcuni imprenditori della Val di Chiana che si erano distinti per aver contribuito al miglioramento della vita del paese. Fra i vari imprenditori premiati c’era anche Marco e quando lo vidi salire sul palco devo ammettere che mi emozionai.
Il Presidente del Comitato spiegò che Marco aveva fatto una generosa donazione a favore di un centro che ospitava bambini disabili e aveva personalmente partecipato alla realizzazione di un campo sportivo che avrebbe permesso a quei bambini di praticare sport all’aria aperta. Marco prese il premio dalle mani del presidente, ringraziò il Comitato e ringraziò i ragazzi del centro perché grazie a loro aveva avuto modo di imparare a giocare a bocce e si era divertito moltissimo, poi invitò tutti i presenti a dare una mano a quelle persone che sono meno fortunate di noi. Ci furono molti applausi e in quel momento lo vidi estremamente vulnerabile, come se tutte quelle attenzioni lo mettessero in imbarazzo, ma si capiva che era felice.
Dopo che il direttore della banca e mio fratello mi avevano parlato di Marco avevo cambiato idea sul suo conto e vederlo su quel palco ne era la conferma. Marco era legato al suo paese e alla sua gente, e anche se aveva passato un brutto momento in seguito alla morte della moglie era comunque disponibile ad aiutare chi si trovava in difficoltà. Quella cosa mi fece commuovere: lo avevo giudicato male, ma ero contenta di essermi sbagliata. Mentre stavo facendo la coda insieme alle mie amiche per ordinare la cena con la famosa bistecca Chianina intravidi Marco, era al bar e aveva appena finito di bere una birra insieme a un amico. Mi avvicinai a lui e ne approfittai per salutarlo.
«Ciao Marco come va?» gli dissi a voce bassa, con la paura che mi dicesse di lasciarlo in pace.
«Elisabetta… che bella sorpresa! Sei venuta per me?» chiese con un tono ironico ma soave.
«No, non sono qui per te e lo sai… ma sono felice di vederti e ti faccio i complimenti per il premio che hai ricevuto.»
«Ti ringrazio, anche se a dire la verità non ho fatto niente di speciale e non meritavo un premio. Ma hai detto che sei felice di vedermi? Che strano, ho sempre avuto l’impressione di esserti antipatico.»
Mi guardò con infinita dolcezza e allo stesso tempo era come se fosse dispiaciuto per quello che mi aveva detto.
«Perché pensi di essermi antipatico?»
«Be’ non sono uno che legge nel pensiero ma so essere un buono psicologo e posso dire che ogni volta che ti sei trovata vicino a me sembrava che volessi scappare via.»
Era stato estremamente sincero e non aveva avuto paura a dirmi quello che pensava anche a rischio di essere frainteso o giudicato male. Le sue parole mi avevano fatto capire che adesso toccava a me raccontare cosa era successo.
«In realtà non è come pensi… anzi, devo confessarti una cosa. Sei pronto?»
Marco aveva intuito che avevo voglia di confidarmi e sembrava che la cosa gli facesse piacere.
«Avanti…» fece lui sorridendo «dimmi tutto.»
«Quando avevo sedici anni ero innamorata di te.»
«Davvero?! Non me ne ero accorto.»
«Be’ non lo sapeva nessuno perché quello era un segreto che non ho avuto il coraggio di confessare nemmeno alla mia migliore amica. Pensandoci bene non ero veramente innamorata, la mia era solo un’infatuazione, ero una delle tante ragazzine che avevano perso la testa per te.»
«Per me eri la sorellina di Enrico…»
«Lo so e non te ne faccio una colpa perché devo ammettere che quando venivi da Enrico eri sempre molto carino con me. Ma quando due mesi fa mi sono ritrovata vicino a te è stato come se fossi tornata la sedicenne timida e impacciata di tanti anni fa e mi sono messa sulla difensiva senza rendermi conto di quello che stavo facendo. Mi sentivo a disagio e l’unica cosa che riuscivo a fare era aggredirti. Ti giuro che mi dispiace tantissimo. Devo esserti sembrata una persona orribile, potrai mai perdonarmi?»
Marco mi guardava con una bellissima luce negli occhi. Si vedeva che aveva capito cosa mi era successo e quella situazione lo aveva messo di buon umore perché stava ridendo come un bambino.
«Non penso che tu sia una persona orribile, al contrario, se vuoi sapere la verità il tuo senso dell’umorismo lo trovo esilarante e sto bene in tua compagnia. Io... non ho mai amato le persone troppo artificiose e fin dall’inizio mi sei piaciuta per la tua spontaneità, e poi ti trovo anche molto affascinante... Quindi sei perdonata, a patto che tu accetti quell’invito a cena che ti avevo fatto quando eravamo a casa di Teresa.»
Ovviamente ho accettato il suo invito a cena. E le cose sono cambiate.
Sono passati due anni da quella cena e adesso io e Marco viviamo insieme. All’inizio siamo stati cauti, nessuno dei due voleva fare passi azzardati perché eravamo entrambi reduci da storie che ci avevano segnato anche se per motivi diversi, ma poi ci siamo lasciati andare perché il sentimento che ci unisce è diventato sempre più forte. Mi sono innamorata due volte di Marco Pastore.
La prima volta è stata un’infatuazione. La seconda volta si è trattato di vero amore.
IL RAGAZZO CHE FOTOGRAFAVA VAN GOGH
Cristina Biolcati
Al San Gaetano c’è Van Gogh! Il mio messaggio su WhatsApp giunge chiaro.
Oddio! Pensavo fosse morto. La risposta di Bea invece è intrisa d’ironia.
Sei sempre la solita. Insisto, con una faccina che ride sino alle lacrime.
Ma non c’è nulla da ridere. Io e Bea (all’anagrafe Beatrice) siamo al verde. Se non troviamo quanto prima un lavoro, saremo costrette a rinunciare al concerto di Niccolò Fabi e alla festa di compleanno di Matteo. Oltre alla quota del ristorante, bisognerà pur fare a quel cristiano un bel regalo!
Studiamo scienze infermieristiche con passione, siamo tipe serie. Però ogni tanto ci applichiamo in qualche attività, magari poco impegnativa, giusto per toglierci gli sfizi e non gravare sui genitori.
Da Zara, per esempio, abbiamo piegato i capi che la gente lascia ammucchiati nei camerini, dopo averli provati; abbiamo rifornito le scansie di un supermercato al centro commerciale; contattato liste di clienti per invitarli a una prova gratuita dell’udito.
Quello che però amiamo davvero fare, quando a Padova ci sono delle mostre importanti, è la guardia alle sale, immobili come statue. Bea è meno permissiva di me. Ogni tre per due zittisce visitatori troppo chiassosi e sgama
quelli col telefonino, che fingono di non fotografare. Però lei è pignola: da Zara, per dire, ha insistito per spruzzare un depuratore spray sotto le ascelle di ogni maglia, prima di rimetterla in esposizione. L’igiene prima di tutto.
Bea è la mia migliore amica. La conosco da quando andavamo alle elementari. È buffa. E ha le mani in pasta dappertutto, in città, forse per merito del padre che è assessore. E infatti, dopo appena qualche minuto, mi ricontatta.
Andata! Ci aspettano per le nove.
L’emoticon che le mando è eloquente. Faccia sorridente. Ci fossero dei dubbi, esagero col pollice alzato. Intravedo uno spiraglio, una tregua alla sfiga.
Raggiungiamo il centro storico col monopattino, che fa tanto chic e non inquina. Non è elettrico, eh. Quello costava troppo. Si può piegare e mettere in una borsa capiente, dato che a Padova ci sono problemi di parcheggio. Però si arriva sudati.
Bea si scatena: le piace esagerare. Dribbla la gente. È agile, magra come un chiodo.
«Vedi di non cadere, che io non vengo a tirarti su!» le grido, mentre arranco. Lei fa spallucce.
Fra le macchine che ci suonano, la gente che si sposta e il resto, arriviamo davanti al Centro Culturale San Gaetano di via Altinate che sono le nove meno dieci. Imbustiamo
i nostri mezzi, e ci passiamo un fazzolettino sulla fronte. Lei ha i capelli corti, tutti scompigliati. Cerco di pettinarglieli con le mani, in qualche modo. Ma doveva proprio scalmanarsi così! So che novanta su cento abbiamo già il lavoro, però anche l’occhio vuole la sua parte.
Io ho i capelli lunghi e mi faccio una coda. Sembro più ordinata. Sono meno maschiaccio
, eppure mi sento grassa. Che più o meno è lo stesso. Siamo a disagio coi nostri corpi, vorremmo essere diverse.
Quando entriamo, comunichiamo i nostri nomi a un tipo basso e tozzo che sta all’accoglienza. Beatrice Zaia e Linda Carraro. Lui ci scruta, consulta un elenco e con la matita spunta qualcosa. Poi ci dice di accomodarci nella prima saletta a sinistra. Di depositare lì anche le nostre borse voluminose. Per fortuna, perché non sono tutta ‘sta leggerezza come aveva garantito chi ci ha venduto il kit.
Io e Bea entriamo. La conosciamo a memoria, quella saletta. Ci hanno istruito lì anche quando abbiamo fatto la guardia ai Dinosauri Giganti dall’Argentina e all’Egitto di Belzoni. Due rassegne precedenti, organizzate sempre al San Gaetano.
E infatti, Marika, la tipa mora addetta alla sicurezza, ci riconosce. Ci saluta e ci porge le divise. Siccome sappiamo già in cosa consiste il lavoro, si raccomanda di essere silenziose, di non mangiare in sala, di spegnere il telefonino e segnalare ogni tipo di anomalia. E, cosa più importante, di impedire che i visitatori tornino indietro. Si va solo avanti, okay?
Venti minuti dopo, siamo al nostro posto, con le divise blu, giacca e pantaloni. Impettite, ingessate, nonostante il tripudio di colori attorno a noi. Che Van Gogh fosse un genio è cosa risaputa, ma le pennellate pastose dei suoi soggetti tolgono il fiato. Solo nelle prime due salette, notiamo i colori cupi dei lavori giovanili. Poi il suo estro implode, dopo avere sostituito il nero col blu. E allora ogni quadro è una meraviglia. Bea si gasa tutta, rimane affascinata. Perde per un istante il punto, tanto che io sono costretta a darle una gomitata per richiamarla all’ordine. Ci separiamo, io alla sezione 5 e lei a quella 6. Sostiamo nei pressi della porta: se allunghiamo il collo ci possiamo vedere.
Salutiamo di sfuggita qualche altro sorvegliante, dato che ci sono facce note. Poi, entriamo nella parte. Ci concentriamo.
Per tutta la mattina assistiamo a visitatori estasiati, che arrivano e sostano davanti alle tele, indirizzati dalla voce dell’audioguida. Qualcuno introduce bimbi troppo piccoli, che si stancano e disturbano. Ne accompagno parecchi all’uscita e i genitori neanche salutano. Un tizio mi vuole fare fessa, si è detto niente foto, però lui ha un cellulare che tiene nascosto sotto un giubbotto, buttato con noncuranza sul braccio. E qualche volta lo usa. Per cui, gli dico di smetterla. Una coppia di giapponesi segue diligentemente il tragitto, sapessimo noi italiani fare le file come loro!
Mi giro a cercare Bea. È alle prese con un signore anziano, che si avvicina troppo ai quadri, e gli dice di non toccare. Eh sì, la mia sala è molto bella! Sono stata fortunata. È quella col celebre autoritratto, tutto azzurro. Lo guardo, e sembra che anche lui mi osservi. È di piccole dimensioni, come la Gioconda. Chissà perché si pensa sempre che quadri così famosi debbano avere anche una struttura imponente. Invece no, sono come quelle persone piccoline, tutte proporzionate. Belle.
Oddio, ancora il tizio del cellulare. Mi ha preso per stupida? Adesso mi sente.
«Lo so che stai fotografando» dico. «Finiscila o chiamo la sicurezza!»
Mi guarda. Alto, allampanato. Con una felpa rossa, i jeans e il benedetto giubbotto, strategico. Riccioluto, non sarebbe neanche brutto, però ha un’espressione indisponente.
«Ti pare che io venga qui, davanti a questa