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Storie segrete della storia di Torino
Storie segrete della storia di Torino
Storie segrete della storia di Torino
E-book357 pagine4 ore

Storie segrete della storia di Torino

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Misteri, curiosità e scoperte affascinanti, nelle pieghe degli avvenimenti ufficiali

Nella storia esistono fatti, personaggi e luoghi che, in vario modo, hanno contribuito a creare l’identità di un popolo. Esistono mille comparse le cui generalità rimangono celate, nonostante siano state determinanti nell’ispirare le sorti di avvenimenti universalmente celebrati. A Torino questo anonimato storico è ancora più marcato: perfino molti torinesi ignorano nomi e ruoli di personaggi tutt’altro che marginali, cui, invece, andrebbe restituita l’importanza che ebbero nelle vicende non solo della città, ma di tutta Italia. Questo libro è un viaggio alla scoperta delle vicende che hanno influenzato o deciso il destino di avvenimenti passati alla Storia. Sia tra le pagine delle notizie ufficiali, sia all’interno di quelle che il pubblico ignora, esistono infinite storie che meritano di essere conosciute: sono quelle che stiamo per scoprire.

L’anima segreta di Torino finalmente svelata

Tra i temi trattati:

Le origini
Ordini cavallereschi, antipapi, sacro e profano nella Torino medievale
Ludovico, l’uomo dei miracoli
Il “cardinalino” che divenne duca e cambiò il destino di Torino
Massimo, il furibondo vescovo iconoclasta
Il Castello e i suoi molti inquilini
Due golosità che conquistarono il mondo
Di primato in primato
Luci e ombre a Porta Palazzo
Torino in giallo e in nero: dai crimini, lo specchio di una società
Spiriti, spiritisti e altre storie misteriose
Gli anni della paura
I due volti di Torino
Laura Fezia
È nata a Torino, dove vive e lavora. Studiosa del mistero, appassionata di cronaca giudiziaria, fa la consulente e la scrittrice. Con la Newton Compton ha pubblicato Misteri, crimini e storie insolite di Torino, Il giro di Torino in 501 luoghi, Forse non tutti sanno che a Torino…, Alla scoperta dei segreti perduti di Torino, Torino segreta dei Savoia e Storie segrete della storia di Torino.
LinguaItaliano
Data di uscita13 ott 2020
ISBN9788822750884
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    Anteprima del libro

    Storie segrete della storia di Torino - Laura Fezia

    Le origini

    Il ruolo centrale che Torino e il suo circondario ebbero nella Storia è dovuto alla loro posizione geografica, ottimale da un punto di vista commerciale e strategico e risale a un tempo in cui Giulio Cesare non era ancora nato. Furono i Taurini, popolazione celto-ligure, a colonizzare il territorio che va – grosso modo – dal Moncenisio e l’alta Valle di Susa alla pianura dove oggi sorge il capoluogo sabaudo. La definizione di Taurini, però, è dovuta ai romani, che nelle loro marce alla conquista delle Gallie così genericamente indicarono l’insieme di popoli che incontrarono nella zona ai piedi dei monti, appartenenti a tribù diverse come Belaci, Segovii e Segusini: il nome di Torino, infatti, non allude a mandrie di tori presenti nella pianura, come alcune leggende affermano, ma ai monti che la circondano, ossia deriverebbe dalla radice indoeuropea taur, la stessa dalla quale avrebbe origine il termine greco όρος (oros, montagna), che finì per conferire un’identità agli abitanti della zona, la stessa ancora oggi rimarcata nel nome Piemonte.

    Proprio a causa della loro composizione eterogenea, dei Taurini non si sa molto: sembra fossero tutti di stirpe ligure, che entrati in contatto con popolazioni celtiche ne avrebbero parzialmente assorbito la cultura, tanto che perfino gli autori antichi si trovarono in imbarazzo nel classificarli: Plinio e Strabone li definirono «liguri antichi», Livio «semi-galli», Appiano «celtici». Secondo Polibio, il loro principale agglomerato urbano era Taurasia, sulla cui collocazione geografica esistono molti punti interrogativi, anche se attualmente si ritiene che sorgesse nella zona dove la Dora si getta nel Po, in quello che è, oggi, il parco della Colletta, nel quartiere Vanchiglietta.

    Nonostante la sua esistenza quasi leggendaria e le incognite che aleggiano sulla collocazione, però, sembra che fu proprio Taurasia a decidere il destino di Torino o almeno del suo nome.

    Facciamo, quindi, un salto nel tempo e da un periodo che va dal vii al iii secolo a.C., ossia i quattrocento anni circa in cui i Taurini abitarono la valle del Po, spostiamoci al 58 a.C., quando l’allora proconsole Gaio Giulio Cesare, in marcia con il proprio esercito alla conquista della Gallia, decise di porre un accampamento nella pianura al di qua delle Alpi per consentire ai soldati di riposarsi prima di affrontare ulteriori fatiche. Diede quindi ordine di costruire un castrum di forma rettangolare, come d’usanza, nell’area che oggi è delimitata a nord da via Ignazio Giulio, a ovest da via della Consolata e corso Siccardi, dalle vie Cernaia, Santa Teresa e Maria Vittoria a sud e a est da via Accademia delle Scienze, piazza Castello e i Giardini Reali, attraversato dal decumano (l’attuale via Garibaldi) e dal cardo massimo (l’odierna via di Porta Palatina). Non si sa per quale motivo il comandante e i suoi ufficiali scelsero proprio quella zona, la cui conformazione del terreno li costrinse a smussare l’angolo di nord-est, corrispondente all’attuale corso San Maurizio: forse gli aruspici, al seguito dell’esercito, consigliarono tale collocazione, avvertendovi energie propizie? Questa è la prima domanda che sorge allorché si parla delle leggendarie caratteristiche magiche di Torino, il cui attuale centro storico, punto focale di un incrocio unico al mondo di potenti energie telluriche, interessò a tal punto i romani da far passare in secondo piano l’irregolarità del castrum. Un’altra versione, invece, riporta in scena i Taurini e la loro città. Intorno al iii secolo a.C., infatti, il progetto espansionistico dell’Urbe aveva interessato l’Italia settentrionale e secondo un costume che avrebbe portato alla costruzione di uno dei più vasti e potenti domini del mondo antico, gli eserciti in marcia avevano preteso di sottomettere le popolazioni preesistenti, le quali avevano poi approfittato della discesa di Annibale per ribellarsi al giogo dell’oppressore. Solo i Taurini erano rimasti fedeli a Roma, opponendo una strenua resistenza di tre giorni alla compagine africana, che però espugnò e distrusse Taurasia. Così la seconda leggenda sull’ubicazione del castrum racconta che Giulio Cesare volle tenere conto del sacrificio degli uomini dei monti e della loro fedeltà, anche se la presunta collocazione della città nel parco della Colletta la porrebbero al di fuori dei confini dell’accampamento. Cesare ebbe il tempo di compiere le gesta che i libri raccontano: la sua ascesa fu fermata alle idi di marzo del 44 a.C. dai pugnali dei congiurati, decisi a difendere la tradizione repubblicana; il loro tentativo si rivelò vano allorché – dopo alterne vicende – nel cielo della Storia sorse l’astro di Ottaviano Augusto, che dopo aver sconfitto Antonio e Cleopatra ad Azio e sistemato un po’ di altre faccende interne, inaugurò l’impero. Nel frattempo, l’antico castrum pedemontano si era ampliato, nel 28 a.C. fu elevato al rango di colonia romana, affidata ai veterani dell’esercito di Cesare e con il nome di Julia Augusta Taurinorum iniziò ufficialmente la sua vita come vera e propria civitas. Con il tempo, però, sparirono sia Julia, sia Augusta e furono i Taurini a vincere la gara della Storia.

    11.tif

    Frontespizio della Historia dell’Augusta Città di Torino di Emanuele Tesauro, stampata a Torino nel 1679.

    Ma ci sono altre due versioni per ciò che riguarda il nome di Torino, entrambe leggendarie.

    La prima si rifà alla sua presunta origine egizia, la seconda a un toro che si sacrificò per salvare gli abitanti del luogo.

    Sui natali egizi di Torino è stato detto di tutto, ma la versione prevalente è quella che vede un principe, figlio di un non meglio identificato faraone, stancarsi dell’insopportabile calura del patrio Egitto, imbarcarsi insieme a una piccola corte su di una nave e iniziare a solcare i mari alla ricerca di una terra più confacente ai suoi gusti. Approdò in Liguria, varcò gli Appennini e alla vista della pianura che si estendeva oltre quei monti, solcata da un grande fiume che gli ricordava il Nilo, si fermò a ristorarsi. In quel momento, la sua attenzione fu attirata da un maestoso toro intento a dissetarsi, che gli confermò la somiglianza di quel luogo con la sua terra, dove veniva adorato il dio Api. Decise, così, di fondare una città dove istituì il culto del toro-Api. Il principe, da qualcuno chiamato Eridano, da altri Fetonte, da altri ancora in modo diverso, morì poco dopo annegando nel Po e fu sepolto in città con grandi onori.

    15.tif

    Statua dell’imperatore Ottaviano Augusto. Incisione di F. Garzoli (1833).

    Invece il salesiano Antonio Ghirardi, zelante collaboratore di don Bosco, riporta un’altra storia nell’Almanacco di Torino per l’anno 1881, raccontando come, in un tempo non meglio definito, ma presumibilmente identificabile con il Neolitico, un enorme e feroce mostro dalle molte teste abitasse i boschi nei dintorni di quello che era ancora solo un villaggio, terrorizzando gli abitanti e i viandanti e divorando chiunque avesse la sventura di incontrarlo. L’infernale creatura era inoltre in grado di ammaliare le sue prede con un solo sguardo. Si tratta, in realtà, della leggenda del basilisco, presente in molte altre tradizioni: l’orribile bestia poteva essere sconfitta solo se chi vi si fosse imbattuto fosse riuscito a fissarla negli occhi per primo, cosa quasi impossibile data la sua velocità nello sbucare fuori all’improvviso. Nella zona, però, viveva anche un enorme toro: non si sa a chi appartenesse, né chi lo nutrisse e il salesiano ne fa quasi intendere l’origine soprannaturale. Fu proprio il possente animale a sconfiggere il serpente dalle molte teste: aizzato contro il mostro, lo affrontò e lo uccise a cornate, liberando la città «ove fu ricevuto con grandi feste». Altre fonti popolari, invece, riferiscono che un normalissimo toro di notevoli dimensioni fu fatto ubriacare da un astuto contadino e, in preda ai fumi del vino, si scagliò contro il drago, lo sconfisse, ma ne rimase a sua volta ucciso; così, in segno di gratitudine per quel sacrificio, gli abitanti del villaggio scelsero per sé il nome di Taurini.

    Tra le tante ipotesi che vogliono a tutti i costi attribuire a un toro la responsabilità del nome della città, ve ne sono altre, tra le quali quella di Alberto Viriglio, vissuto tra il 1851 e il 1913, autore di libri quali Torino e i torinesi, Torino Napoleonica, Voci e cose del Vecchio Piemonte: egli afferma che i primi colonizzatori del territorio furono affascinati dal punto in cui il Po e la Dora si uniscono, che evocò in loro l’immagine delle corna di un possente toro. C’è, infine, la versione zodiacale, che non può mai mancare: Torino avrebbe visto i propri natali sotto il segno del Toro, mentre esistono autori che collocano il suo Sole in Acquario, con il Toro come ascendente; questo calcolo, ovviamente, è stato eseguito su dati presuntivi, poiché è piuttosto difficile stilare un tema astrologico in assenza di alcuni elementi indispensabili, quali non solo il giorno, il mese e l’anno, ma addirittura l’ora precisa della nascita.

    Solo nel 1360, però, il toro fece ufficialmente la sua comparsa nello stemma di Torino, allorché Amedeo vi di Savoia, meglio conosciuto come il Conte Verde, concesse alla città uno statuto che stabilisse le regole del vivere civile. L’imponente volume in pergamena, finemente miniato, fu posto in piazza delle Erbe, a disposizione dei sudditi: assunse il nome di Codice della Catena (o del cavalletto o del pilastrino) nel 1492, poiché per evitarne il furto fu assicurato a un pilastro con due catene di ferro. Oggi è conservato presso l’Archivio storico, al civico 32 di via Barbaroux.

    Insomma, Torino fa la misteriosa e mantiene la propria proverbiale riservatezza anche per ciò che riguarda le origini del suo nome.

    Ma avendola evocata attraverso la figura del Conte Verde, è ora di passare oltre e andare a curiosare nelle intricatissime vicende della dinastia che nel bene e nel male ne fu padrona per quasi un millennio.

    L’oscura nascita

    di una potente dinastia

    La Storia spesso ci racconta come personaggi affatto aristocratici, ma dotati di grandi ambizioni e di piccoli eserciti, abbiano, a un certo punto, offerto i loro servigi militari a qualche potente, aiutandolo a conquistare parti di regno o a ridurre le pretese di una popolazione ribelle, ricavandone titoli, privilegi, territori e magari, nel tempo, anche una corona.

    Di Umberto Biancamano, capostipite dei Savoia, invece, si sa poco o nulla, meno che mai come acquisì il titolo di conte, che compare per la prima volta accanto al suo nome in un documento vescovile datato 1003. E a proposito del nome: non vi è certezza nemmeno su quello! Sembra, infatti, che un tale Umberto (o Uberto), presumibilmente nato nel 980 a Chambéry o dintorni da padre ignoto, si trovò improvvisamente pieno di soldi, di cui non si conosce l’origine. Nessuno sa, infatti, di cosa vivesse prima di diventare conte di Moriana, di Savoia, di Belley e d’Aosta. Quel Biancamano con cui è passato alla Storia sembra derivi da un errore di trascrizione e compare solo a partire dal xiv secolo – precisamente dal 1342 – in un registro dell’abbazia di Hautecombe: la maggior parte degli storici sospetta la svista di un amanuense, che invece di albis moenibus (dalle bianche mura di una fortezza o delle Alpi) scrisse albis manibus, dalle bianche mani, soprannome con cui normalmente viene indicato il capostipite della dinastia sabauda. A cercare di dissipare le imbarazzanti ombre che offuscavano la figura dell’avo fu, nel xv secolo, Amedeo viii: assoldò un sedicente storico, tale Jean d’Orville, detto Cabaret, forse uno di quei tanti trafficoni con un’infarinatura di erudizione che orbitavano intorno alle corti cercando di procurarsi vitto e alloggio offrendo i loro servigi ai potenti, e gli ordinò di rimestare nelle pieghe più oscure della Storia per dare al casato quel lustro che mancava. L’astuto Jean, una volta assunto l’incarico, menò talmente il can per l’aia nel tentativo di mantenere il più a lungo possibile quel posto di lavoro così redditizio, che impiegò una ventina d’anni a frugare tra carte e documenti e ovviamente confezionò una conclusione che accontentasse il suo nobile sponsor. D’Orville riuscì a riesumare un certo Beroldo, «stirpe alemanna del duca Vitichindo di Sassonia, antagonista di Carlo Magno, capostipite del casato Wettin», cui appioppò la paternità di Biancamano, non si sa se legittima oppure no. Altre versioni – tutte comunque fumose – fanno discendere il nostro uomo da Ugo Capeto, o da Bosone di Provenza, o dai duchi di Borgogna. Insomma: i dubbi restano, nonostante gli sforzi dei discendenti per conferire lustro a un casato che, con ogni probabilità, non ebbe un’origine limpida. A conferma di ciò, confusione e contraddizioni regnano sovrane anche per ciò che riguarda le opere di Umberto. Primo rappresentante della progenie a potersi fregiare del titolo di conte, anche se non sappiamo come riuscì a ottenerlo, nel leggere la sua biografia nasce il sospetto che rincorse a lungo un riscatto sociale dovuto, forse, a umili o incerti natali e si ingegnò con tanta ostinazione – ricorrendo magari a qualche poco nobile espediente – che il successo gli arrise: infatti fu un abile intrallazzatore e uno spregiudicato uomo d’affari, simile a quelli che le cronache attuali definiscono faccendieri, tanto che, grazie a continui cambiamenti di bandiera alla ricerca dell’alleanza più conveniente, riuscì a ottenere da Corrado ii il Salico le contee di Moriana, di Belley, d’Aosta e il Chiablese, e anche, particolare ben più importante, il controllo esclusivo sui valichi alpini del Moncenisio e del Piccolo San Bernardo. Poté così imporre pedaggi per il transito di mercanti e pellegrini, ma anche consentire il passaggio solo agli eserciti disposti a concedere favori al proprietario o ai suoi alleati. In tal modo, ebbe il via la fortuna dei Savoia, che iniziarono ad accumulare ricchezze e divennero in breve tempo disinvolti maestri nell’arte della diplomazia e del tornaconto personale.

    Umberto_Biancamano_di_Savoia.jpg

    Umberto Biancamano in un’incisione tratta da Albero Gentilizio della Casa di Savoia, dell’abate Ferrero di Lavriano, pubblicato a Torino nel 1701.

    Umberto sposò, intorno all’anno Mille, una tale Ancilia, chiamata anche Auxilia, Ausilia o Ancilla, della quale si sa ancora meno: secondo gli storici potrebbe trattarsi di Ancilia d’Aosta, figlia di Anselmo d’Aosta, oppure di Ancilia di Nyon, figlia di Anselmo di Nyon, o ancora di Ancilia di Lenzbourg, figlia di Arnold Von Schannis. Chiuque fosse costei, diede al marito quattro legittimi eredi maschi: Amedeo, Oddone, Burcardo e Aimone; sembra che la coppia ebbe anche una figlia, ma le cronache, già avare di notizie per ciò che riguarda i genitori, la ignorano.

    Alla morte di Umberto, sulla cui data, tanto per cambiare, incombe l’incertezza (la maggior parte degli esperti afferma diplomaticamente «dopo il 1056»), il primogenito, passato alla Storia come Amedeo i di Savoia, detto Coda per essersi rifiutato di entrare a Verona (altri dicono a Roma) da solo, privo della propria scorta, ne ereditò le terre, il patrimonio e i titoli, ma essendo deceduto senza prole vivente nel 1051, fu sostituito dal fratello Oddone, che in realtà non ricoprirebbe un ruolo determinante se non per un particolare: fu grazie a lui che i Savoia misero le mani su Torino.

    Anche sul secondogenito di Umberto, che si ritrovò improvvisamente investito del ruolo di capofamiglia, le notizie sono scarse: non si conosce la sua esatta data di nascita, si sa solo che – presumibilmente nel 1045 o giù di lì – sposò una certa Adelaide di Susa, erede del patrimonio dei marchesi arduinici di Torino. Gli sponsali furono combinati dall’imperatore Enrico iii, detto Il Nero, allo scopo di instaurare rapporti amichevoli fra i due potenti casati che facevano il bello e il cattivo tempo nei territori delle Alpi nord-occidentali e presidiavano gli strategici valichi del Moncenisio e del Gran San Bernardo.

    Fu dunque in virtù di un matrimonio se i Savoia misero le mani su Torino e sugli altri possedimenti che facevano parte della marca – la Valsusa, Ventimiglia, Albenga, il comitato di Bredulo, Alba e Ivrea – istituita intorno al 941 da Ugo di Provenza – conosciuto anche come Ugo d’Arles – e assegnata ad Arduino il Glabro (o Glabrione), insieme al titolo di marchese.

    A quanto pare – perché anche in questo caso l’incertezza regna sovrana – Adelaide non era di primo pelo quando andò in moglie a Oddone: era già stata sposata due volte, con Ermanno iv di Svevia, figliastro dell’imperatore Corrado ii il Salico, ed Enrico di Monferrato e altrettante rimasta vedova. Al primo marito sembra avesse dato quattro figli (Gerardo, Adalberto, Adelaide e Richwara), ma non tutti gli storici sono d’accordo su tale punto; nessuna progenie, invece, risulterebbe dal secondo sponsale.

    Quando fu combinato il matrimonio con Oddone, Adelaide aveva circa trent’anni, un’età veneranda per una moglie il cui principale compito sarebbe stato quello di perpetrare la dinastia, ma i conti di Savoia non guardarono troppo per il sottile, abbacinati dalla succulenta dote della sposa. Ebbero ragione, perché le nozze tra Oddone e Adelaide consentirono loro di mettere a segno un colpaccio. A dispetto dell’età della sposa, invece, la coppia procreò abbondantemente: nacquero, a raffica, Pietro, Amedeo, Berta, un’altra Adelaide e forse un ultimogenito Oddone, morto in fasce. Questo terzo matrimonio durò una dozzina di anni: Oddone di Savoia passò a miglior vita tra il 1057 e il 1060 (come sempre in questa vicenda l’unica certezza è l’incertezza) e Adelaide non pensò a risposarsi una quarta volta, ma non bisogna pensare a lei come a una donnetta fragile, che dopo aver trascorso parte dell’esistenza a sfornare figli si ritirò a vita privata, tutt’altro. Abituata dal padre Olderico Manfredi ii a indossare la corazza e a maneggiare le armi fin dall’infanzia, sopravvisse al marito per oltre trent’anni, mantenendo le redini in nome del primogenito ancora troppo giovane per governare, impegnandosi certamente nelle consuete attività proprie delle dame del suo lignaggio, come occuparsi di sistemare i numerosi figli, fondare conventi e monasteri, favorire le arti, soccorrere i derelitti, ma esercitando anche il potere con fermezza e determinazione, facendo, all’occorrenza, la voce grossa con vescovi e personaggi di spicco. Morì a Canischio, un piccolo villaggio nella valle dell’Orco, dove si era ritirata, il 19 dicembre 1091: essendo presumibilmente nata nel 1016, aveva settantacinque anni. Prima di morire, poiché il primogenito Pietro e il secondogenito Amedeo l’avevano preceduta nella tomba, riuscì ancora a diventare reggente in nome del nipote Umberto, figlio di Amedeo, che passerà alla Storia come Umberto ii di Savoia.

    Gregorio.VII.tif

    Gregorio 

    vii

     in un’incisione tratta Le vite dei pontefici del Platina (1715).

    Tra tutte le vicende di cui Adelaide fu la silenziosa regista, ne spicca una, conosciuta solo dagli storici anche se riguarda un avvenimento di cui tutti i libri parlano: l’umiliazione di Canossa. Infatti la sua primogenita femmina – Berta, dal nome della nonna materna Berta Obertagna, contessa di Milano – il 13 luglio 1066 aveva sposato Enrico iv di Franconia, Rex romanorum, che diventerà imperatore del Sacro Romano Impero solo nel 1084. Siamo nell’epoca burrascosa della lotta per le investiture: Enrico, nel tentativo maldestro di consolidare il proprio potere, decise di assegnare al chierico Tedaldo, notaio della Chiesa ambrosiana, la diocesi di Milano, divenuta vacante. Ciò scatenò le ire di papa Gregorio vii, che il 22 febbraio 1076 scomunicò il re, sciogliendo i sudditi dal giuramento di fedeltà. L’evento provocò una dura reazione dei principi tedeschi, che gli imposero la riconciliazione con il papa entro un anno, da solennizzare ad Augusta. Ma il focoso Enrico non ne volle sapere: nel mese di dicembre scese con il suo esercito in Italia, alla volta di Roma, per regolare i conti con il pontefice a modo suo. Gregorio, preoccupato, non stette lì ad aspettarlo e si rifugiò presso il castello di Canossa, ospite della contessa Matilde, cugina di Adelaide, che a questo punto fa il proprio ingresso in scena, dimenticata, però dalla Storia. In realtà fu lei a convincere il recalcitrante genero a compiere un passo che, pur costringendolo a una penitenza sgradita, gli avrebbe portato notevoli vantaggi. Suocera e genero si misero dunque in cammino per raggiungere il pontefice ospite di Matilde, che – contrariamente a quanto raccontato – pare non ebbe grande voce in capitolo, limitandosi a mettere a disposizione il suo castello e sembra perfino che lo fece dietro sollecitazione della cugina.

    Mentre Enrico, dal 25 al 27 gennaio 1077, rimase in attesa della clemenza papale, esposto al freddo e alle intemperie, Adelaide (anche se la Storia diede in seguito il merito a Matilde) perorò la causa del genero e lo fece con tanta determinazione che Gregorio vii decise di revocare la scomunica e di perdonare il reo. L’operazione – dando ragione alla saggezza sabauda – si rivelò un’astuta mossa diplomatica, che restituì al re la possibilità di rialzare la testa e scalfì l’autorevolezza pontificia. Poco più tardi, attraverso peripezie storiche che ogni libro scolastico può raccontare, Enrico entrò in conflitto con il cognato Rodolfo di Rheinfelden, duca di Svevia, anche lui genero di Adelaide avendone sposato la secondogenita femmina; non risulta, però, che la nobildonna si immischiò in questa contesa, che fruttò al sovrano una seconda scomunica, ma nel giro di soli sette anni dall’umiliazione di Canossa, Enrico iv di Franconia riuscì a far fuggire Gregorio vii da Roma, obbligandolo a rifugiarsi a Castel Sant’Angelo; sul Soglio di Pietro salì come antipapa Guiberto da Ravenna, che assunse il nome pontificale di Clemente iii: fu lui a incoronare Enrico imperatore del Sacro Romano Impero, non si sa con quanto gradimento della suocera, che conosceva bene l’indole altamente infiammabile del genero.

    Alla morte di Adelaide, il nipote Umberto – detto Il Rinforzato forse a causa della possente stazza – prese il timone del casato: si accorse, però, che la maggior parte dei domini piemontesi erano andati perduti, valicò le Alpi per cercare di riconquistarli ma riuscì a riprendersi solo la Valsusa e la Valle d’Aosta.

    Nel frattempo, Torino portava avanti la propria vita di grosso borgo: per i Savoia – sempre arroccati a Chambéry – era una delle tante contrade d’oltralpe poste sotto il loro dominio. Avrebbero iniziato ad accorgersi della sua importanza molto più tardi.

    I principi d’Acaja: i grandi meriti di un ramo cadetto

    In tutte le dinastie, vi sono un ramo principale e più o meno numerosi rami cadetti. La maggior parte di questi ultimi nacque per collocare degnamente e arricchire di un titolo qualche rampollo secondo o terzogenito che, per vari motivi, non era stato possibile destinare alla carriera ecclesiastica. Oppure, in virtù di un prestigioso matrimonio.

    È questo il caso del primo, importante ramo cadetto dei Savoia, gli Acaja, oggi più noti per essere titolari di una via torinese e di una stazione della metropolitana che per meriti storici.

    Sarebbe lungo e complicato seguire nel dettaglio l’albero genealogico del casato dalla morte di Umberto Il Rinforzato, avvenuta nel 1103, percorrendo poco meno di un paio di secoli, dunque ne farò solo un accenno: a Umberto succedette Amedeo iii, il primo, in realtà, ad assumere ufficialmente il titolo di conte di Savoia, il quale a sua volta – attraverso complicate peripezie dinastiche e un paio di matrimoni – cedette il potere a Umberto iii, detto Il Beato (fu beatificato nel 1838 da Gregorio xvi). A proposito di quest’ultimo, c’è una gustosa curiosità: pare ambisse alla vita ascetica e fosse contrario al matrimonio, ciò nonostante gli toccò sposarsi quattro volte, con tali Faidiva di Tolosa, Gertrude di Lorena, Clemenzia di Zähringen e Beatrice di Mâcon; solo quest’ultima gli diede un successore, Tommaso i. Costui mise al mondo ben quattordici figli, tra maschi e femmine: il suo erede fu il primogenito Amedeo iv, ma in seguito a morti premature e nozze prive di progenie, alla sua morte, nel 1253, lasciò lo scettro al fratello terzogenito, Tommaso ii, che inizialmente era stato destinato alla vita religiosa. Convolato a nozze una prima volta con tale Giovanna contessa delle Fiandre e di Hainaut senza che l’unione

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