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La ladra di perle
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E-book587 pagine8 ore

La ladra di perle

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Info su questo ebook

Una saga familiare indimenticabile

Quando a Severine Kassel viene chiesta una perizia su alcune preziose perle bizantine appena prestate al British Museum, lei accetta senza esitazione: dopotutto è un’esperta di gioielli antichi ed è perfettamente in grado di svolgere un lavoro del genere. 
Ma non appena Severine si trova davanti le perle, il suo passato ritorna con violenza. Quelle perle appartengono alla sua famiglia e si portano dietro ricordi che lei ha cercato di dimenticare per oltre vent’anni. 
La rivelazione di Severine dà vita a una ricerca frenetica dell’ex soldato nazista, Ruda Mayek: colui che le ha sconvolto la vita. Con l’aiuto di un agente del Mossad in pensione, Severine è disposta a tutto per rintracciare Ruda. 
Ma l’avvocato che si occupa del prestito delle perle, l’unica persona in grado di aiutarli, è vincolato dal segreto professionale. Mentre Severine segue le tracce di Mayek, tutte le sue certezze vanno in frantumi. Forse i segreti che ha custodito per tanti anni stanno per essere rivelati.

Bestseller internazionale 
Perfetto per chi ama Dinah Jefferies e Kristin Hannah 

«Ho adorato questo libro, anche nei passaggi più dolorosi l’autrice riesce a trasmettere la speranza.» 

«Un libro straordinario che riesce a catapultare il lettore nella vicenda, proprio accanto ai personaggi e alle loro avventure.» 

«La scrittura dell’autrice è ipnotica, avvincente: non vorresti staccarti mai.» 

«Una storia intensa, con momenti drammatici e romantici. Ci ricorda che non bisogna mai dimenticare l’orrore dell’Olocausto.» 

«Mi sentivo al fianco della protagonista a Praga, Parigi, Londra, York… Questo romanzo ha cuore, ha ritmo ed è uno scrigno pieno di sorprese. Complimenti all’autrice.»
Fiona McIntosh
È nata nel 1960 a Brighton. Dopo aver trascorso un’infanzia sempre in viaggio, grazie al lavoro del padre, si è stabilita in Australia, dove tuttora vive. È un’autrice di libri per adulti e per bambini.
LinguaItaliano
Data di uscita10 feb 2021
ISBN9788822750433
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    Anteprima del libro

    La ladra di perle - Fiona McIntosh

    1

    Londra, British Museum

    Aprile 1963

    Gli angoli netti che armonizzavano i piani del viso di Severine sembravano disegnati con tratti precisi da una matita appuntita. Eppure i punti salienti che rendevano la sua figura così elegantemente composta, dall’ampio triangolo delle spalle affusolate alla inclinazione delle caviglie, parvero pieghettarla, restringerla mentre indietreggiava dalla vetrinetta. Sentendosi venir meno per un istante, allungò la mano dietro di sé e annaspò in cerca di un sostegno. Si accartocciò su una sedia.

    Il tailleur su misura che indossava, con la firma dello stilista parigino ricamata sulla fodera in raso, si accartocciò insieme a lei. Ciò nonostante non perse il suo impeccabile aplomb, né privò la donna di quella naturale eleganza che le sue colleghe britanniche ammiravano con malinconica invidia. Appollaiata su quella sedia, però, somigliava a un fragile uccellino, pronto a sussultare al minimo rumore; non badò agli altri, nemmeno quando le sue colleghe si chinarono su di lei con toni premurosi e preoccupati.

    «Mademoiselle Kassel!», le fecero animo le compagne, ma era come se lei non riuscisse più a sentirle.

    In quei momenti di terrore, Severine perdeva ogni contatto con il presente e veniva trasportata altrove. All’improvviso non si trovava più su pavimenti di parquet, circondata da legno brunito e librerie a vetri nella Biblioteca di re Giorgio iii del British Musem. Nella sua mente, non era più una mattina del 1963, sulla Great Russell Street di Londra piena di traffico e di passanti che tiravano su col naso smaltendo i loro raffreddori primaverili. Tutti quei suoni umani e l’attuale, innocente scenario si erano sparpagliati nella sua mente per poi ricomporsi nella vivida immagine del 1941, un ricordo che negli ultimi dieci anni aveva bandito da se stessa.

    In quei lunghi momenti di risvegliato terrore, l’incubo fuggiva dalla prigione in cui lo teneva relegato scatenando la reminiscenza del sangue, talmente potente che ne sentiva ancora una volta l’umida viscosità sulla pelle. E il sapore sulle labbra… come il rame delle corone ceche che faceva tintinnare sulla lingua quando, da bambina, si nascondeva le monete in bocca andando al negozio di dolciumi.

    Aveva confinato l’orrore del 1941 così lontano, lo aveva sepolto così profondamente nel suo animo, che vi erano giorni – rari, luminosi giorni – in cui non pensava al male che aveva cambiato il corso della sua vita. Tuttavia, ne sentiva il peso dentro di sé, come un viscido veleno che cercava di consumarla in tutta la sua tossica, raccapricciante realtà. Ma aveva imparato a domare quei demoni, e non permetteva a quel circo di tenere spettacolo sotto il tendone della sua mente – a meno che non decidesse di lasciar uscire le belve.

    Per molti anni, grazie a quel disciplinato controllo, aveva condotto una vita tranquilla, irreggimentata entro una meticolosa routine al fine di tenere il male al chiuso, i pensieri occupati e in ordine. In particolare, per tenere le emozioni a freno. Di conseguenza, però, Severine – un tempo una bambina vivace e precoce – era diventata una persona non più capace di abbandonarsi a una gioia smodata o a una risata schietta.

    Ma quel giorno aveva perso ogni controllo. Era stata la vista delle Perle ad aver innescato quella reazione.

    La sua giornata era iniziata senza alcuna avvisaglia del dramma che stava per svolgersi. Si era svegliata alla solita ora, verso le cinque e trenta di una gelida alba primaverile. Una lama obliqua di sole si era infiltrata nell’appartamento di Bloomsbury, all’ultimo piano di un palazzo in mattoni rossi che Severine non sapeva se definire neoclassico o barocco. Gli stili fluidi dell’architettura inglese nel corso dei secoli confondevano Severine, che si ripropose per l’ennesima volta di verificare con i suoi colleghi al museo. Comunque fosse, le piaceva la simmetria alta e imponente dell’edificio – chiamato Museum Chambers – che lei riteneva vittoriano per la sua austerità, seppure mitigata da volute decorative, vetrate artistiche e un portico in pietra bianca. Era il suo alloggio temporaneo e distava solo pochi passi a piedi dal suo lavoro al British Museum. Il suo appartamento in Francia aveva alte portefinestre, e questa versione inglese con il telaio scorrevole e le cassette traboccanti di fiori in primavera ed estate era, secondo Severine, un indovinato sostituto. Il balcone in ferro battuto era l’ideale per una mite serata estiva, anche se lei non lo avrebbe mai saputo. Il suo contratto era di soli sei mesi.

    Emise un lieve sospiro guardando giù in Bury Street, già animata alle prime luci del giorno da uno spazzino e un paio di pedoni che si affrettavano in direzioni opposte – sagome anonime avvolte in strati di indumenti che li proteggevano dal tocco gelido del mattino.

    «Ancora tre settimane», mormorò in francese, pensando a Parigi e al fatto che presto sarebbe tornata in Francia. Annuì, sentendosi in colpa perché si stava godendo questo periodo sabbatico londinese e le sfide che offriva, soprattutto l’uso della lingua locale. «Forse prolungheranno il contratto», mormorò, stavolta in inglese, gustando il modo in cui le parole le scivolavano fuori di bocca. Dopo tante insistenze, il suo defunto padre sarebbe stato orgoglioso di sentirla usare le lingue che lui voleva padroneggiasse.

    «Il francese, perché non c’è lingua più bella; l’inglese, perché è la più importante; il tedesco, più utile che mai in questo momento», le aveva consigliato nel 1934, quando Severine aveva sette anni. «Ma sii sempre fiera del tuo ceco e dell’ebraico… perché è questo che sei», aveva aggiunto, tirandole scherzosamente il naso.

    Severine cacciò via i pensieri e si concentrò sulla vita presente – non era mai d’aiuto rivivere troppo a lungo i ricordi, persino quelli belli dell’infanzia. Voleva davvero fermarsi ancora a Londra? Abitare lì? Era disposta a prendere in considerazione l’idea. Rimanere in Inghilterra… definitivamente? Avrebbe dovuto organizzarsi per vendere tutto in Francia e sistemarsi come si deve sul suolo inglese; forse un appartamentino in città e un cottage in campagna… magari a York, che le piaceva tanto…

    Si fece il bagno e valutò se indossare il suo abito a trapezio preferito – una copia della silhouette audace creata da Yves Saint Laurent che aveva non solo lasciato senza fiato gli stilisti francesi, ma anche scosso le case di moda di tutto il mondo. Severine ricordò il sospiro di piacere che le era sfuggito ammirando le linee semplici ed essenziali che esercitavano un così forte richiamo sulla sua mente ordinata e i suoi modi precisi. Yves Saint Laurent, il giovane turco che aveva preso il timone della maison alla morte dell’illustre predecessore – e idolo di Severine – Dior, aveva tratto grande ispirazione dal maestro e spinto Severine a ideare un proprio stile. Si era resa conto che quel design innovativo aveva aperto la strada agli abiti baby-doll che tanti moderni londinesi consideravano una creazione personale. «Ma è interamente francese». Sorrise mentre lo diceva. «Forse avrei dovuto dedicarmi alla moda», aggiunse. Sapeva che era bizzarro parlare ad alta voce quando non c’era nessun altro presente, ma attribuì la strana abitudine ad anni di isolamento volontario.

    Invece di riflettere sulla ragione che le aveva fatto scegliere di specializzarsi in gioielli antichi, si distrasse rovistando nel suo piccolo guardaroba. Aveva messo coscienziosamente i soldi da parte per acquistare ogni singolo abito, perché preferiva il taglio elegantemente affidabile degli stilisti più costosi ed era disposta, di conseguenza, ad avere meno opzioni di scelta.

    Allungò la mano verso un tailleur che non aveva ancora indossato a Londra perché non aveva fatto abbastanza caldo per le maniche a tre quarti, ma il freddo ancora intenso l’avrebbe costretta a mettere il soprabito. Immagini del Tamigi copertosi di ghiaccio durante il recente inverno erano ancora vivide nella mente, ma il disgelo era ormai finito. Foto di bambini che giocavano sulla superficie gelata del grande fiume erano apparse su tutti i quotidiani britannici. Alcune erano state scattate anche a Parigi, sulla Senna ghiacciata negli anni precedenti. Adesso era tempo di pensare solo alla primavera, decise Severine. Sistemò la gonna grigia di maglia doppia e di fattura parigina sui fianchi snelli, valorizzati così dalla sobrietà del design. Il semplice top a girocollo aveva le maniche al gomito, e l’unico ornamento era una sciarpa di seta azzurro mare: non l’aveva scelta deliberatamente per far risaltare il colore degli occhi ma, quando esaminò con sguardo critico la propria immagine riflessa, approvò il risultato ottenuto.

    Nessun anello sulle dita affusolate, nessuna spilla sul petto, e non si concesse nemmeno un orologio intorno al polso sottile. Ma le piaceva il rossetto come nota di colore. Già oltre la trentina, Severine Kassel aveva ammesso davanti a quello stesso specchio di non considerarsi abbastanza giovane per il look ingenuo della Londra all’ultima moda e della sua gioventù pallida con le labbra pastello. Benché una passata di rosso vermiglio fosse quasi doverosa per una parigina, Severine scelse una tonalità più scura e la applicò con cura sul labbro inferiore. «Il Rosa Marocco è perfetto», disse, sporgendo le labbra per ammirarne l’effetto nello specchio. «Très bon», confermò alla propria immagine, e si dedicò al labbro superiore con ancora più attenzione nel tracciare una linea precisa di colore.

    Severine consumava di rado la colazione e quel giorno non fece eccezioni. Prendeva una tazza di caffè più che altro per saziarsi di calore, e in particolare per gustare il rituale dell’infusione che le permetteva di ricreare l’odore di Parigi a Londra. Anche se non avrebbe mai capito il fascino che il tè esercitava sugli inglesi, sapeva quanto fosse importante sorseggiare la bevanda insieme ai colleghi per ragioni puramente sociali. Sembrava che ogni problema si risolvesse davanti a una tazza di tè. Ma qui, in Bury Street, l’ultimo piano odorava di chicchi scuri tostati, dove le note acide erano state bruciate via per lasciare che la tipica nota dolceamara del Costa Rica filtrasse sulla minuscola stufa.

    Nonostante la sua intensità, Severine prendeva il caffè nero e non zuccherato, stando in piedi al bancone della piccola cucina. Mandava giù la sua dose mattutina di caffeina in non più di tre sorsi, proprio come avrebbe fatto fermandosi in un caffè francese lungo la strada verso il suo ufficio al Louvre.

    Infilò cappotto e guanti, ignorando un cappello in favore di una grossa sciarpa aggiuntiva, prima di prendere la borsetta in pelle di coccodrillo marrone che aveva comprato dieci anni prima al mercato delle pulci a nord di Parigi. Le ricordava fortemente quella che sua madre sfoggiava nelle occasioni speciali, poco prima dell’occupazione tedesca della Cecoslovacchia. Si domandò per un istante chi portasse ora quel modello di squisita fattura in levigata pelle di rettile – doveva valere parecchio – e subito allontanò quel pensiero pericoloso. Si appese al gomito la borsa lucida che amava sfrenatamente e gettando un ultimo sguardo allo specchio uscì dall’appartamento.

    Ogni mattina, nei giorni lavorativi, Severine lasciava Bury Street con una precisione quasi cronometrica. I vicini, che sarebbero rimasti tali per un tempo insufficiente a impararne i nomi, alzavano la mano in un gesto di saluto a cui lei rispondeva con un sorriso.

    «Potrei regolare il mio orologio su di lei, miss», disse il proprietario del pub locale con una strizzatina d’occhio ammirata. Lui e i suoi ragazzi stavano rifornendo la cantina per la giornata quando Severine si avvicinò all’angolo con Great Russell Street.

    «’giorno, miss», dissero in coro i tre aiutanti, sollevando i cappelli.

    Non erano mai riusciti a pronunciare la parola mademoiselle, sebbene lei avesse provato a insegnargliela. «’giorno, bei ragazzi».

    Uno di loro si portò la mano al cuore, come se stesse spasimando per lei; un altro emise un fischio sfrontato. «Viene a ballare con me stasera, miss?».

    Il più anziano dei tre gli diede un colpetto con il cappello. «Cialtrone insolente! Non ci si rivolge così a una signora, Billy».

    Severine lanciò un sorriso distratto oltre la spalla, consapevole che il piccolo sfacciato era abbastanza giovane da poter essere suo figlio, e agitò la mano in segno di saluto. Proseguì, accompagnata dal ticchettio dei tacchi sull’umido marciapiede di Londra, verso quella che nel xviii secolo era stata una grandiosa residenza che un gruppo di amministratori fiduciari aveva acquistato dalla famiglia Montague. Alla metà del secolo, la dimora fu convertita in sede del British Museum con una legge del Parlamento, a cui re Giorgio ii diede il suo assenso formale, al fine di ospitare le decine di migliaia di oggetti, libri, manoscritti, disegni, esemplari vari che formavano la camera delle meraviglie messa insieme da Hans Sloane e lasciata in eredità alla nazione. Entro la fine di quel secolo, esploratori come il capitano James Cook e collezionisti di antichità donarono o vendettero le loro collezioni finché il museo cominciò a traboccare di reperti, da gemme e monete fino al colossale piede di Apollo in marmo. E si era ampliato ulteriormente, man mano che archeologi e collezionisti vittoriani e edoardiani facevano man bassa di oggetti antichi, dalla Grecia all’Egitto, passando per l’Impero Ottomano.

    Severine si fermò presso i grandi cancelli e valutò i notevoli ampliamenti avvenuti nel corso dei decenni con nuovi edifici, nuovi piani e nuove acquisizioni da tutto il mondo. La guerra aveva comportato un enorme scompiglio al Louvre, più in termini di furti che di danni materiali. Ma fu ben poca cosa se paragonata alla capacità di riorganizzazione e all’astuzia dei responsabili del British Museum. Severine aveva ascoltato con stupore i suoi colleghi descrivere il trasferimento di antichità di valore inestimabile in scantinati sicuri vicino Londra, in una vecchia cava nel Galles, in stazioni della metropolitana come Aldwych, dove – con immensa gioia di Severine – i famosi marmi di Elgin, provenienti dai fregi dell’antico Partenone, erano stati conservati per la durata della guerra. A detta dei colleghi più anziani, gli ambiziosi progetti per lo smistamento di reperti importanti erano stati avviati già nel 1934. Esterrefatta, aveva ascoltato come varie persone coinvolte nella gestione del patrimonio artistico della nazione avessero calcolato in anticipo i rischi della guerra e iniziato a fare scorta di casse da imballaggio cinque anni prima che venisse esploso il primo colpo.

    «Già, proprio così. Quando arrivò l’ordine dal Ministero degli Interni nell’estate del 1939, lo smistamento fu rapido ed efficiente», le aveva spiegato Mr Partridge, godendo di tanto interesse. «Materiali di primaria importanza furono trasferiti all’alba dell’indomani, e circa cento tonnellate di materiali vennero imballate e spedite nel giro di due settimane, inclusi tutti i disegni e le stampe».

    A sentire questo, Severine si era lasciata sfuggire un breve fischio, sommesso ma udibile. «E le sculture di grandi dimensioni?»

    «Richiesero una protezione con sacchi di sabbia di peso equivalente, e a quelle di importanza mondiale, come i marmi di Elgin, fu riservato un trattamento speciale e la loro rimozione comportò alti costi e un impegno notevole», le aveva assicurato.

    Per quanto il popolo britannico fosse eccentrico, Severine lo amava smisuratamente, soprattutto per la tenacia con cui salvaguardava la storia. Era rimasta estasiata nell’apprendere che la mente dietro l’operazione di sgombero era Sir John Forsdyke, ex direttore e primo bibliotecario del British Museum. Secondo i colleghi, Forsdyke aveva una personalità stravagante: durante gli anni della guerra si aggirava nel museo indossando un elmo di latta con su stampinato direttore, e fu uno dei principali artefici di quella che venne chiamata la "suicide exhibition". Questa mostra accoglieva duplicati di antichità, modellini, calchi e numerose riproduzioni esposte in varie gallerie.

    «Servì al duplice scopo», le aveva spiegato l’anziano bibliotecario nella sala da tè «di offrire cultura e intrattenimento ai visitatori in tempo di guerra, ma anche come sacrificio ai rischi della guerra». E se questo non fosse già abbastanza sbalorditivo, Severine seppe anche che la prima di sei bombe ad alto esplosivo cadde sul tetto del museo il 18 settembre del 1940. Attraversò la sala di studio delle Stampe e dei Dipinti, il suo pavimento e gli altri quattro pavimenti di cemento sottostanti per atterrare, inesplosa, nel seminterrato. Ancora più ironico fu il fatto che una seconda bomba, più piccola, passò miracolosamente attraverso il buco creato dalla precedente e atterrò sul mezzanino senza fare danni.

    La terza sfortunatamente sventrò la Biblioteca di re Giorgio iii – ora Sala dell’Illuminismo – e distrusse circa centocinquanta volumi pregiati. Una quarta sparse il suo olio esplosivo fuori del rivestimento in rame della sala e la galleria Duveen, già sgombrata, fu colpita da una piccola bomba che ne danneggiò l’architettura ma non i manufatti. L’emeroteca venne quasi distrutta da un’ulteriore bomba e perse i suoi trentamila volumi di quotidiani provinciali britannici del xix secolo.

    Il vecchio con gli occhi umidi e arrossati e una macchia d’uovo sulla cravatta sospirò. «La fortuna finì nel maggio del 1941. Le bombe incendiarie piovvero dal cielo e il fuoco devastò ogni cosa, divampando in tante sale espositive, e la suicide exhibition seguì il suo destino», concluse con un sorriso di rassegnazione. Severine ne percepì tutta la tristezza mentre lo osservava zoppicare via verso una delle sale della biblioteca, lui che aveva fatto parte dello staff eccentrico e coscienzioso che era stato determinante per la conservazione delle antichità.

    Ora che tutti i preziosi manufatti erano tornati al loro posto e il museo aveva iniziato la lunga opera di riparazione dei danni subiti durante il Blitz, era stato richiesto l’aiuto di alcuni specialisti, in particolare di quelli, come lei, esperti in cultura ebraica.

    Severine ricordò il giorno in cui i responsabili del Louvre le avevano prospettato la cosa.

    «Il tuo retaggio è prezioso. Il mondo fa affidamento sull’aiuto dei superstiti per recuperare l’arte e ogni sorta di oggetti sottratti al popolo ebraico durante la guerra».

    «E Londra come sapeva della mia competenza in antichità?»

    «Colpa mia», aveva ammesso un collega anziano con un lieve sorriso di scuse. «Ho detto loro che eri un’esperta nel valutare la provenienza di un’opera». Si era avvicinato e le aveva stretto la mano con la tenerezza di un padre. «Stiamo ancora emergendo dal più buio dei periodi per l’umanità e tutti puntano sul commercio, mia cara Severine. Sai bene come il mercato sia stato inondato indiscriminatamente di falsi e di pezzi autentici». Aveva annuito, proprio come lui si sarebbe aspettato. «I nostri amici del British Museum sono egualmente determinati a non acquistare oggetti rubati. Abbiamo acconsentito a prestare loro la tua esperienza».

    «Per quanto tempo?»

    «Un breve periodo. Sei settimane, forse. Aiuta dove puoi; è comunque un inizio. Dai una mano nell’esame di alcuni pezzi di gioielleria in particolare, ma esprimi un parere sul cumulo di articoli ebraici che hanno acquisito formalmente o nei quali si sono imbattuti per caso».

    «Qualunque cosa tu possa fare sarà una manna per loro, Sev», l’aveva incoraggiata uno dei colleghi più giovani. «Siamo fieri di offrire tanta perizia al di fuori del Louvre. E avrai i fine settimana liberi per visitare la cittadina di York che ti piace tanto», aggiunse con una strizzatina d’occhio.

    Severine sorrise e annuì. Non poteva negare che per lei fosse un’opportunità a tutti gli effetti. Ed era vero: amava York per tante ragioni, non ultima per la storia avvincente della cittadina. Cosa ancora più importante, avrebbe potuto raggiungere Durham e passare del tempo all’università per uno o due fine settimana. Questo sciolse ogni dubbio residuo.

    «Ho detto che potresti essere lì ai primi di aprile».

    E adesso era lì a sospirare davanti ai cancelli del British Museum. Quanta trepidazione al pensiero di venire a Londra, e quanta malinconia ora al pensiero di lasciare questa splendida città dopo così poco tempo.

    «Nostalgia di casa?», disse una voce a lei familiare.

    Sorrise. «Buongiorno, Catherine».

    «Diamine, adoro il modo in cui dici il mio nome. Ho sempre pensato che fosse così banale. Nella mia classe, una ragazza su quattro si chiamava Kathy o Kate, oppure con la C come nella mia versione, ma tu lo fai sembrare esotico e regale».

    Severine minimizzò il complimento con un sorriso… se solo Catherine avesse saputo la verità.

    «Dico sul serio. Lo sai che potresti leggere ad alta voce la guida del museo alla maggior parte degli uomini che lavorano qui, e loro penserebbero che stai facendo l’amore con loro?»

    «Smettila!».

    «Be’, tu sei la misteriosa esperta francese per la quale tutti hanno perso la testa. A essere sincera, credo che anche metà delle donne siano innamorate di te».

    Severine rise. «E l’altra metà?»

    «Ti odia da morire». Catherine sorrise, adottando un tono malevolo. «Che eleganza! E l’acconciatura dei capelli? L’intensità dello sguardo! Quell’accento. L’atteggiamento distaccato – così dannatamente francese e offensivo!».

    Severine abbassò gli occhi costernata. «Davvero?». Non la infastidiva passare per una persona misteriosa o risultare antipatica per i suoi modi riservati, ma non voleva ostilità nella sua vita.

    «Certo!».

    «Be’, non posso farci nulla se siete un branco di zotici», replicò con un leggero sarcasmo che voleva essere spiritoso.

    L’amica gettò indietro la testa ridendo di gusto. Le note divertite echeggiarono nel cortile del museo e Severine dovette zittirla. Catherine, di qualche anno più giovane di lei, era una delle brillanti donne che Severine aveva conosciuto e che avrebbe potuto definire un’amica. Inoltre, risultava inevitabilmente graziosa senza bisogno di alcun artificio: non le servivano cosmetici per nascondere una carnagione impeccabile e due guance sempre rosee, aveva capelli biondi come la paglia d’estate e una risata asinina davvero spassosa.

    «Allora, hai o no nostalgia di casa?».

    Di Praga? Sempre, disse tra sé prima di rispondere. «Stavo proprio pensando che Londra mi mancherà più di quanto avrei immaginato», ammise.

    Catherine le posò una mano amica sul braccio. «Oh, bene. Allora non c’è molto che ti manchi in Francia, eh?», osservò con un sorriso impertinente.

    Severine cercò una risposta spensierata. «Non i vestiti, non il cibo, non la sua bellezza, non i suoi forni e pasticcerie, non il suo profumo… no».

    Era chiaro che Catherine era divertita dal suo sottile sarcasmo, perché continuò a ridere mentre giravano intorno al cortile anteriore verso un lato del museo.

    «Certo, mi mancano le mie passeggiate parigine alle Tuileries e al Jardin du Luxembourg. Era più semplice che dover arrivare fino a Regent’s Park per fare un po’ di esercizio».

    «Be’, Severine», disse Catherine, ancora incapace, dopo tanta pratica, di pronunciare il nome della sua collega in modo corretto. «Oh, blimey, devo imparare a dirlo bene prima che tu ci lasci. È un nome bellissimo e io lo sto rovinando».

    «Tranquilla, non mi dà fastidio», sorrise Severine. Quel che avrebbe voluto dire in realtà era non è il mio vero nome, quindi non m’interessa.

    2

    Entrarono nell’imponente edificio da un ingresso laterale per il personale, si scambiarono un bacio di saluto e proseguirono verso le rispettive aree di lavoro. Catherine faceva parte della squadra di restauro della galleria Duveen, perciò Severine non si aspettava di rivedere l’amica fino a quella sera, visto che aveva accettato a malincuore di bere qualcosa insieme al vicino pub. Si diresse verso la Sala di lettura, l’ambiente più amato del British Museum. Era situata al centro del complesso, una costruzione imponente in ferro e vetro che l’aveva lasciata senza fiato la prima volta che ci aveva messo piede. Era stata Catherine ad accompagnarla lì, affidandola a Mr Partridge perché le facesse da cicerone.

    Le era bastato uno sguardo per sussultare di meraviglia. «È l’immagine della perfezione», aveva mormorato. «Un trionfo circolare, a dir poco».

    «Tutti vorrebbero lavorare qui dentro – molti di noi trovano un pretesto per entrarvi almeno una volta al giorno, mademoiselle Kassel. Ma lei trascorrerà la maggior parte delle sue ore lavorative in questa sala, e perciò sarà oggetto d’invidia per molti dello staff», aveva detto Mr Partridge. «È tra queste mura che illustri scrittori hanno trovato…», Severine ricordò come avesse cercato l’espressione giusta prima di sorridere benevolmente, «…la pace della mente, inclusi Rudyard Kipling, Mark Twain, Conan Doyle, naturalmente, Orwell, Shaw…».

    Lei non aveva letto nessuno degli autori menzionati, sebbene ne conoscesse i nomi, ma non c’era bisogno di conoscere a fondo le loro opere per capire che la Sala di lettura era come un luogo di culto per qualsiasi ricercatore.

    «Circa cinque chilometri di librerie in totale, e se non sbaglio abbiamo calcolato quaranta chilometri di scaffali».

    «Un mucchio di libri, Mr Partridge», aveva commentato, più che impressionata. Trovarsi in quella sala che ospitava una così vasta conoscenza risvegliò in lei l’entusiasmo; un impulso che la riportò all’infanzia, agli insegnamenti di suo padre e poi – per quanto giovane fosse – al museo dove avevano lavorato insieme. Quando il mondo era precipitato nel delirio e nello sconforto, la loro determinazione a conservare per i posteri ciò che i loro invasori volevano distruggere era stata cruciale. Aveva mantenuto viva un po’ di lucidità in un’esistenza sempre più improntata alla follia. Sbatté le palpebre per scacciare il ricordo.

    Ogni mattina, appena entrava nella quiete della Sala di lettura, il suo spirito si librava alto nell’aria, fino a raggiungere l’oculo alla sommità della cupola. Ogni giorno lasciava che il suo sguardo vagasse sulle estese scaffalature circolari con le loro migliaia di libri pieni di segreti. Severine preferiva le giornate nuvolose, così la luce che filtrava all’interno era velata e conferiva un’atmosfera onirica a una sala, dipinta con l’azzurro delle uova di anatra e il colore della panna appena montata, già di per sé eterea – almeno per lei. Quaranta o più bifore si allineavano come sentinelle alla base della cupola di vetro, che si poteva aprire per consentire la ventilazione, mentre le dorature che risplendevano dalla struttura merlettata in ferro della cupola aumentavano la sensazione di essere entrati in uno spazio celestiale. Lei ne era convinta. All’esterno delle mura circolari, un fiume incessante di visitatori animava il museo. Persone, rumore di passi, espressioni di delizia e di curiosità pronunciate in toni sommessi. Ma dove Severine svolgeva il suo lavoro, la quiete era tale che un colpo di tosse o il fruscio di una pagina girata riusciva a bucare un silenzio pesante, avvolto dall’interno in cartapesta del soffitto.

    «Mi ricorda il Pantheon», aveva detto Severine una volta, e Catherine aveva sogghignato.

    «Blimey, ma sentila! E quando avresti visitato Roma?»

    «Da bambina. Ehm, mio padre viaggiava per lavoro, e portò la nostra famiglia a visitare la città eterna». Fortunatamente non le fu chiesto di approfondire l’argomento.

    Quel mattino trascorse come quasi tutti gli altri: Severine si sistemava nel posto prescelto con un sospiro soddisfatto prima di passare agli armadietti contenenti le schede di archivio. Lì scorreva velocemente i cassetti in cerca del soggetto indicato su un cartellino inserito nella maniglia. «Ogni bibliotecario dovrebbe fare tanto di cappello a Melvil Dewey», mormorò a bassa voce, sempre grata all’americano che ideò un metodo per classificare i volumi di una biblioteca. Nonostante le continue revisioni, il sistema di Dewey rendeva onore al bibliotecario che lo inventò nell’ultimo quarto del xix secolo.

    Suo padre le aveva insegnato il sistema – allora era in uso la quinta edizione ridotta. Severine ricordò che la quattordicesima edizione integrale era stata pubblicata non molto dopo la morte della sua famiglia. «Sono stati assassinati», si corresse sottovoce mentre tirava la maniglia di ottone del cassetto selezionato, apprezzando la levigatezza del metallo consumato dalle mani di ricercatori come lei, che per anni avevano compiuto quello stesso gesto per rivelare il sapere custodito all’interno. L’abitudine le permetteva di perdere la consapevolezza, ma non il senso di quel gesto. Non aveva mai voluto negare la realtà.

    «Il sistema di Dewey organizza il contenuto di una biblioteca in base alle materie», le aveva detto suo padre e, vedendola accigliarsi, aveva proseguito nella spiegazione. «Campi di studio. Coraggio, scegli un argomento», l’aveva sfidata.

    Severine ci aveva riflettuto su, e ricordando che quella mattina aveva visto sua madre prendersi cura dei fiori, aveva fatto la sua scelta. «Le rose», aveva risposto.

    Suo padre le aveva sorriso. «Bene. Supponiamo che tu sia interessata a notizie storiche sulle rose. In tal caso, dovresti andare al numero 635, che è abbinato all’orticoltura…».

    Il fascino per la ricerca era nato in lei quel giorno, a soli otto anni, nel Klementinum, una biblioteca a Praga virtualmente in grado di competere con quella Sala di lettura – pensò Severine.

    La mattinata passò in fretta appena si immerse nel lavoro. Di recente aveva aperto una scatola contenente orecchini in pietra dura. Ipotizzò ametiste e piccole perle, ma l’apprezzamento del design era solo un pensiero passeggero nel suo lavoro. Prima lesse il nome del gioielliere stampato sulla fodera in raso del coperchio. Lo riconobbe, e questo spostò la sua attenzione sull’Europa occidentale. Sollevò il cuscinetto di velluto dove brillavano gli orecchini in cerca di segni rivelatori; scoprì così che il gioiello era già passato due volte per le mani dei banditori d’asta di Sotheby’s. «Bene», mormorò, imitando suo padre. Adesso era ora di scoprire la loro provenienza. Stava per tornare verso i cassetti dell’archivio quando notò una figura familiare avanzare in silenzio verso di lei. Diede un’occhiata all’orologio; erano già quasi le dieci.

    «Miss Kassel?»

    «Bonjour, John. Comment ça va?», replicò muovendo solo le labbra, non c’era bisogno di dirlo ad alta voce.

    Lui arrossì mentre rispondeva – stavolta fu poco più di un sussurro – senza azzardarsi a usare il francese. «Bene, grazie».

    Severine gli indicò l’uscita e lui annuì. Impiegò solo pochi istanti per riordinare la sua scrivania. Ripose gli orecchini nella scatola e la chiuse a chiave prima di alzare la testa con un movimento fluido. Una pausa per distendere le membra era necessaria. Firmò affidando la scatola in custodia alla giovane assistente, che controfirmò. Poi si avviò verso l’uscita, attenta a non far ticchettare i tacchi sul pavimento. Fuori trovò John.

    «C’è bisogno di me?». Lo sperava davvero, sarebbe stata una parentesi gradita.

    «Mi rincresce averla interrotta, ma Mr Partridge ha richiesto il suo aiuto per un articolo».

    «Certamente. Nel suo ufficio?»

    «Ehm, no. Nella Sala dell’Illuminismo».

    Ancora meglio. Godeva di ogni opportunità offertale per passeggiare tra le meraviglie più disparate provenienti da tutto il mondo. «Benissimo». Raddrizzò la spina dorsale e la sentì assestarsi con uno scricchiolio. Stringendo penna e taccuino, sbirciò l’orologio sulla parete per assicurarsi che il museo non fosse ancora aperto al pubblico. Si avviò verso il piccolo corridoio – lo staff lo chiamava il tunnel segreto – che l’avrebbe condotta nella Sala dell’Illuminismo. Emerse dove la porta era accortamente nascosta in mezzo alla distesa di scaffali; la maggior parte dei frequentatori del museo non ne avevano mai conosciuto l’esistenza, se non per puro caso.

    Venne accolta da quattro colleghi, tra i quali una donna e Mr Partridge, il più anziano, che le sorrise con piacere.

    «Ah, ecco Mademoiselle Kassel», disse. «Grazie di essere venuta». Agitò in aria la pipa che portava sempre con sé ma non accendeva mai negli spazi pubblici. «Abbiamo qualcosa di speciale da mostrarle e gradiremmo avere la sua opinione». La scrutò gentilmente attraverso le lenti con montatura in corno.

    «Ne sarei lieta», disse, avvicinandosi. «Cosa avete per me?»

    «È un gioiello antico di rara bellezza. Non è una collana, sto cercando di capire cosa sia», mormorò la collega in tono sommesso e ammirato. «Francamente, non ricordo di essermi imbattuta in un gioiello più strabiliante di questo».

    «Ora sono davvero incuriosita», ammise Severine, non prevedendo nemmeno per un istante cosa sarebbe emerso dal cuscinetto di velluto.

    Si avvicinò alla vetrinetta intorno alla quale erano radunati i colleghi e che conteneva un cappio e una frusta usati sugli schiavi africani nei Caraibi. Quando aveva esaminato quegli oggetti il secondo giorno del suo incarico, aveva letto il cartellino che spiegava la loro provenienza: erano stati raccolti in Giamaica durante il xvii secolo. Mentre leggeva la realistica didascalia, le era passato per la mente che quei reperti erano stati acquisiti non per una preoccupazione morale verso i mali della schiavitù, ma per pura curiosità. Così andava il mondo. Era cambiato qualcosa nel corso dei secoli? Non era stato per pura curiosità che i nazisti avevano sottratto gli oggetti religiosi ebraici per metterli nei loro musei privati, con la speranza di visitare quelle sale dedicate a un popolo estinto, che loro avevano deciso di cancellare dalla faccia della terra?

    «Pensiamo risalga al Medio Evo», mormorò uno dei colleghi, scuotendola dai suoi pensieri «ma a essere sinceri, non abbiamo idea di cosa sia».

    Severine osservò mentre un filo di perle lucenti, flessuoso e dalla forma strana, veniva estratto da una sacca per srotolarsi in aria. A quello scintillio sentì come se qualcuno le avesse affondato la mano nel petto per spremerle il cuore. Le mancò il respiro, e mentre il corpo scivolava in uno stato di shock, si rese conto, seppur vagamente, di battere in fretta le palpebre, quasi a negare la presenza di quel filo di perle che aveva visto emergere, massiccio e sinuoso come un serpente nel suo splendore, dietro un velo sempre più fitto.

    Nonostante lo shock, ebbe un paio di secondi per notare che la loro luce non era offuscata. Erano state indossate per la prima volta nel xi secolo, così si diceva, e di certo la fulgida iridescenza della madreperla non si era spenta negli ultimi anni, da quando Severine le aveva viste… nonostante il tocco infido delle mani che le avevano rubate.

    La visione di Severine si restrinse, le orecchie percepirono il rombo cupo del sangue che poco prima scorreva silenzioso nelle vene. Sentì i polmoni anelare all’ossigeno, lei che di solito era inconsapevole anche di un solo respiro, a meno che non si addensasse nell’aria di una giornata gelida. I sensi la stavano abbandonando. Si ritrovò ad annaspare in cerca di un sostegno per non crollare a terra.

    La bestia era uscita dalla gabbia…

    Intrisa di sangue… in parte suo, da una ferita alla testa, ma soprattutto di altri. Affidandosi all’ultimo briciolo di lucidità che le era rimasto – forse ridotto a semplice istinto di sopravvivenza animale – era stata immobile, in silenzio, come un altro cadavere in quella notte dolorosamente gelida. Avrebbe voluto essere morta quando, più tardi, si trovò presso il bordo indistinto di una fossa comune, scavata in fretta e subito riempita. I defunti erano tutti suoi cari, vivi fino a poche ore prima. Degli sconosciuti li avevano uccisi senza pietà, ma solo un mostro le aveva puntato contro la sua pistola, e anche peggio…

    La testa scattò indietro appena l’odore acre di lavanda mista ad ammoniaca la trascinò indietro dal 1963 al 1941. Il ricordo tremolò e si dissolse, la visione si schiarì; riuscì a vedere la boccetta di sali Crown oscillare in modo nauseante sotto il suo naso e la scansò. Notò una fila di volti preoccupati che la sbirciavano da dietro la segretaria, che era ferma davanti a lei e che probabilmente si era appena procurata i sali. La guardò riavvitare il tappo rosso a forma di corona.

    «Si sente meglio?», le domandò la segretaria.

    Severine annuì. «Sì, grazie».

    «Le lascio i sali?»

    «No, no, ora mi sento bene, grazie ancora», disse. «Scusate».

    La segretaria venne spinta da parte mentre gli altri le si affollavano intorno.

    «Mademoiselle, ci ha fatto prendere uno spavento. Sta male?»

    «No, Mr Partridge, le chiedo scusa. Ho avuto solo un capogiro, nulla di grave. Ora mi sento benissimo», mentì, alzandosi in piedi e lisciandosi timidamente la gonna, sentendosi esposta. I colleghi fecero un passo indietro. «Vi prego, non dovete preoccuparvi».

    Seguì un silenzio imbarazzante. Tutti potevano vedere che non stava affatto bene, e nessuno sapeva cosa dire o come procedere dopo lo spiacevole inconveniente. Fu Severine a interrompere la pausa incresciosa con la verità, ancora una volta grata per la padronanza con cui usava la loro lingua.

    «Posso dirvi qualcosa sul gioiello». Non aveva bisogno di toccarlo per fornire spiegazioni. «Si ritiene che queste perle risalgano al xiii secolo e si dice che siano state commissionate dal sultano dell’Impero Ottomano per la sua nuova moglie e, da allora, la sua favorita. Corre voce che la fanciulla fosse stata scelta a soli quindici anni dal suo harem, tolta dall’anonimato delle odalische per diventare la sua sultana, e questo fu il suo dono di nozze». Si schiarì la gola, notando che il silenzio aveva cambiato carattere, addensandosi intorno a lei, carico di anticipazione e di attrazione. Aspettavano che prendesse in mano le Perle. Lei avrebbe preferito non farlo, ma la domanda attesa e garbata le uscì comunque di bocca: «Posso?»

    «Naturalmente», rispose Miss Baker accennando alle Perle, che esercitavano ancora una sorta di effetto ipnotico su Severine con la loro lucentezza cremosa e allo stesso tempo metallica, quasi a specchio. Severine si avvicinò, non mostrandosi affatto disposta a prendere in mano il gioiello. Appena si chinò vide la propria immagine riflettersi in ogni sfera immacolata, notò che le labbra erano serrate, lo sguardo spinoso come la rosa di cui il rossetto imitava il colore.

    Non era ancora pronta a toccare le Perle, così continuò a parlare. «Non abbiamo prove di quanto vi ho appena detto, ma un tempo erano conosciute come le Perle Ottomane, un appellativo coniato da un reale russo – il Gran Principe Alessandro di Tver’ – durante il Medio Evo. Non chiedetemi come un principe russo sia arrivato a possederle, ma le donò a sua moglie, Anastasia, la quale, com’è noto, incolpò scherzosamente il capo degli eunuchi dell’harem imperiale di aver rubato e venduto le perle nel più lontano Oriente. Non so quanto sia credibile questa storia, ma quel che è certo è che le Perle ricomparvero di nuovo all’interno dell’aristocrazia slovacca».

    «Santo cielo», sentì esclamare da Mr Partridge nel silenzio ormai incantato.

    Severine deglutì a vuoto, sapendo di dover finire quel che aveva cominciato. Allungò la mano verso le Perle e sollevò in aria la loro massiccia, sinuosa bellezza. Tutti i colleghi sospirarono, ammirati dal loro brillio iridescente persino nella scarsa luce del museo. Ma la parte più sensazionale di quella preziosa creazione doveva ancora essere svelata.

    «Questo splendido gioiello è pensato per essere indossato come un capo di vestiario», spiegò. «In origine era stato disegnato per una donna alta e snella». Indicò il punto in cui il filo delle Perle formava un anello. «Vedete, qui è dove la sposa infilava ciascun braccio».

    «Ah», mormorò Miss Baker, soddisfatta di aver finalmente capito. «E le indossava sopra a cosa?».

    Severine accennò un sorriso, sebbene del tutto privo di calore. «Sulla pelle, Miss Baker. Si presentava al sultano completamente nuda, indossando solo questo filo di enormi perle naturali come fosse un minuscolo bolero». Sollevò il gioiello dalla scatola per esaminare la gemma che vi era appesa. «E di questo mirabile zaffiro si dice che sia della più fine tonalità di azzurro, e probabilmente proviene dal Kashmir dei secoli centrali del Medio Evo».

    Tutti sospirarono davanti alla sfavillante gemma a goccia. Severine rammentò il peso delle Perle, la sensazione fredda ma setosa al tatto; ricordò quando sua madre ne aveva strofinata una contro i denti per poi esclamare: È così che capisci se sono autentiche; quando senti la sabbia e il mare racchiusi nell’ostrica. Severine allontanò il ricordo di sua madre, specialmente l’ultimo, ancora imprigionato nella sua mente: quello di una donna esile come un uccellino, rannicchiata, terrorizzata, inconsapevole che si stava preparando a morire. Severine appoggiò le Perle contro di sé. «Come potete vedere, se tengo il gioiello più o meno nel modo in cui andrebbe indossato, lo zaffiro cade sull’ombelico della donna, come un ultimo, allettante invito».

    Partridge si schiarì la gola, in evidente imbarazzo.

    Troppo erotico? si chiese Severine. Allora forse era meglio non accennare al fatto che l’intero gioiello era stato progettato per cingere i seni della giovane sposa e dirigere lo sguardo del marito tra le sue gambe, appena rasate dalle schiave usando zucchero caldo e malleabile. La fanciulla si presentava nuda, sottomessa e accogliente, in attesa del piacere del consorte e magari del suo seme, perché solo un figlio – maschio – poteva rendere sicura e incrollabile la sua posizione. Sorvolò su quel dettaglio ma continuò a fornire informazioni meno scabrose. «Se, o meglio, quando il sultano sceglieva una moglie tra nuove, più giovani e forse più belle odalische, la sultana indossava questo gioiello per mostrare a qualsiasi pretendente chi fosse realmente la donna più potente nell’harem».

    «Ma io pensavo che il sultano avesse molte mogli», azzardò Miss Baker.

    «Sì, quante ne voleva. Tuttavia, c’era solo una prima moglie, e questo gioiello apparteneva solo a lei. Si credeva anche che le perle e lo zaffiro portassero fortuna alla loro unione, e il blu dello zaffiro auspicava il concepimento di un maschio ogni volta che la donna lo indossava».

    Il povero Mr Partridge arrossì vistosamente a queste ultime parole. Meglio chiudere l’argomento. Severine ripose il pezzo straordinario nella scatola, osservandolo mentre si adagiava sulla sacca di velluto nero come la notte che lei ricordava come se l’avesse vissuta solo pochi istanti prima.

    Un singhiozzo le salì in gola e riuscì a soffocarlo appena in tempo; a beneficio dei presenti, lo trasformò in un leggero colpo di tosse. «Scusate», disse, facendo un lungo respiro mentre si girava verso i colleghi. «Sono desolata per il mio mancamento. Non ho fatto colazione».

    Parvero accettare la sua spiegazione senza problemi.

    «Lei… lei ha detto che il gioiello è ricomparso nell’aristocrazia slovacca. Sa qualcos’altro circa la sua provenienza?». Fu uno dei colleghi più giovani a parlare. «A proposito, sono David Johnson», si presentò. «Il gioiello aveva trovato la strada per il mio ufficio».

    «Salve, David. Ehm, sì, so qualcos’altro», ammise. È giunto il momento della verità. «Le ultime notizie sono che fu acquistato dalla famiglia Goldstein di Boemia nel 1800. Questo favoloso gioiello, di cui pochissime persone sono a conoscenza, rimase in quella famiglia cecoslovacca per cinque generazioni e attraverso la linea materna fu tramandato da una figlia maggiore all’altra».

    «Mademoiselle Kassel, devo dedurre che questo incredibile articolo di gioielleria sia appartenuto di recente a una famiglia ebrea?», domandò Mr Partridge stupito.

    «Esatto, Mr Partridge. E appartiene ancora alla stessa famiglia ebrea, anche se attraverso il matrimonio è stato ereditato dalla famiglia Kassowicz», disse con prudenza. «Fu rubato loro durante l’occupazione nazista nel 1941. In ottobre, per la precisione, nella loro casa di campagna a un’ora di distanza da Praga».

    «Diamine», replicò il vecchio, sorridendo a David Johnson. «Le avevo detto che è spaventosamente preparata». Fissò Severine con sguardo penetrante. «E lei ne è assolutamente sicura?».

    Anni di tormenti erano esplosi in una rabbia fredda, distaccata, che bruciava in modo lento e costante. La gente diceva che la sua era una bellezza pacata, ma solo Severine sapeva dove traeva origine quell’apparente compostezza.

    Parlò in tono calmo; aveva alle spalle anni di pratica nel mascherare il dolore. «Ne sono sicura. E posso esserlo così tanto perché il mio vero nome è Katerina Kassowicz e sono la figlia maggiore», spiegò senza mezzi termini, «e questo gioiello è mio, dato da mia madre alla sua primogenita».

    Tutti i colleghi rimasero senza fiato.

    «E quello che vorrei sapere – che ho bisogno di sapere da voi – è chi ha portato questo pezzo al British Museum».

    3

    Parigi, Jardin du Luxembourg

    Katerina diede una tirata alla sigaretta, osservando con aria distratta la punta della Pall Mall Long diventare incandescente mentre aspirava il fumo. Le dava una strana sensazione aver usato di nuovo il proprio nome in pubblico dopo che per tanto tempo era stata un’altra persona. Trattenne il fumo nei polmoni un istante più del solito, poi espirò lentamente mentre considerava la propria situazione. Non era dipendente dalla nicotina né dal cosiddetto look sofisticato che molte delle sue colleghe credevano una sigaretta contribuisse a creare. Lei, invece, ne accendeva una solo quando aveva bisogno di un tranquillante e dell’effetto lenitivo che le dava il portare la sigaretta alle labbra.

    «Non sapevo che fumasse», osservò un gentiluomo che si era seduto forse due minuti prima sulla stessa panchina da lei scelta in quella giornata gelida. Si era limitato a leggere il suo giornale in silenzio, schiarendosi la gola quando gli arrivava il fumo della sigaretta.

    Katerina era rimasta assorta nei propri pensieri, rievocando quella mattina di appena una settimana prima, a Londra, e riflettendo sulla sua drammatica rivelazione che purtroppo l’aveva costretta a rientrare a Parigi prima di quanto pianificato. Era stata la telefonata con l’avvocato a

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