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Il ritorno del marinaio
Il ritorno del marinaio
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E-book292 pagine3 ore

Il ritorno del marinaio

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Info su questo ebook

Fiorina, 1876. Il capitano Barbagallo, scopre di aver ereditato il titolo di conte e un diroccato palazzo in provincia di Siena. Grande è la sorpresa quando al suo interno vi ritrova un'intera famiglia di occupanti, quella dei Bracci. Le splendide ragazze Bracci faranno così a gara per ritagliarsi un posto nel cuore del nuovo padrone di casa...
"Ombre Rosa" è una collana e insieme un viaggio alla riscoperta di un'intera generazione di scrittrici italiane che, tra gli anni Settanta e gli anni Duemila, hanno posto le basi del romanzo rosa italiano contemporaneo. In un'era in cui finalmente si colgono i primi segnali di un processo di legittimazione di un genere letterario svalutato in passato da forti pregiudizi di genere, lo scopo della collana è quello di volgere indietro lo sguardo all'opera di quelle protagoniste nell'ombra che, sole, hanno reso possibile arrivare fino a questo punto, ridando vita alle loro più belle storie d'amore.
LinguaItaliano
Data di uscita6 mag 2024
ISBN9788727061139
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    Anteprima del libro

    Il ritorno del marinaio - Roberta Ciuffi

    Il ritorno del marinaio

    Copyright ©2002, 2024 Roberta Ciuffi and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788727061139 

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Sommario

    10 

    11 

    12 

    13 

    14 

    15 

    16 

    17 

    18 

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    20 

    21 

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    24 

    25 

    26 

    27 

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    29 

    30 

    31 

    32 

    33 

    34 

    35 

    Fiorina, 1876 

    Chiudendo gli occhi lentamente, come se il semplice movimento le causasse dolore, la prozia Eglantina si abbandonò nella bergère rivestita di damasco blu pavone e bisbigliò: «Mio Dio, mi sento morire». Poi si portò una mano al petto e, con un filo di voce, aggiunse: «Sono sicura che stavolta non arriverò a Natale».

    Nessun membro della sua famiglia si preoccupò troppo di quell'affermazione, ma non per mancanza d'affetto. Si trovavano ancora a settembre, mese che si era succeduto ad agosto senza alcuna differenza visibile, identico nell'afa, nel cielo azzurro e negli improvvisi temporali, come se l'estate non dovesse mai finire. Natale appariva lontano: solo una fiammella al centro del lungo, buio tunnel invernale. E non era nella natura dei Bracci preoccuparsi di un evento così distante nel tempo.

    Inoltre, l'anziana nobildonna non era nuova a simili dichiarazioni.

    «Aveva detto che sarebbe morta prima del Natale del '73» rammentò in seguito la signora Bracci a Filina, la cuoca, per giustificare la propria incredulità. «E sono passati quattro anni» concluse con una punta d'indignazione, come se la prozia avesse mancato a una promessa.

    «Anche a Pasqua diceva di non sentirsi bene.» confermò Properzia, la cameriera quindicenne, i cui ricordi non si spingevano così lontano.

    «La contessa non morirebbe mai di Pasqua. Non prima di aver mangiato le mie costine di agnello, sia benedetta l'anima sua» replicò la cuoca con una certa alterigia.

    Questa volta, però, le previsioni dei Bracci rischiarono di rivelarsi infondate. Il giorno dopo, infatti, la poltrona blu pavone restò vuota e lo stesso accadde quello successivo. Questo stato di cose si protrasse per una settimana intera, finché il signor Bracci non decise di dar fondo al suo credito residuo e chiamare il dottor De Nicotra, il più autorevole medico di Fiorina.

    Come padre di sei figli – di cui cinque femmine e come tali soggette, oltre a malattie infantili, anche ad affezioni e vapori tipicamente femminili – il signor Bracci aveva avuto modo di spremere il suo credito con grande energia e tuttavia quella misteriosa entità sembrava non toccare mai il fondo. Probabilmente perché il dottor De Nicotra era un buon uomo, un amico di famiglia, e talmente in là negli anni da aver perso il senso del valore del denaro e rivalutato quello dell'umana solidarietà.

    Che bella cosa sarebbe, se tutti i creditori decidessero di comportarsi con spirito altrettanto cristiano!, pensò il capofamiglia, facendo strada all'anziano medico.

    La visita fu lunga. Il signor Bracci attese il responso in salotto, assieme ai suoi cari, che erano abbastanza numerosi da costituire una buona compagnia. E non era forse il motivo per cui un uomo si sposava?, usava replicare all'arciprete, quando quello, istigato dalla sua signora, gli raccomandava moderazione nelle pratiche coniugali.

    Una bella moglie con abbastanza carne addosso da soddisfare le fantasie di un uomo maturo; un figlio maschio, perché ci vuole, e poi una sequela di visetti graziosi e di boccucce sempre in movimento, tanto da trasformare una casa grande come Palazzo Barbagallo in un'affollata uccelliera. Ecco l'autentica felicità!

    No, a lui la moderazione non interessava, pensò esaminando compiaciuto le quattro testoline brune chine sui loro ricami e dolendosi per l'assenza della maggiore, Belinda, che si era sposata l'anno precedente. Al buon signor Virginio la faccenda non era piaciuta affatto e ancora non riusciva a farsene una ragione.

    Perché mai andare a costituire una seconda famiglia, quando quella d'origine era tanto soddisfacente?

    Al contrario di quelle industriose delle sorelle, la testa bruna dell'unico maschio giaceva pigramente abbandonata sul bracciolo di un divano da conversazione del secolo passato, che sembrava non solo troppo corto per quell'uso, ma anche in procinto di schiantarsi da un istante all'altro.

    «Aleardo» disse il signor Bracci, cercando di assumere un tono autoritario che non era proprio nelle sue corde, «ti sembra il modo di comportarsi, in un frangente simile? Alzati e siedi composto.»

    «Oh, povero figliolo» intervenne la madre, trepidante. «Ha dormito talmente poco, stanotte. Era così preoccupato per la prozia! Deve essere esausto.»

    Le ragazze ridacchiarono, affermando subito dopo di essersi punte tutte con l'ago per lo spavento provocato dal tono severo del padre.

    La signora si affrettò a prendere la palla al balzo. «Vedi, Virginio? Ecco il risultato della tua intransigenza.»

    Il risolino aumentò d'intensità, per cessare poi d'improvviso. Normalmente, le ragazze avrebbero gettato via il cerchio col ricamo per lanciarsi sul loro severissimo padre e consolarlo dei rimbrotti materni. Ma quella era un'occasione davvero particolare e le giovani, nonostante il loro innato buonumore, non potevano ignorarlo.

    Volevano tutte molto bene alla vecchia prozia ed erano consapevoli di quanta riconoscenza le dovessero. Era stata lei ad accogliere in casa la loro famiglia, vent'anni prima, assumendosi la responsabilità dei Bracci esistenti come di quelli che li avrebbero raggiunti in seguito.

    All'epoca, il babbo era incappato in uno dei suoi frequenti rovesci di fortuna. Aveva venduto la casa lasciatagli dal nonno per mettere il denaro in un'impresa commerciale internazionale, che era fallita nel giro di due mesi. Aleardo e Belinda erano già nati e la signora Bracci, segretamente incinta di Clarissa, aveva minacciato di gettarsi nel fiume coi suoi poveri figli, piuttosto che chiedere asilo alla parrocchia.

    Fu allora che intervenne la prozia Eglantina. Il signor Virginio era vagamente consapevole di possedere un certo grado di parentela con la nobile signora che viveva in volontaria reclusione nel suo bel palazzo situato in Piazza Granduca, ora Piazza Unità d'Italia, proprio di faccia alla chiesa di Sant'Ubaldo. Ma si trattava di un legame così labile che non l'aveva mai usato neppure per vantarsene.

    I due coniugi erano rimasti sconcertati dall'imprevista offerta d'aiuto da parte di una dama tanto altolocata. Questo non aveva impedito loro di afferrare la mano che li salvava dal naufragio e di tenerla ben stretta, anno dopo anno, con la determinazione e l'energia di gente che ha veduto il baratro spalancarsi davanti ai propri piedi.

    Nel Palazzo Barbagallo, che la signora Devota ambiva a chiamare un giorno 'Barbagallo-Bracci', la famigliola aveva proliferato, aumentando di numero e circondando la contessa di quell'affetto che le era mancato nei lunghi anni di solitudine.

    Graziosi visetti si erano aggiunti a quelli già esistenti. Le stanze del palazzo seicentesco, patrizio ma in abbandono, furono esplorate in ogni recesso da tutti quei piedini impazienti, mentre i soffitti risuonavano di voci infantili che la dama non trovò mai fastidiose. Né mai si allineò alle opinioni dell'arciprete in materia di moderazione. Anzi, quando – dopo quattro parti andati a buon fine e due dolorose perdite – fu chiaro che la signora Devota non avrebbe aggiunto altre bocche a quelle che già le toccava di sfamare, la prozia Eglantina ne fu amaramente delusa.

    La vita a palazzo non mutò le abitudini avventurose del signor Bracci, il quale perseverò nei suoi investimenti ad alto rendimento e basso rischio, che avevano come invariabile risultato l'alienazione di qualche quadro o prezioso servizio di porcellane. Dopo vent'anni di questo regime, intere pareti erano ormai decorate soltanto da rettangoli più chiari sulla tappezzeria e gli armadi si stavano svuotando.

    Alle imbarazzate spiegazioni del pronipote, la dama replicava invariabilmente con un cenno indifferente della mano. Da tempo aveva smesso di preoccuparsi di simili sciocchezze. Virginio era l'uomo di casa: che se la cavasse da sé.

    È da ascrivere a merito del signor Bracci che i numerosi atti di magnanimità della contessa non lo inducessero mai a nutrire verso di lei quel sentimento di malevolenza che sboccia di frequente nei confronti di chi fa del bene con totale disinteresse; al contrario, seguitò a esserle affezionato, devoto e riconoscente come all'inizio della loro convivenza.

    Sua moglie era una natura più ambiziosa, come testimoniavano le sue frequenti e bramose occhiate in direzione della bergère blu pavone. «La migliore dell'intero arredo» non mancava di far notare. Tuttavia anche la signora provava un grande affetto per la vecchia contessa tanto che, nell'attesa del responso medico, evitò perfino di volgere il viso in direzione della suppellettile, affinché nessuno la credesse così ansiosa di succedere nel suo possesso da desiderare la morte della benefattrice.

    «Don Luigi ha finito» annunciò Properzia, entrando a precipizio in salotto.

    Il signor Bracci seguì la ragazzina per la serie di sale che conduceva alla camera della prozia Eglantina.

    L'anziana signora giaceva nel letto. Il suo viso era così pallido che per un istante gli parve che i contorni sfumassero nel bianco del cuscino. Però, sotto le palpebre semi calate, era ancora visibile il guizzare di un raggio nero piuttosto vivace.

    Il dottor De Nicotra stava sistemando la sua valigia. Sollevò il capo per accogliere l'ingresso del signor Bracci e, per un istante, non parve molto più vigoroso della sua paziente. Si mormorava che in gioventù tra i due ci fosse stato del tenero, ma poi non se ne fosse fatto niente. All'epoca, non usava che una ragazza della nobiltà sposasse un giovane borghese, seppure dotato di sostanze e con una solida professione tra le mani.

    «Come va?» chiese ansiosamente il nuovo arrivato, parlando in un sussurro.

    «Non va» rispose l'altro, con il suo vocione cavernoso. «Il cuore. Queste vecchie signore… è sempre il cuore.»

    Dal letto si levò un suono la cui definizione era impronunciabile da una persona perbene. Il dottore ghignò, il che al signor Bracci non parve rassicurante.

    «Voi pensate… che sia in pericolo? Vi prego, diteci cosa dobbiamo fare! Qualunque cosa.»

    «Amico mio, quella ragazzina va per i settanta il prossimo mese. Non soffre di malattie mortali. È la vecchiaia, e il dolore. A quello non c'è rimedio.»

    Dopo quest'oscura dichiarazione, il medico chiuse la sua valigia e uscì dalla stanza, lasciando l'uomo a fissare sconcertato in direzione della porta. Che cosa aveva inteso dire? Forse qualcosa, di cui lui non era a conoscenza, angustiava la zia? Com'era possibile? In quei vent'anni aveva fatto di tutto, assieme alla sua famiglia, per rallegrarla e renderle serena e piena la vecchiaia.

    Con quest'assillo nella mente, il signor Bracci si accostò al letto.

    Osservandola con attenzione, come raramente avviene con le persone che si hanno costantemente sott'occhio, il signor Bracci si rese conto che la prozia Eglantina era veramente una vecchia e fragile signora. E che, tuttavia, nessuna di queste condizioni modificava il fatto che fosse anche molto bella. Era una di quelle donne create bene dal principio, come diceva lui, a cominciare dall'ossatura sottile e aristocratica, cui la carne e la pelle non avevano che da adattarsi. Gli occhi neri rivelavano ancora quel guizzo vivace che aveva ammaliato schiere di spasimanti e il naso diritto era imperioso come una volta.

    Una delle figlie del signor Bracci aveva occhi simili, ma il poveretto era talmente agitato che sul momento non riuscì a rammentare quale fosse.

    «Cara zia» sussurrò, piegandosi sul capezzale dell'ammalata. «Cara zia, come vi sentite?»

    Il corpo sottile sotto il lenzuolo si scosse in un sospiro. «Ho paura che ci siamo» pronunciò la voce flebile. «Caro Virginio. Tienimi la mano.»

    Il pronipote obbedì, terrorizzato da quel che sembrava sul punto di accadere. Ma la signora, dopotutto, non aveva ancora intenzione di esalare l'ultimo respiro.

    «C'è una richiesta che devo farti, Virginio. Una cosa che mi sta molto a cuore e senza la quale sento di non potermene andare serenamente.»

    «Dite, zia, parlate. Per carità, qualunque cosa.»

    «Tu sai che un tempo avevo un marito. Si chiamava Callisto. O forse Clemente. Che strano, credo di averlo dimenticato.»

    Al signor Bracci non parve affatto strano. La zia confondeva sempre i nomi delle sue nipoti e in questo caso, essendo passati tanti anni…

    «A ogni modo, avemmo a che dire e lui se n'andò portandosi via mio figlio: Arturo.»

    Le labbra pallide presero a tremare così convulsamente che l'uomo si guardò attorno disperato. Detestava veder piangere le donne e sarebbe stato disposto a fare tutto, promettere di tutto, pur di risparmiarsi l'esperienza.

    «Da allora non l'ho più visto» seguitò la prozia. «E sono passati ormai quarantacinque anni. Sento che non posso andarmene prima di averlo incontrato di nuovo. Tu comprendi, caro.»

    «Naturalmente, zia.»

    «Perciò desidero, ma solo se ti è possibile, bada… e se non ti disturba troppo… e se non ostacola i tuoi doveri di capofamiglia… che tu cerchi questo mio povero figliolo.»

    «Ma senz'altro» rispose il signor Bracci, sollevato.

    Tutto qui? Certo che non lo disturbava. Al contrario, sarebbe stata un'azione lodevole e che lo avrebbe riscattato dalla sua umiliante condizione d'eterno beneficato. Be', nel caso lui fosse stato il tipo d'uomo capace di nutrire simili sentimenti negativi, certo.

    La contessa lo indirizzò a uno scrittoio in cui teneva delle vecchie carte, lettere di corrispondenti che le segnalavano la presenza del marito fuggiasco ora qui ora là. Tracce antiche, probabilmente cancellate dal tempo, ma che non potevano permettersi di ignorare. Carico di quelle testimonianze, il signor Bracci compì a ritroso la traversata del palazzo per recarsi nel suo studio privato. Passando, mise al corrente la famiglia delle condizioni della prozia e della sua ragionevole richiesta.

    Solo quando si fu seduto all'imponente seggiola accostata alla scrivania, gli venne in mente una considerazione disturbante. E cioè che questo Arturo non era più un bambino di cinque anni, bensì un uomo maturo. Non era possibile che fosse morto?

    E se invece era vivo e acconsentiva a tornare, chi garantiva che non avrebbe scacciato l'intera famiglia Bracci da Palazzo Barbagallo, rinunciando al privilegio di sfamare quei poveri uccellini dalle testoline brune, come di pagare i debiti del loro padre?

    Don Virginio si sentì gelare dallo sgomento. In vent'anni, la sua situazione economica non era migliorata affatto. Aveva anzi un maggior numero d'impegni di quando si era trasferito in quella casa e un debituccio di cui aveva intenzione di parlare alla prozia in circostanze più favorevoli.

    Abbassò lo sguardo sulle carte. Per un attimo fu tentato di lasciar correre: ignorare la richiesta della vecchia signora, o magari fingere di darsi da fare per poi non venirne mai a capo. Ma va detto a suo merito che liquidò in fretta la meschina tentazione.

    Un uomo d'onore, e Virginio Bracci ambiva a essere iscritto nel novero, non si comportava in quel modo. Perciò, pieno di buona volontà, s'immerse nella lettura dei documenti.

    Il pensiero che per un istante aveva turbato il signor Bracci si manifestò alla mente della moglie con maggior virulenza.

    Mentre la donna aggiungeva punti sbilenchi al proprio ricamo, le sue mani tremavano. Di tanto in tanto, gli occhi guizzavano sguardi amorosi e disperati alle testoline chine sul lavoro. Se questo figlio… peggio, se il marito della contessa si fosse rifatto vivo… che ne sarebbe stato di tutti loro? Che ne sarebbe stato delle sue povere bambine?

    Uno sbuffo proveniente dal divano attirò la sua attenzione. Il caro Aleardo, che non godeva neppure della predilezione del suo babbo, come avrebbe affrontato la vita, privato del sostegno del patrimonio Barbagallo? E le sue bambine sarebbero state costrette a sposarsi in tutta fretta, per garantirsi un tetto sulla testa e un piatto in tavola. Ma sposarsi con chi, Vergine benedetta? I mariti non nascevano sugli alberi, e quelli buoni, poi…

    C'era il figlio del semplicista che aveva mostrato una predilezione per Clarissa… o era Diana? Ma poteva una sua figlia maritarsi così in basso? Grazie a Dio, per Zoe non c'era da preoccuparsi: quel bravo Silvestro sembrava proprio sul punto di dichiararsi. D'accordo, non aveva ancora un lavoro, ma lo studio di notaio del padre era ben avviato. E la sua piccola, tenera Eloisa? La sua ultima creaturina, di appena quattordici anni? Che sarebbe stato di lei?

    «Mamma, che avete?»

    Richiamata da questa esclamazione ansiosa, la donna batté le palpebre. Si accorse allora che delle strane chiazze si stavano allargando sul telo del ricamo e che l'origine – che strano! – sembravano essere i suoi occhi.

    «Piangete, mammina?» gridò allarmata Eloisa, balzando in piedi. «Vi siete punta?»

    Subito si trovò circondata dalle sue ragazze, che l'abbracciarono e la baciarono, dichiarando ad alta voce di non sopportare di vederla in quelle condizioni.

    «Non temete, mammina» la rassicurò Clarissa, porgendole il suo fazzoletto perfettamente piegato a triangolo. «Vedrete che la zia si riprenderà.»

    «Lo spero tanto» esclamò la signora con un fervore del tutto sincero. Oh, che creatura vana era stata! Aveva talmente desiderato sedere su quella regale poltrona e ora rischiavano addirittura di essere espulsi dall'unico ricovero che possedessero al mondo. «La vostra prozia Eglantina è la donna più buona che esista sulla terra e noi gli dobbiamo tutta la nostra riconoscenza.»

    «Le dobbiamo, mamma» la corresse Zoe. Allo sguardo interdetto della genitrice, replicò con un'alzata di spalle. «Avevate sbagliato il pronome.»

    «Oh, via, Zoe! Cattiva! In un momento simile, come puoi metterti a pensare alla grammatica?»

    Di fronte alla riprovazione delle sorelle, la ragazza sollevò le palme in segno di resa e tornò a sedere al suo posto. Aveva dei ricami di bavaglini da terminare e doveva farlo quella sera, perché il giorno dopo si dovevano affrontare le fasce. Il piccolo di Armida, sua amica nonché moglie del giovane medico che assisteva il dottor De Nicotra, era atteso per gennaio.

    In quel momento la signora Devota sentì di non poter fare a meno del conforto del suo primogenito. «Aleardo!» gridò, tendendogli le braccia imploranti. «Figlio del mio cuore, vieni dalla tua mamma.»

    Dal divanetto si levò un grugnito. L'erede dei Bracci dischiuse un occhio, lo lasciò vagare per la stanza e poi, non avendo trovato nulla di abbastanza interessante da strapparlo al sonno, lo richiuse. Il lieve russare che seguì manifestò che la partecipazione del giovanotto alla vita familiare era per il momento conclusa.

    Sua madre si portò il fazzolettino al volto e vi soffocò un singhiozzo.

    Chiuso nello studio, il signor Bracci continuava a spulciare le carte della zia, facendosi sempre più perplesso a mano che la natura dei fatti accaduti quarantacinque anni prima si andava delineando.

    Nel mucchio, aveva trovato delle lettere ufficiali provenienti da funzionari delle polizie di mezza Europa, ma anche lettere più personali d'amici e conoscenti, e alcune di queste erano talmente intime che il buon uomo si sentiva arrossire. La peggiore fu la lunga missiva di una certa marchesa de Pomfroy, che si firmava 'tua Severine'. Era in francese, lingua che fortunatamente il signor Bracci conosceva per averla studiata assieme alle sue figliole, quando la prozia Eglantina aveva insistito che la sua comprensione fosse essenziale alla preparazione di ragazze di qualità.

    Su alcuni brani l'uomo fu costretto a tornare più volte: non perché non li capisse, ma perché non poteva credere a quanto stava leggendo. D'altra parte, fraintendere il senso di quelle frasi non era proprio possibile.

    Mia carissima scriveva a un certo punto la misteriosa Severine, "capisco che ti sia trovata in una situazione imbarazzante: mio Dio, un marito che entra in camera senza avvisare e ti scopre tra le lenzuola con un valletto è effettivamente una circostanza incresciosa. Ma, io dico: dove avevi la testa? Perché non hai chiuso la porta a chiave? O, una volta fatta la frittata, potevi negare! Come, dirai tu. Suvvia, chi ha ingegno trova sempre il modo. Riconoscerai che simili ingenuità non sono ammissibili in una donna della tua esperienza. Te la cavasti pur bene quando Camillo, quel tuo miserabile marito, ti vide

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