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Alle radici della guerra
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E-book461 pagine4 ore

Alle radici della guerra

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Storia dei conflitti bellici dal Paleolitico
agli eserciti dell’Età del Bronzo 

Quand’è che gli uomini hanno cominciato a farsi la guerra? Una domanda a cui sembra impossibile rispondere. L’origine della violenza tra esseri umani risale alla notte dei tempi e si può ricondurre a un bisogno ancestrale: fare bottino, allargare il proprio territorio. In sostanza, stare meglio di qualcun altro, che automaticamente, in quest’ottica, diventa il “nemico”. Basato su ricerche di archeologia, antropologia e storia militare, questo libro ripercorre la storia dei nostri progenitori e degli strumenti che hanno ideato per attaccare e difendersi, dalle pietre scheggiate dei primi Neanderthal fino alla rivoluzione delle macchine da guerra: carri e navi. Un libro unico nel suo genere, avvincente e approfondito, arricchito da più di ottanta disegni firmati dall’autore che mostrano la vita quotidiana degli uomini primitivi.

Dalle pietre scheggiate 
alla rivoluzione di arco e frecce: il grande racconto dell’invenzione della guerra tra esseri umani 

• In principio era la razzia 
• La guerra prima dell’homo sapiens 
• Addomesticazione e difesa 
• Gloria e vendetta. L’invenzione del capo 
• Soldati, leghe metalliche e mura invalicabili 
• L’età dei carri
• La guerra in mare
Giorgio Albertini
È nato a Milano nel 1968. Collabora con riviste come «National Geographic», «Focus Storia» e «Focus Storia-Wars», occupandosi soprattutto di architettura medievale e antica e storia militare. Con la Newton Compton ha pubblicato L’ultima battaglia dei Templari, I giorni che hanno cambiato la storia d'Italia e Alle radici della guerra.
LinguaItaliano
Data di uscita18 apr 2024
ISBN9788822742735
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    Anteprima del libro

    Alle radici della guerra - Giorgio Albertini

    Introduzione

    Quello che cerchiamo per iniziare il nostro viaggio è una sorta d’immenso garage, nel più grande museo aereospaziale del mondo.

    Attraversando il fiume Potomac sul Theodore Roosevelt Bridge per lasciare il centro di Washington, tracciando una linea ideale tra il granito nero del Vietnam Veterans Memorial e il monumento che raffigura i sei marine che issano la bandiera a Iwo Jima dello

    us

    Marine Corps War Memorial, entriamo in Virginia e dopo mezz’oretta di autostrada arriviamo a Chantilly, nella contea di Fairfax, dove è ospitato lo Steven F. Udvar-Hazy Center.

    È la nostra meta.

    Due immensi hangar ospitano la sede distaccata di una delle istituzioni scientifiche più popolari della capitale statunitense, parte di quella fantastica successione di musei che la Smithsonian Institution propone al visitatore lungo l’infinita distesa erbosa del National Mall tra il memoriale di Lincoln e la collina del Campidoglio: il National Air and Space Museum.

    L’Udvar-Hazy Center ci aspetta, bianco alluminio nelle sue forme di base spaziale, con un ottimismo verso il futuro che non è comune. Una volta entrati, rapiti dalla collezione, dovrete impegnarvi per non rimanere impietriti dal peso drammatico della Storia di fronte allo space shuttle Discovery o alla superfortezza volante B-29 Enola Gay, quella che sganciò la prima bomba atomica su Hiroshima il 6 agosto 1945, o alle centinaia di macchine volanti esposte a completare, nel modo più esauriente e ipnotico, la storia del movimento aereo dell’uomo.

    Ma dobbiamo sforzarci e, lasciando l’immenso shuttle sulla nostra sinistra, ci dirigiamo verso l’angolo nord-est dell’hangar centrale, fino alla ragione unica della nostra visita: il General Atomics MQ-1L Predator A (fig. 1), nello specifico il Predator che porta il numero di matricola 3034 e che è passato alla storia come il primo aeroplano pilotato da remoto ad aver portato un attacco in combattimento. Un oggetto in grado di volare senza pilota a bordo, di osservare e di sparare con armi di precisione in tempo reale da stazioni a terra posizionate sul lato opposto del pianeta.

    Alzando gli occhi verso il drone, possiamo avere la sensazione di trovarci di fronte a un oggetto alieno. La prua cieca, senza carlinga, ha qualcosa di inquietante, di non umano. L’elica del motore posta nella poppa e la doppia deriva posizionata al contrario, verso il basso, ci sorprendono. Anche le dimensioni ci raccontano di come il corpo umano non possa trovare posto in questo oggetto.

    Pur avendo un’apertura alare di quasi quindici metri e una lunghezza di otto, l’aereo è troppo piccolo, è chiaramente dimensionato su una scala altra, estranea.

    Eppure è un oggetto frutto del lavoro dell’uomo, della sua abilità ingegneristica, del suo sapere tecnico. Un riflesso di gesti lontanissimi nel tempo, che scheggiano pietre per ricavarne manufatti; gesti indiscutibilmente umani.

    La notte tra il 7 e l’8 ottobre 2001, quando la polvere delle Torri Gemelle crollate non era ancora stata spazzata via dalle strade di Manhattan, dalla sede in Arabia Saudita del Combined Air Operations Center (

    caoc

    ) delle forze armate statunitensi si alzava in volo un (relativamente, lo abbiamo visto) piccolo aereo spia controllato dalla

    cia

    . Era il Predator A 3034.

    Fig. 1. Predator A 3034.

    Fig. 1. Predator A 3034.

    Il suo decollo non deve aver attirato molto l’attenzione dei presenti, perché si erano susseguiti, in quelle ore, i decolli ben più rilevanti dei bombardieri britannici e americani che diedero inizio all’operazione Enduring Freedom e a quella guerra in Afghanistan ancora non conclusa.

    Quella notte di ottobre del 2001 il Predator volò per più di duemila chilometri per una ricognizione nei pressi di Kandahar, l’antica capitale dell’Afghanistan controllata dai talebani. L’idea della

    cia

    era dirigere il naso del Predator verso il quartier generale delle forze talebane alleate di Al Qaeda, o meglio, verso uno dei suoi leader più carismatici, il mullah Mohammed ʿOmar. Il servizio di intelligence statunitense aveva identificato la casa del mullah e tentava di sferrare un colpo mortale al centro del potere talebano.

    A più di settemila chilometri di distanza, dalle sale di controllo della

    cia

    a Langley, in Virginia – non lontano dal museo dove il nostro drone oggi è ospitato – gli operatori dell’aeronautica militare, fiancheggiati dagli analisti della

    cia

    , non faticarono a localizzare il convoglio di autovetture che conduceva il mullah ʿOmar da casa sua a un’altra struttura. Era il momento di agire.

    Ma c’era un problema.

    Mai nella storia dell’uomo era stato portato un attacco con un aereo pilotato a distanza, così tanto a distanza verrebbe da dire, con immagini osservate su un video attraverso le telecamere del drone e con un joystick come grilletto, in un’azione impersonale che ricordava più la formula di un videogioco sparatutto che un’azione di guerra vera e propria.

    Mentre il Predator veniva tenuto in posizione di fuoco, quasi silenzioso, sul cielo notturno di Kandahar, i tecnici della

    cia

    faticavano, in quel momento determinante, ad avere l’autorizzazione a colpire. Inoltre, non si capiva esattamente chi dovesse autorizzare il drone a lanciare i suoi Hellfire.

    In quel momento fatale, tutti i dubbi e le preoccupazioni sui potenziali danni e vittime accidentali investirono il comando centrale degli Stati Uniti, e la catena di responsabilità si inceppò come se un anello fondamentale non fosse stato forgiato al momento giusto.

    Quando il comando Sei stato autorizzato a sparare arrivò a Langley via radio agli operatori che controllavano il Predator, i missili che partirono distrussero i veicoli all’esterno della struttura in cui si era rifugiato ʿOmar e nell’attacco morirono, oltre a molte guardie del corpo talebane, lo zio del mullah e un suo figlio di dieci anni. Il leader dei talebani e il suo staff senior riuscirono invece a scappare e l’esercito americano non ebbe più l’occasione di organizzare un assassinio mirato nei suoi confronti.

    Era comunque solo l’inizio di un nuovo modo di combattere. A metà novembre dello stesso anno, i droni della

    cia

    avevano sparato missili Hellfire un po’ ovunque sul territorio afghano.

    Nei mesi successivi, nell’analizzare gli eventi di quella notte, di quella drammatica inaugurazione di guerra, le responsabilità dell’azione non risultarono pienamente chiare. Non risultò chiara soprattutto la scelta di un attacco mirato con il drone, quando il

    caoc

    aveva in standby trentacinque chilometri a sud, meno di due minuti di volo, alcuni F-16 armati di cinquecento chili di bombe a disposizione per un attacco che avrebbe letteralmente polverizzato la postazione talebana e tutta la dirigenza presente¹.

    Al di là del mediocre risultato, quell’occasione ha sancito la nascita di una nuova figura militare: il cecchino aereo. Ha dato il via a un nuovo modo di fare la guerra, e soprattutto a una nuova percezione dell’azione militare, dove le responsabilità si palleggiano tra autorità militari e politiche e dove la relativamente semplice azione di combattere (scusate la brutalità del concetto) diventa una complessa relazione tra azione personale e deprivazione di responsabilità dovuta all’estraneità di uno dei corpi, inteso come morfologia umana, coinvolti nella lotta (se già la complessità della stratificazione della storia militare non fosse sufficiente).

    Di fronte a un sistema guerra che proprio in quegli anni raggiunse la sua completa maturità, definendo qualcosa di forse non completamente nuovo ma frutto di un cambiamento nel conflitto che, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, dalle guerre di decolonizzazione, muoveva nuove dinamiche belliche tra stati e entità non statali, si sviluppavano azioni militari che trovano una definizione teorica in guerra asimmetrica, guerra non convenzionale, in cui soprattutto entità non statali potevano colpire con atti terroristici le nazioni considerate le più avanzate tecnologicamente e militarmente, e queste ultime tentavano di rispondere in modo adeguato al fuoco di queste organizzazioni fluide.

    Proprio di fronte alla maturazione, anche emotiva, di una forma di belligeranza tra blocchi statali definiti ed entità più sottili, il drone Predator e l’azione da remoto che questa macchina agisce permettono, almeno in linea teorica, una risposta più precisa rispetto al bombardamento su larga scala, orizzontale, prodotto dai tradizionali attacchi aerei. Genera cioè meno resistenza politica, mobilitando in modo minore l’opinione pubblica. Permette cioè quasi un bilanciamento oppositivo di caratteri, dove da un lato il kamikaze, il guerrigliero, pone il suo corpo e la sua morte come arma quasi unica, centrale, di questa nuova guerra, e dall’altro troviamo l’estraneità corporea totale di un’arma robot, quasi autonoma, definita dalla sua alterità incorporea e dalla sua impossibilità di morire (se non metaforicamente).

    Un cambio totale di paradigma sul quale si è da poco cominciato a riflettere. Tornando all’angolo nord dell’hangar centrale dell’Udvar-Hazy Center, guardando verso il Predator 3034 sospeso sopra le nostre teste, possiamo vedere, oltre alla sua storia passata, anche parte della storia militare a venire e tutte quelle implicazioni che ne definiranno i percorsi.

    I percorsi della storia militare, o meglio, della storia della guerra sono però antichissimi, così antichi che non ne vediamo l’inizio.

    Se vogliamo afferrare il perché di questa reiterazione di spargimenti di sangue, il perché di questo ininterrotto movimento di azioni violente, se vogliamo capire dove il volo del drone Predator e delle macchine che lo seguiranno porterà il rapporto tra gli uomini e il conflitto, dobbiamo rivolgere lo sguardo a molti secoli indietro, a quelle generazioni che ci hanno preceduto definendo le categorie di quella cosa che chiamiamo guerra.

    Nelle pagine di questo libro cercheremo di dare alle vicende una visione e un’organicità il più possibile sincronica, in cui le coesistenze siano trattate come tali, proprio per descrivere una realtà che vedeva nette differenze tra culture contemporanee tra loro, alcune ancora ferme a un modello tecnico-economico più arretrato, altre più avanzate.

    Anche la periodizzazione verrà definita il più possibile dallo scorrere degli anni, dei secoli e dei millenni, piuttosto che dalle diverse conquiste tecnologiche (Neolitico, Calcolitico, Età del bronzo…), proprio per rispettare il fluire del tempo e cercare di tracciare un’ipotetica linea che congeli alcuni eventi per la nostra riflessione e li unisca anche quando evoluzione tecnologica e spazio li separano.

    Ci fermeremo in questa indagine alle porte della tarda Età del bronzo, quando ormai le fonti della storia e dell’archeologia ci mostrano un mondo la cui complessità merita una trattazione a parte. Oltre alla seconda metà del

    ii

    millennio a.C. getteremo solo uno sguardo fugace laddove sarà necessario.

    Non da ultimo, porremo anche lo sguardo alla restituzione grafica degli elementi, dei reperti archeologici di cui parleremo e alla ricostruzione di quel mondo lontano. Una scelta quanto mai necessaria, crediamo, per arginare una dilagante disinformazione figurativa, che soprattutto nel web riverbera, in generale e nello specifico per l’antichità di cui ci occupiamo, idee confuse e stereotipate che diventano fonte e riferimento errati per l’immaginario, spesso con una tenacia difficilissima da eliminare.

    Per chi scrive, il visualizzare un contesto storico è determinante, è un passaggio necessario dell’indagine. La traduzione visiva, il tentativo di restituire graficamente ciò di cui scriviamo, è mettere mano alla materia viva della storia, senza interporre il velo della parola, che può essere così sottile da mostrare moltissimo e chiaramente, ma che può anche nascondere con altrettanta determinazione.

    Disegnare qualcosa vuol dire prima di tutto mostrare senza infingimenti, senza omissioni. Prendersi il rischio di dare corpo alle proprie conoscenze che, inevitabilmente, diventano visioni.

    È quello che facciamo quotidianamente con l’illustrazione scientifica e, più precisamente, con la ricostruzione archeologica, architettonica e storica, cioè con quel processo di sintesi grafica, all’interno di un più ampio lavoro storico o archeologico, che prevede disegni ricostruttivi di aree, di monumenti e di costumi storici. Disegni che permettono di condensare all’interno di un’unica tavola un’immensa quantità di informazioni, immediatamente fruibili a tutti, senza la più onerosa, in termini di tempo e fatica, necessità di leggere centinaia e centinaia di pagine di testo, oltre a quelle che già un testo prevede.

    L’illustrazione scientifica è proprio questo: sintesi. È la sintesi tra una professione come quella dello storico, dell’archeologo o del paleontologo e quella dell’illustratore. È l’osmosi interdisciplinare tra il disegno e le conoscenze acquisite durante gli anni universitari nella propria disciplina e durante quelli di ricerca successivi.

    Da ultimo, voglio sottolineare che la riflessione da cui nasce questo libro trova la sua scaturigine in alcuni articoli brevi pubblicati originariamente sulla rivista «Focus Storia Wars» che avevano come oggetto la guerra nelle sue forme più arcaiche, originarie. Quegli spunti hanno trovato il modo di dilatarsi, così da illuminare il più possibile una materia sovente in ombra.


    ¹ Chris Woods, The story of America’s very first drone strike, «The Atlantic», 30 maggio 2015.

    Parte prima

    Homo bellicus

    Quando l’uomo iniziò a fare la guerra?

    Una domanda sbagliata.

    Cominciamo così, con una domanda.

    Una domanda fondamentale quanto frustrante, perché scavare così nel profondo per trovare una risposta univoca è, lo diciamo subito, un’operazione senza soluzione, almeno nel momento in cui scriviamo.

    Una domanda probabilmente sbagliata, perché anche solo l’idea di poter trovare un inizio della guerra può essere fuorviante; implica infatti la possibilità che ci sia stato un tempo in cui la guerra non esisteva, e probabilmente non è così.

    Cerchiamo di essere il più chiari possibile: nonostante gli scritti sull’innata violenza dell’uomo o, viceversa, sulla sua indole naturalmente pacifica abbondino sugli scaffali delle biblioteche – soprattutto nelle sezioni di filosofia, di antropologia, di etnografia e di sociologia – almeno dalla metà del diciassettesimo secolo, con il bellum omnium contra omnes, la guerra di tutti contro tutti come stato primordiale dell’uomo teorizzato nel Leviatano di Thomas Hobbes, è raro trovare studi che si sforzino di analizzare fatti (pochi e spesso solamente deduttivi dai dati archeologici) senza cadere in una faziosità più programmatica che scientifica.

    Il problema è che per decenni la controversia sulle origini della guerra o, meglio, sulle modalità di violenza organizzata e collettiva, è stata più una questione di schieramento politico che un genuino campo di ricerca degli storici militari. L’argomento è, o pare, così delicato che sembra impossibile per molti occuparsene con il distacco necessario. Non entrerò nel merito della questione teoretica se l’uomo e gli hominini² in generale siano violenti per natura o se la violenza sia una creazione culturale, ma basti ricordare la quantità di pensatori, alcuni dei quali fondanti per il pensiero universale, che si sono posti il problema e che ne hanno tratto deduzioni in continua antitesi tra loro (come è giusto che sia, ovviamente): dal già citato Hobbes a Rousseau in campo filosofico, da Lafitau a Démeunier in quello etnografico, da Freud in corrispondenza con Einstein in quello psicoanalitico, da Konrad Lorenz a Robert Ardrey in quello etologico e in quello antropologico. E la lista potrebbe proseguire.

    Cercherò quindi, per quanto possibile, di allineare alcuni elementi che circoscrivano l’argomento ai pochissimi dati archeologici in grado di dipanare un poco la nebbia del tempo profondo.

    Prima ancora che nell’identificare tracce della guerra nella preistoria del genere Homo, la difficoltà sta nel trovare anche solo le più semplici tracce di violenza fisica tra uomini nei resti archeologici. La maggior parte dei traumi mortali prodotti da violenza non sono rintracciabili sull’apparato scheletrico. Una morte causata da una ferita prodotta da un’arma da taglio, da uno strangolamento o da un soffocamento non producono segni sui resti ossei, limitando notevolmente le possibilità di discernere le ragioni di una morte³.

    Un caso emblematico è la mummia del Similaun.

    Il celeberrimo Ötzi, ritrovato sul ghiacciaio che gli dà il nome, venne ucciso durante l’Eneolitico, l’Età del rame, tra 5300 e 5100 anni fa, da una freccia che lo colpì sulla spalla sinistra e penetrò a fondo verso il cuore. L’evidenza di questa morte è chiara solo per la fortunata conservazione dei tessuti del corpo, mummificati per l’azione del ghiaccio. Se avessimo ritrovato solo le sue ossa in un’inumazione, anche posto che tra scapola e vertebre si fosse conservata la punta di freccia, sarebbe stato impossibile ascrivere a essa la causa del decesso, se non in modo puramente speculativo.

    Una nebbia fitta ci avvolge, dunque. Con i pochissimi dati archeologici in nostro possesso a dipanare la bruma, è praticamente impossibile vedere oltre una certa distanza. Ma la violenza è molto antica, e quindi dobbiamo acuire la vista.

    Per provare comunque a definire un inizio, per lambire questa fantomatica Genesi, dobbiamo avvicinarci per gradi, accostandoci necessariamente a tempi più recenti il cui racconto è vivo, di cui ancora possiamo sentire le voci di molte generazioni fa che ci indicano la strada.

    Andiamo, dunque, in Irlanda.

    In principio era la razzia

    Le spoglie degli antichissimi re riposavano immobili tra le pareti di pietra dei verdi tumuli, per niente turbati dal grande esercito che si stava radunando poco lontano, sulla vasta brughiera. Perfettamente omogeneo a perdita d’occhio, il paesaggio era punteggiato solo da qualche roccia grigiastra che fuoriusciva dal terreno; montagne e boschi erano lontani.

    Quel luogo si chiamava Crúachan ed era un luogo sacro⁴. Tra i suoi spazi erbosi si ospitavano tradizionalmente i raduni rituali dei druidi, si aspettavano i solstizi e si omaggiavano, ovviamente, i re che da millenni vi venivano sepolti.

    In quei giorni di fine ottobre si era festeggiato il capodanno celtico, la festa di Samhain: la ricorrenza più importante del calendario, il momento in cui il reame dei morti entrava in contatto con quello dei vivi e il passaggio di conoscenze e di coraggio tra gli antichi e i nuovi guerrieri era quanto mai possibile.

    In quell’occasione il re e la regina di quel luogo avevano invitato gli uomini delle quattro province d’Irlanda a partecipare a una grande razzia nelle terre degli Ulaid, gli abitanti del nord, in quella che oggi chiamiamo Ulster.

    Non era la prima volta che succedeva, era così da sempre e ovunque, anche oltre il mare, presso gli uomini che parlavano la loro stessa lingua, il gaelico, ma anche presso quelli che ne parlavano altre. Era il ciclo della guerra, che si alternava a quello del raccolto e a quello del riposo. E la guerra era principalmente razzia (fig. 2).

    Ancora i grandi falò alzavano le loro torri di fumo sulla piana per la recente festa, che gli eserciti erano pronti a partire. Il loro aspetto e il numero erano mirabili. Forse più di diecimila guerrieri dimostravano che un’intera nazione – anche se a quei tempi, questo termine non significava nulla – partecipava a questa razzia. Uomini del Sud, dell’Est, dell’Ovest e naturalmente anche esuli del Nord si erano divisi in schiere a seconda del loro armamento, e quindi del loro censo.

    Per primi marciavano i guerrieri più leggeri, ossia i più poveri o i più giovani, vestiti con una corta tunica e mantelli colorati. Questi erano armati con uno scudo oblungo e una lancia sottile, probabilmente un semplice giavellotto.

    Seguivano i guerrieri della seconda fila, con tuniche fino al polpaccio e mantelli grigio scuro, armati con scudi rinforzati in metallo e lance a cinque tagli.

    Chiudevano l’esercito i guerrieri più esperti e più ricchi, che vestivano con mantelli di porpora e tuniche lunghe fino ai piedi. Le loro armi erano pari ai loro abiti: scudi ricurvi con i bordi dentellati in metallo e lance enormi, quasi picche, alte come il palo centrale della dimora di un re.

    I loro principi e i loro re li precedevano, splendenti di metallo, a bordo di carri, veri simboli del loro potere in quel mondo arcaico.

    Fig. 2. Guerrieri irlandesi.

    Fig. 2. Guerrieri irlandesi.

    Uno sforzo enorme, per una società così primitiva. Decine di tribù unite per razziare un potente vicino, ricco di armenti tanto celebri da essere perfettamente rappresentati da un fenomenale toro bruno, il Donn Cuailnge, che muoveva le brame della leggendaria regina di Crúachan, Medb. Era lei la mente organizzatrice della spedizione, e bene ci mostra come in quelle società (la società celtica d’Irlanda, ma lo stesso succedeva durante l’Età del bronzo anche presso gli achei) il matriarcato fosse una memoria ancora viva di un passato non troppo lontano, quello Neolitico, anche e soprattutto quando si trattava di guerra.

    Uno sforzo che comportava il muovere la coalizione delle tribù irlandesi in un viaggio che, tra andata e ritorno, non sarebbe stato meno di quattrocento chilometri.

    Ai loro occhi, doveva veramente valerne la pena.

    Queste immagini lontanissime ci vengono raccontate dal più grande poema epico dell’Irlanda antica, il Táin Bó Cúailnge, ossia la grande razzia del bestiame (letteralmente delle vacche) di Cooley.

    Come avveniva nella Grecia arcaica con gli aedi, così nell’Irlanda pagana i filid, i poeti d’alto rango depositari delle tradizioni, cantavano le gesta dei loro eroi, trasmettendole di voce in voce per generazioni fino alle prime registrazioni prodotte negli scriptoria monastici del

    vii

    secolo d.C. Ma la loro elaborazione risale ai secoli a cavallo tra l’Età del bronzo e quella del ferro.

    È a queste voci che dobbiamo ricorrere per cominciare il nostro cammino.

    Il modo di raccontare dei poeti antichi doveva offrire momenti di meraviglia agli ascoltatori. Non ci deve stupire dunque se, durante la razzia, l’eroe del poema Cú Chulainn si produce in mirabolanti duelli e in eccezionali prove che nulla hanno da invidiare a quelle di Ercole. Nondimeno, era però importante offrire dei modelli di comportamento ispiratori per le élite guerriere dei celti.

    Ed è questo che a noi interessa, anche se per occuparci di questo tema dobbiamo giocoforza utilizzare una fonte che non è propriamente storica ma protostorica, ossia una fonte scritta che ci racconta fatti non in modo diretto, come una cronaca o una testimonianza, ma in chiave traslata, mediata dal mito e dalla narrazione epica. I fatti che ci vengono raccontati in questo modo devono essere filtrati alla luce di altre esperienze, ma ci permettono di andare alla radice della guerra stessa.

    Individuare la radice, grattare il fondo del barile per scovare l’essenza di questo fenomeno è, lo abbiamo capito, problematico; dipende ovviamente da quanto è profondo il barile. Quello di cui ci occupiamo, ossia la storia della guerra, è infinitamente profondo, abissale nella sua ampiezza, tanto quanto la storia dell’uomo stesso.

    Il lunghissimo silenzio dei millenni preistorici, durante i quali le società tribali (anche se piccole o piccolissime, a volte poco più grandi di un nucleo famigliare allargato) si sono comunque combattute, è difficile da penetrare se non sulla base di deboli analisi archeologiche e comparative.

    Ma in questo buio quasi impenetrabile, esiste un bagliore al quale possiamo aggrapparci per vedere qualcosa.

    È la prima luce che ci illumina il cammino.

    Questa debole luce è il bisogno, la necessità ancestrale, eterna ed elementare, di fare bottino, di allargare la zona di influenza del proprio gruppo, di impossessarsi del territorio altrui; di migliorare, in poche parole, il proprio stato a discapito di quello di altri, che invariabilmente prendono i connotati di nemici.

    In questo caso la guerra, nei suoi molteplici aspetti, nelle sue differenze e particolarità, trova la sua specifica espressione nella razzia, nell’incursione rapida e limitata nel tempo in territori più o meno vicini, finalizzata all’obbiettivo semplice sopra citato. La battaglia campale, grande o piccola che sia, diventa solo una conseguenza di movimenti condotti per sferrare un attacco a sorpresa, nel quale l’uccisone del nemico, in genere solo qualche unità, era poco importante rispetto alla necessità-volontà di creare un’economia positiva di autosostentamento alternativa al lavoro tradizionale, o meglio, basata sul lavoro altrui.

    Per scavare nelle radici profonde della guerra come ci siamo proposti, si deve anzitutto districare la matassa delle definizioni della guerra stessa. Per farlo, utilizziamo la definizione formulata dal grande divulgatore Jared Diamod: «La guerra è uno stato di violenza ricorrente fra gruppi appartenenti a unità politiche contrapposte, sancito dalle unità stesse»⁵. Nella sua semplicità, raccoglie pienamente il senso esteso del fenomeno.

    Non abbiamo bisogno di grandi eserciti per avere una guerra, neanche di stati o nazioni: bastano due gruppi (due tribù, ad esempio, per quanto piccole e nucleari possano essere) che si contrappongono anche su una scala territoriale limitata, e almeno fino a tutto il Medioevo – quindi per la stragrande maggioranza della storia dell’uomo –, la guerra ha avuto per circa l’80% dei casi i connotati della razzia.

    Nello schema strategico della razzia delle società tribali rientrava anche l’indebolimento del fronte

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