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I Signori di Napoli
I Signori di Napoli
I Signori di Napoli
E-book540 pagine7 ore

I Signori di Napoli

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Storia e gloria di chi ha governato sotto l’ombra del Vesuvio

Fin dalla caduta dell’impero romano, Napoli è stata governata da grandi personalità. Ognuno dei suoi “Signori” le ha donato qualcosa, soprattutto in termini culturali e architettonici, facendo dell’antica Partenope un groviglio di stili diversi tra loro, ma ben amalgamati e dando vita a una metropoli che si estende dalle viscere della terra fino a toccare il cielo, dalle profondità del tunnel borbonico alle vette di Castel Sant’Elmo. C’è chi ha governato Napoli da lontano e chi invece qui ha vissuto, assorbendone a tal punto l’anima da voler imparare il dialetto locale, come fece Carlo di Borbone; chi ha regnato a lungo e serenamente, occupandosi di abbellirla con regge e palazzi e chi è apparso nel suo cielo come una meteora lasciando una scia di sangue e ammonimenti dolorosi, come Masaniello e i rivoluzionari del 1799. Ma c’è anche chi guida metaforicamente la città, essendone simbolo e immagine: le grandi maschere impersonate da artisti geniali, come i De Filippo o Totò, e naturalmente i personaggi della tradizione sacra o profana come san Gennaro e Pulcinella, con i quali i napoletani hanno un rapporto tutto particolare, fatto di devozione o addirittura di identificazione. Benvenuti a Napoli, città ricca di bellezza e di contraddizioni, dove passato e presente si stringono la mano passeggiando per i vicoli, facendosi beffe di chi non conosce la sua storia.

Dall’antica Parthenope alla città nel dopoguerra

• Il ducato
• I normanni
• Gli svevi
• Gli angioini
• I Durazzo
• Gli aragonesi
• I viceré
• I Borbone
• I francesi
• I Signori del popolo
• I Signori senza tempo

e tanti altri personaggi ...
Sara Prossomariti
è nata nel 1984 e vive e lavora a Mondragone. Laureata in Storia e Archeologia, ha collaborato con la rivista «Civiltà Aurunca». Opera come volontaria presso il Gruppo Archeologico Napoletano da più di dieci anni e ha partecipato a diversi scavi archeologici in Grecia e in Italia. Guida turistica autorizzata della Campania, con la Newton Compton ha pubblicato I personaggi più malvagi dell’antica Roma; I signori di Napoli; Un giorno a Roma con gli imperatori; I grandi personaggi del Rinascimento; Il secolo d’oro dell’antica Grecia; Il secolo d’oro dell’antica Roma; I grandi delitti di Roma antica e, scritto con Andrea Frediani, Le grandi dinastie di Roma antica.
LinguaItaliano
Data di uscita20 ott 2014
ISBN9788854173460
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    Anteprima del libro

    I Signori di Napoli - Sara Prossomariti

    271

    Prima edizione ebook: ottobre 2014

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-7346-0

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Progetto grafico: Carol Gullo

    Realizzazione: Alessandro Tiburtini

    Foto: Gaspar van Wittel

    © Alfredo Dagli Orti/The Art Archive/Corbis

    Sara Prossomariti

    I Signori di Napoli

    Introduzione

    Parlare dei Signori di Napoli non è semplice, anche e soprattutto perché di questo titolo possono fregiarsi diversi tipi di personaggi e per le motivazioni più disparate. Alcuni molto banalmente rientrano in questa categoria per il solo fatto di aver regnato sulla città partenopea; altri, invece, per averla resa nota in tutto il mondo con la loro arte, canora o drammatica che fosse; altri ancora per averla liberata dal giogo nemico o per averla difesa addirittura dalla peste e dalle eruzioni del Vesuvio come nel caso del mitico san Gennaro.

    Ovviamente possiamo parlare solo di quelle personalità di cui le fonti hanno trattato in maniera sufficiente a delinearne un profilo completo. Ecco perché la nostra trattazione ha inizio a partire dall’età medievale trascurando il periodo greco-romano e quello tardo antico.

    Napoli ha una storia antichissima, anche più della città eterna: basta considerare, infatti, che Roma sorse verso la metà dell’ottavo secolo quando Napoli era in piena attività già da tempo.

    Eppure, nonostante ciò, per i primi mille anni e passa della storia della città non abbiamo informazioni relative a personaggi di spicco che si sono distinti in ambito cittadino ma solo di popoli che si sono succeduti al governo della città.

    Nel territorio dell’attuale comune di Napoli anticamente sorgevano ben due città, Partenope e Neapolis. Partenope sorse a opera degli abitanti della vicina Cuma su un più antico emporio commerciale fondato nel

    IX

    secolo a.C. da alcuni greci provenienti dall’isola di Rodi. Questo emporio si trovava sull’isolotto di Megaride che oggi ospita il famoso Castel dell’Ovo ma con l’arrivo dei cumani fu colonizzata anche la costa prospiciente con il monte Echia e così Partenope assunse i connotati di una vera e propria città.

    Per quanto gran parte della storia di Partenope sia avvolta nella leggenda, esistono tracce sia letterarie che archeologiche che confermano la sua esistenza, come ad esempio le sepolture rinvenute presso l’attuale via Nicotera, databili in parte tra il

    VII

    e il

    VI

    secolo a.C. e in parte tra il

    IV

    e il

    III;

    oppure alcuni brani dello storico romano Tito Livio. Per assurdo però i partenopei non furono i primi ad abitare questa zona: Napoli, infatti, oltre ad avere una storia ha anche una preistoria e una protostoria ben documentata da evidenze archeologiche come ad esempio alcune sepolture risalenti all’

    VIII

    millennio a.C. Molti autori antichi si sono cimentati nella trattazione di questa fase della storia di Napoli e ne è venuto fuori un elenco di teorie, alcune plausibili altre totalmente assurde. Licofrone, vissuto nel

    IV

    secolo a.C., sosteneva che già prima della fondazione di Partenope sulle coste napoletane sarebbe esistita una città chiamata Phaleron. Il nome ovviamente ha suscitato forti dubbi, considerando l’omonimia con il famoso porto di Atene; ma se anche Licofrone avesse inventato di sana pianta il nome della suddetta città, di certo aveva ragione a sostenere che prima dei partenopei la zona era stata abitata da altri uomini. Virgilio parla invece di Teleboi provenienti dalla Tessaglia che avrebbero occupato prima Capri e poi Napoli¹ ma non vi sono certezze.

    Si tratta quindi di una preistoria lunga e complessa che non può essere analizzata nel dettaglio in questa sede ma di cui gli stessi greci erano consapevoli, tanto da aver dato un nome ai loro predecessori, vale a dire il generico opici, abitanti delle grotte.

    In genere i nomi attribuiti alle città di nuova fondazione hanno un significato ben preciso, ma come mai allora il nucleo abitativo fondato dai cumani assunse il nome di Partenope che significa dalle sembianze di vergine?

    Esistono due leggende che gli antichi partenopei erano soliti raccontare per spiegare l’origine del nome della loro città. La prima si ricollega al mito del ratto di Persefone, la giovane figlia della dea Demetra. Il giorno in cui avvenne il fattaccio la giovane stava giocando tranquillamente con alcune sue amiche quando comparve Ade con il suo carro e la portò via per farne la sua compagna. Le suddette amiche, in pena per la sua sorte, proposero a Demetra di aiutarla nelle ricerche ispezionando però la Terra da un punto di vista diverso, dall’alto. Fu così che la dea le accontentò trasformandole in uccelli ma lasciando intatti i bei volti da donna, in ricordo della loro bellezza femminea. Ritrovata Persefone, le sirene si stanziarono su alcuni scogli nel Tirreno e, avendo ancora il dente avvelenato con i membri del sesso forte, cominciarono a decimare tutti i marinai che si trovavano a passare nei pressi della loro nuova sede. Ma come facevano a ucciderli? Semplice, con il loro canto erano in grado di provocare delle allucinazioni che spingevano i poveri marinai al suicidio. Questa mattanza durò fino all’arrivo di Ulisse che si trovò a passare vicino agli scogli delle sirene durante il suo viaggio di ritorno a Itaca, subito dopo essere stato trattenuto da Circe sull’isola Eea (presso il Circeo) per diverso tempo. Conscio del pericolo cui andava incontro, l’eroe greco escogitò un piano arcinoto per salvare se stesso e il suo equipaggio senza dover rinunciare ad ascoltare quelle leggendarie voci. Tappate le orecchie dei suoi uomini con della cera, Ulisse si fece legare all’albero della nave per impedirsi di tuffarsi attratto dal micidiale canto. Sconfitte dall’astuzia di uno dei tanto odiati uomini, le sirene decisero di togliersi la vita e così si gettarono in mare. Un suicidio alquanto anomalo se questi esseri fossero stati metà donna e metà pesce come ce li presenta la tradizione medievale, ma come abbiamo già detto i greci non li immaginavano assolutamente così. Ma come ci ricolleghiamo alla storia di Partenope? Semplice, una delle suddette sirene si sarebbe chiamata proprio Partenope e a quanto pare, in seguito al suicidio, il suo corpo sarebbe giunto sull’attuale lungomare di Napoli, dove fu trovata da alcuni uomini che impietositi le diedero degna sepoltura e le tributarono un culto.

    Alcuni studiosi hanno tentato di trovare una spiegazione razionale agli antichi miti greci e per quanto riguarda quello delle sirene c’è chi ha ipotizzato che probabilmente alcuni marinai, esposti al sole cocente per diversi giorni durante la navigazione e rimasti senza acqua, avessero per disperazione bevuto acqua di mare, provocandosi delle spaventose allucinazioni che li portarono a immaginare i famosi esseri metà donna e metà uccello dalla voce fatale che probabilmente altro non erano che dei poveri gabbiani appollaiati su uno scoglio.

    L’altra leggenda relativa alla fondazione di Partenope vede protagonista la giovane figlia del re Eumelo di Tessaglia, che si chiamava per l’appunto Partenope. Il sovrano, in cerca di una nuova terra da colonizzare, fu indirizzato dal dio Apollo verso le coste dell’Opicia, ma sua figlia, che viaggiava con lui, riuscì appena a dare uno sguardo alla sua nuova terra prima di morire per cause sconosciute. I suoi concittadini la amavano al punto da tributarle un culto e da dare alla loro nuova città il suo nome che rimase così immortale.

    Nonostante i connotati leggendari della storia di Partenope, sirena o fanciulla che fosse, si sa che esisteva un sepolcro a lei dedicato e molti hanno cercato di individuarlo. Sulla base delle informazioni fornite da Strabone, che parla di un monumento funebre visibile dal mare, l’archeologo Mario Napoli ha ipotizzato che potesse trovarsi nella zona dove oggi si erge il teatro San Carlo, situato presso l’antico porto della città. Altri, invece, hanno proposto di collocare il sepolcro presso l’altura di Sant’Aniello a Capo Napoli, sede di un’altra area sacra, ma a tuttora non si è giunti a una conclusione certa.

    Anche Partenope, come molte altre città, dovette superare dei periodi di crisi e, infatti, intorno al

    V

    secolo a.C. le evidenze archeologiche registrano una battuta d’arresto nello sviluppo della città, come dimostra anche l’assenza di sepolture per questa fase nella necropoli di via Nicotera. I partenopei dovettero fare i conti con l’arrivo degli etruschi che, dopo aver occupato l’entroterra campano, tentarono di sottrarre ai greci il possesso delle aree costiere provocando un conflitto che durò per diversi decenni.

    Partenope rimase coinvolta nel conflitto e fu abbandonata dai suoi abitanti che cercarono rifugio in zone più sicure. Una volta terminato il conflitto con la vittoria dei greci, i partenopei fecero ritorno alle loro case. C’è anche chi parla della possibilità che Partenope fosse stata distrutta dai cumani divenuti invidiosi della fortuna della città figlia, ma questa versione sembra alquanto improbabile.

    Le battaglie più famose vinte dai greci contro gli etruschi sono due: la prima fu combattuta dal tiranno Aristodemo di Cuma nel 524 a.C. mentre la seconda, che portò la vittoria definitiva ai greci, risale al 474 a.C. e fu combattuta presso Capo Miseno. Partenope quindi risorse e a essa fu affiancata una nuova città che prese il nome di Neapolis (città nuova) che automaticamente comportò un cambio di nominativo anche per Partenope che da allora fu detta Palepolis (città vecchia). Le due città non erano separate, almeno da un punto di vista amministrativo. Gestite dagli stessi magistrati, furono unite dalla sorte per diversi secoli come dimostra anche un passo di Tito Livio:

    Non lontano dal punto in cui oggi si trova Neapolis sorgeva una città di nome Palepolis; i due centri (Palepolis e Neapolis) erano abitati da uno stesso popolo. Si trattava di oriundi di Cuma; i cumani traggono origine da Calcide in Eubea. Grazie alla flotta con la quale erano arrivati dalla loro terra, divennero molto potenti lungo la costa del mare dove ora vivono. In un primo tempo sbarcarono a Ischia e nelle Pitecuse, poi si avventurarono a trasferire la loro sede sulla terraferma. La popolazione di Palepolis, contando sia sulle proprie forze sia sulla slealtà dimostrata dai sanniti nei confronti degli alleati romani, o forse confidando sull’epidemia che, secondo le notizie, aveva assalito Roma, commise numerosi atti ostili nei confronti dei romani residenti nell’agro Campano e Falerno. Così, durante il consolato di Lucio Cornelio Lentulo e Quinto Publilio Filone (eletto per la seconda volta), vennero inviati a Palepolis i feziali per chiedere soddisfazione. Al ritorno i feziali riferirono di una risposta durissima da parte dei greci (gente più valida a parole che a fatti): perciò, su proposta dei senatori, il popolo dichiarò guerra ai Paleopolitani. I consoli si divisero gli incarichi e la guerra contro i greci toccò a Publilio. Entrambi i consoli informarono il senato che c’erano pochissime speranze di pace con i sanniti. Publilio riferì che Palepolis aveva ricevuto duemila soldati nolani e quattromila sanniti, più per pressione degli abitanti di Nola che per volontà dei greci. Publilio, occupata una posizione favorevole tra Palepolis e Neapolis, aveva già privato il nemico di quella reciproca assistenza di cui i diversi popoli avversari si erano serviti non appena le varie postazioni erano state messe sotto pressione. Ma alla fine sembrò che la resa ai romani fosse il male minore. Carilao e Ninfio, i personaggi più in vista della città, dopo essersi consultati tra di loro, si divisero le parti per mettere in pratica il piano convenuto: uno di essi si sarebbe recato dal comandante romano, l’altro si sarebbe fermato a predisporre la città all’esecuzione del piano. Fu Carilao che si presentò a Publilio Filone e, pregando che la cosa portasse vantaggio e prosperità a Paleopoli e al popolo romano, annunciò di aver deciso di consegnare le mura della città. Sarebbe poi dipeso dal senso di lealtà dei romani se, a fatti compiuti, egli sarebbe apparso il traditore o il salvatore della città. Quanto a sé come privato cittadino, egli non patteggiava né chiedeva alcunché. A nome della sua gente chiedeva – più che patteggiare – che, qualora l’impresa fosse andata a buon fine, il popolo romano considerasse con quanto sforzo e a prezzo di quali rischi gli assediati fossero tornati in amicizia con Roma, piuttosto che ricordare quale follia e quale temerarietà li avesse distolti dal proprio dovere. Ricevute le congratulazioni del comandante, ottenne tremila uomini per riconquistare la parte di città presidiata dai sanniti. A capo del contingente armato venne posto il tribuno militare Lucio Quinzio.²

    Neapolis, a differenza di Partenope che era cresciuta lentamente e quindi aveva una forma meno regolare, era stata progettata a tavolino seguendo il cosiddetto sistema ippodameo. Strade regolari che si incrociano ad angolo retto resero la città ordinata ed efficiente, ma Neapolis era anche scenica. Adagiata su una serie di terrazzamenti, vista da mare doveva somigliare moltissimo a uno dei tanti presepi venduti a San Gregorio Armeno. Questo splendido panorama era protetto da possenti mura a doppia cortina realizzate in parte nel

    V

    e in parte nel

    IV

    secolo a.C. che divennero leggendarie perché nessun nemico fu mai in grado di abbatterle. Gli etruschi non furono gli unici a minacciare i greci residenti in Campania: nel

    IV

    secolo a.C., infatti, si presentarono alle porte della città i sanniti che però riuscirono là dove gli etruschi avevano fallito. Si insediarono a Palepolis, Neapolis e in molte altre città della zona e qui li trovarono i romani all’epoca delle guerre sannitiche. Nel 326 a.C., all’esordio della seconda guerra sannitica, gli abitanti di Neapolis e Palepolis si erano trovati con un gruppo di sanniti dentro le mura e con un manipolo di romani fuori che ne reclamava la consegna, e tentarono di temporeggiare per decidere sul da farsi.

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    Palepolis e Neapolis. Tra le città il fiume Sebeto poi interrato. 1 piazza Plebiscito, 2 Castelnuovo, 3 piazza Municipio, 4 piazza Dante, 5 via Costantinopoli, 6 piazza Cavour, 7 Porta San Gennaro, 8 Castel Capuano, 9 piazza Calenda, 10 Corso Umberto

    I

    .

    Gli assediati erano divisi in due fazioni, una a favore e una contro i sanniti, ma alla fine i primi dovettero capitolare perché alcuni loro concittadini, tali Carilao e Ninfio, si accordarono di nascosto con i romani e aprirono le porte della città risolvendo il conflitto a favore dei nuovi arrivati.

    Neapolis divenne di fatto romana pur mantenendo intatta la sua grecità guadagnandosi l’appellativo di piccola Atene in un mondo romano. Si viene così a creare una situazione assurda perché Neapolis pur essendo il porto principale di Roma sul Tirreno continua ad avere magistrati che parlano e scrivono in greco, anche gli atti ufficiali. I neapolitani sono di fatto sottomessi a Roma ma di romano hanno ben poco. Tutto sembra filare liscio fino all’inizio del

    I

    secolo a.C. quando Mario e Silla decidono di farsi la guerra e di coinvolgere in questo conflitto tutte le città sottomesse al dominio romano. Tutti sono chiamati a scegliere il loro campione, anche i neapolitani. Da una parte c’era Mario, già sei volte console, vincitore di Giugurta, dei cimbri e dei teutoni, in sintesi un cavallo vincente anche se in là con gli anni e reduce da qualche acciacco; dall’altro c’era Silla, più giovane e da sempre considerato un gregario di Mario, anche se si vociferava già a quel tempo che era stato grazie al suo intervento che Giugurta fosse capitolato. Una scelta decisamente ardua che alla fine si risolse in favore di Mario. Purtroppo però l’anziano comandante ebbe la peggio e così Neapolis dovette fare i conti con l’ira del vincitore. Silla tolse alla città il ruolo di porto commerciale e lo passò a Pozzuoli che lo aveva appoggiato durante la guerra civile e presso la quale si ritirerà per vivere i suoi ultimi giorni di vita. Per Neapolis fu un duro colpo, soprattutto da un punto di vista economico, e quando dovette reinventarsi passò dall’essere una città di negotia a una città di otia. La Campania cominciò così a popolarsi di spettacolari ville da ozio appartenute a personaggi del calibro di Cicerone e Agrippina. Chiunque valesse qualcosa a quel tempo possedeva una villa nella stupenda Campania Felix e così ingenti ricchezze ricominciarono a confluire in città e non ci volle molto perché i collegamenti con Pozzuoli fossero potenziati a tal punto da non risentire quasi della lontananza del porto.

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    Il tempio dei Dioscuri, poi chiesa di San Paolo Maggiore, in un’antica incisione.

    Napoli, col passare dei secoli, ha continuato a crescere, non a espandersi, bensì a crescere in altezza seppellendo sotto diversi strati di storia le tracce del passaggio dei greci e dei romani. Sotto la chiesa di San Lorenzo Maggiore è conservata in ottime condizioni una buona parte dell’antico macellum che si affacciava sul foro oggi occupato da piazza San Gaetano. Sull’antica piazza romana si affacciava anche il tempio dei Dioscuri poi soppiantato dalla chiesa di San Paolo Maggiore che conserva ancora oggi tracce di quel poderoso edificio. I Dioscuri insieme a Demetra e Apollo erano le divinità principali del pantheon cittadino per cui i loro templi furono sempre molto curati e maestosi. A loro si rivolgevano i napoletani per riceve delle grazie così come poi faranno con san Gennaro, e le quattro divinità, esattamente come il santo, intervenivano prontamente.

    Non sempre però le vestigia greco romane di Neapolis si trovano sepolte sotto edifici di epoche successive, in alcuni casi sono nascoste nei luoghi più impensabili, come ad esempio la cavea del teatro romano nel quale, secondo la tradizione, si sarebbe esibito anche l’imperatore Nerone. Una parte dell’edificio, infatti, è ricomparsa sotto un giardino realizzato nel cortile di un palazzo ed è tuttora in ottimo stato.

    Sulle pendici del monte Echia, invece, stando alle fonti doveva trovarsi la maestosa villa di Lucio Licinio Lucullo costruita nel

    I

    secolo a.C. e distrutta in epoca ducale. Qui il comandante romano accumulò ingenti ricchezze e organizzò dei banchetti talmente maestosi da essere ricordati ancora oggi. Con Valentiniano

    III

    le poderose e inespugnate mura della città furono ampliate e pian piano la villa di Lucullo fu trasformata in un castrum che ospitò l’ultimo imperatore di Roma, Romolo Augustolo, esiliato qui da Odoacre, e forse qui deceduto.

    Con la morte di Romolo Augustolo entriamo nel pieno delle invasioni barbariche e la Campania, come il resto dell’Italia, divenne oggetto di contesa fra i vari popoli occupanti fino a quando non fu conquistata dai goti. Questi spadroneggiarono in zona fino all’arrivo del famosissimo generale dell’imperatore Giustiniano, Belisario, il quale riuscì finalmente a scacciarli. Su ordine dell’imperatore, Belisario tentò di ricongiungere ai domini orientali quelli occidentali per dare vita a un impero degno di quello romano e così ebbe inizio la cosiddetta guerra greco-gotica che durò quasi vent’anni (535-553 d.C.).

    Arrivato a Napoli Belisario tentò la strada della diplomazia ma i goti, chiusi all’interno della città, consapevoli della potenza e dell’indistruttibilità delle mura cittadine, rifiutarono qualsiasi tipo di accordo. Purtroppo per loro però avevano sottovalutato Belisario e il potere della corruzione. Il generale, pur essendo un valoroso guerriero, dopo un inutile assedio, non volendo darsi per vinto, decise di comprare ciò che non riusciva a ottenere con la forza e così pagò alcuni napoletani bendisposti per farsi indicare una scorciatoia per entrare in città indisturbato. Fu così che i bizantini, passando per l’acquedotto cittadino, riuscirono a fare irruzione in città per poi rendersi responsabili di saccheggi e stragi di una portata tale da essere rimproverati anche dal papa. I napoletani sopravvissuti alla strage erano talmente pochi, stando ai racconti delle fonti, che si dovette provvedere a rinfoltire la popolazione con uomini provenienti dalle città vicine che ovviamente furono costretti a spostarsi contro la loro volontà.

    La presa di Napoli non segnò la fine delle ostilità, infatti, dopo soli sei anni i goti, guidati da un nuovo comandante, Totila, riuscirono a riprendersi i loro vecchi possedimenti. Il tira e molla proseguì ancora per diverso tempo e così, dopo altri dieci anni, i napoletani ritornarono nuovamente sotto il dominio dei bizantini, comandati ora da Narsete, chiamato a sostituire Belisario caduto in disgrazia. Narsete fu il vincitore indiscusso del conflitto che portò quindi Napoli e la Campania sotto l’egida bizantina.

    Napoli, che in epoca romana era stata una delle tante ricche città della Campania, si preparava a diventare in epoca medievale la capitale di un regno che occupava tutto il meridione d’Italia rivaleggiando con città del calibro di Parigi sia per cultura che per numero di abitanti.

    ¹ Virgilio, Eneide,

    VII

    , 733-735.

    ² Livio, Ab Urbe condita libri,

    VIII

    , 22-25.

    Il ducato

    La storia dei Signori di Napoli ha inizio a partire dal

    VII

    secolo d.C. con la nascita del ducato autonomo napoletano che conferì alla città quell’indipendenza necessaria alla comparsa di personaggi di spicco identificabili come Signori della città. Quello del ducato, pur essendo ricordato da poche fonti, è uno dei periodi più lunghi della storia di Napoli e va dal 661 al 1137, coprendo un arco temporale di circa sei secoli.

    Dopo la vittoria riportata dall’esercito bizantino guidato da Narsete sugli ostrogoti di Teia presso i monti Lattari il 31 ottobre del 552 d.C., Napoli divenne a tutti gli effetti una provincia bizantina amministrata dallo iudex Campaniae e dotata di un esercito guidato da un dux. La città, dipendente in tutto e per tutto da Bisanzio, doveva fare capo all’esarcato di Ravenna perché rientrava in questo distretto periferico bizantino ed era quindi l’esarca a decidere chi avrebbe dovuto governare la città, scegliendo quasi sempre degli stranieri sia per il ruolo di iudex che per quello di dux. Intorno alla metà del

    VII

    secolo la figura dello iudex scomparve e il dux/duca divenne il detentore unico sia del potere amministrativo che di quello militare. Con il duca Basilio, napoletano

    DOC

    , scelto nel 661 dall’imperatore Costante

    II

    per governare Napoli, ha inizio il ducato autonomo della città. Nel 615 i napoletani avevano già tentato di liberarsi dal giogo bizantino ma con scarsa fortuna. Approfittando dell’assassinio dell’esarca di Ravenna, alcuni napoletani guidati da un tale Giovanni Consino insorsero ma la situazione fu presto nuovamente sotto il controllo di Bisanzio e i ribelli furono tutti giustiziati.

    Anche se con l’ascesa del duca Basilio Napoli era ancora sotto l’egida bizantina, le cose cominciavano a cambiare, quanto meno si poteva dire che non c’erano più intermediari tra i napoletani e l’imperatore e quindi la città si era garantita un bel po’ di autonomia, essendo ormai i supervisori a diverse migliaia di chilometri di distanza e il duca decisamente di parte.

    All’epoca del ducato, Napoli comprendeva un’area quasi equivalente all’attuale territorio provinciale, vale a dire, a parte la città in sé, anche la zona vesuviana, la sorrentina, la puteolana e il nolano con tanto di Ischia e Procida. Il palazzo del duca, detto praetorium, si trovava nella zona di Monterone, per la precisione là dove oggi sorge la sede del dipartimento di Scienze della terra dell’università Federico

    II

    , sita in largo San Marcellino.

    Quasi tutto il periodo ducale fu caratterizzato da una lunga serie di lotte tra Napoli e diversi nemici-amici. Le alleanze, infatti, mutavano frequentemente e quelli che un tempo erano alleati in un attimo potevano diventare i peggiori nemici di sempre. Le potenze con le quali dovettero confrontarsi i napoletani in quei secoli erano: i longobardi della Longobardia Minor, il papato, i saraceni e i franchi.

    Dei primi duchi di Napoli, che in totale sono stati trentasette, si sa molto poco, maggiori informazioni restano invece per i membri delle cosiddette dinastie degli Stefano e dei Sergi. Dopo anni di silenzio ci giunge qualche informazione a proposito del duca Giovanni

    I

    , insediatosi nel 711 e rimasto a capo della città fino al 719. I fatti relativi ai suoi primi anni di governo ci sono completamente sconosciuti ma sappiamo che tra il 716 e il 717 i longobardi, guidati da Romoaldo

    II

    , riuscirono a sottrargli una parte del territorio del ducato occupando la città di Cuma. Giovanni chiese aiuto al papa che gli propose di tentare prima la strada della diplomazia; fallita questa, i napoletani, che fino ad allora per difendersi si erano limitati a starsene nascosti dietro le mura della città, decisero di armarsi e riprendersi ciò che loro apparteneva. Si presentarono così, con un vero e proprio esercito, alle porte di Cuma e attaccarono i longobardi. Questi rimasero talmente colpiti dalla sortita dei loro nemici che, non riuscendo a reagire prontamente, furono sconfitti. I successori di Giovanni, a partire dal duca Teodoro, furono coinvolti nella guerra iconoclasta che vide fronteggiarsi Roma e Bisanzio. L’imperatore Leone

    III

    Isaurico aveva ordinato la distruzione di tutte le immagini sacre e il papa lo aveva fatto scomunicare. In una situazione normale sarebbe stato semplice decidere da quale parte schierarsi ma per Napoli e i napoletani non era così. Sottoposti ancora al dominio bizantino ma legati per questioni religiose al papa, i napoletani non sapevano che pesci prendere e così i vari duchi furono costretti a destreggiarsi come possibile in quelle acque così turbolente. La questione si chiuse con Stefano

    II

    che si decise a favore del papa e autorizzò il culto delle immagini sacre anche se inizialmente si era schierato a favore dell’imperatore.

    Divenuto duca nel 755, Stefano mantenne la carica per circa quarantacinque anni, fino all’Ottocento. Nel periodo in cui sostenne la guerra iconoclasta dell’imperatore impedì per quasi due anni al neo vescovo di Napoli, Paolo

    II

    , di entrare in città dopo che questi si era recato a Roma, contro la sua volontà, per far ratificare al papa la sua nomina. Il vescovo esule fu costretto a rifugiarsi presso la chiesa di San Gennaro extra moenia, nei pressi delle catacombe di San Gennaro, dove rimase fino a che non fu riammesso in città, vale a dire nel 763. Proprio in quell’anno, infatti, il duca Stefano decise di rappacificarsi col papa e così permise a Paolo

    II

    di rientrare dando inizio alla vera latinizzazione di Napoli che ancora nell’

    VIII

    secolo d.C. era un baluardo della grecità. A dimostrazione del distacco formale da Bisanzio, fu coniata una nuova moneta cittadina che non recava più l’immagine dell’imperatore, come fino a quel momento, ma quella del santo patrono della città: san Gennaro.

    Il nuovo legame instaurato da Stefano col papato fu tale che nel 766, quando il vescovo Paolo

    II

    morì, lo stesso duca fu proclamato anche vescovo di Napoli. All’epoca Stefano aveva poco meno di quarant’anni ed era vedovo, con una notevole prole. Fu il primo a concentrare nelle proprie mani le due cariche più importanti della città, il ducato e il vescovato, ma questo accentramento di poteri non fu tutto.

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    Catacombe di San Gennaro: cappella cimiteriale (incisione da G. Strafforello, La Patria. Geografia dell’Italia).

    Al vescovo-duca furono attribuite, oltre alle due prestigiose cariche, anche poteri sovrumani. Pare, infatti, che negli anni in cui governò la città, il Vesuvio si fosse risvegliato e minacciasse di devastare i territori circostanti con la lava. Stando alla tradizione, Stefano, per difendere il suo popolo, uscì dalla città e si posizionò davanti al fiume di fuoco e, novello san Gennaro, ne arrestò miracolosamente il corso.

    A lui si deve la ricostruzione della Stefania, una delle due chiese che sorgevano là dove in epoca angioina fu costruito il Duomo e che oggi non esiste più. La chiesa era stata voluta da Stefano

    I

    , il quale governò tra il 684 e il 687, e fu realizzata accanto alla preesistente Santa Restituta. Tuttavia, una notte, durante la Pasqua, un cero lasciato sconsideratamente acceso non si sa come provocò un incendio che partendo dai paramenti sacri si propagò anche alle strutture e alla fine distrusse quasi completamente la chiesa. Stefano

    II

    la fece ricostruire ingrandendola e collocandovi le reliquie dei santi Eutichete e Acunzio, un tempo conservate a Pozzuoli. A lui si deve anche la realizzazione di alcuni monasteri tra cui quello di San Pantaleone presso via San Gregorio Armeno e quello di San Gaudioso.

    Stefano

    II

    tentò di rendere ereditario il ducato, come fece poi Sergio

    I

    quasi un secolo dopo, ma il tentativo fallì a causa del decesso prematuro dei suoi eredi.

    Il primo a essere scelto come successore fu ovviamente il suo primogenito, Gregorio

    II

    , che dal 766 affiancò il padre nella gestione del ducato fino al 794 quando morì. Durante il periodo della coreggenza con Gregorio il ducato di Napoli fu attaccato da Arechi

    II

    di Benevento e Stefano, anziché combattere, decise di trovare un accordo con i longobardi sottomettendosi al pagamento di un tributo e consegnando in ostaggio suo figlio minore, come si usava fare all’epoca in queste circostanze. Come detto in precedenza, in questa fase della storia di Napoli, i nemici rapidamente potevano diventare amici ed è ciò che avvenne tra Stefano e Arechi

    II

    , i quali, dopo essersi combattuti, si unirono per far fronte alle mire espansionistiche del papato, che minacciavano anche il principato longobardo. Ma quest’alleanza durò il tempo di sconfiggere il comune nemico, poi tutti nemici come prima. Morto Gregorio, Stefano tornò a essere l’unico Signore di Napoli ma solo per qualche mese, perché poi si fece affiancare dal genero Teofilatto

    II

    , che aveva sposato sua figlia Euprassia. Di lì a sei anni Stefano morì e fu sepolto, come quasi tutti i duchi di Napoli, nella chiesa di San Gennaro extra moenia, che divenne appunto una vera e propria basilica cimiteriale.

    Di Teofilatto non sappiamo quasi niente, a parte che durante il suo ducato le cariche di duca e vescovo furono nuovamente separate per volontà del clero e che il nuovo vescovo in carica fu un tale Paolo. A succedere a Teofilatto fu il duca Antimo, al quale si deve la costruzione della basilica di San Paolo Maggiore, sorta presso l’antico foro romano (in piazza San Gaetano) e per la precisione sui resti dell’antico tempio dei Dioscuri che dominava l’antica piazza romana. È possibile notare ancora oggi le tracce dell’antico tempio inglobato nella basilica; l’edificio cristiano, infatti, presenta un alto podio, oggi sede del succorpo, tipico dei templi romani, e due colonne dell’antico pronao.

    Anche durante il ducato di Antimo non mancarono i contrasti con longobardi e saraceni, in particolare va ricordato lo scontro con Grimoaldo

    IV

    di Benevento. Ai danni del longobardo fu ordita una congiura da un tale Dauferio il quale tentò di assassinarlo nei pressi di Vietri ma senza successo. Fallita l’aggressione, Dauferio si dette alla fuga e chiese rifugio ai napoletani che incautamente lo accolsero. Grimoaldo

    IV

    , furioso, attaccò Napoli dalla quale uscirono molti valorosi cittadini per difendere le case e un uomo che non aveva fatto altro che portare loro guai. Lo scontro fu violentissimo, tanto che Erchemperto ricorda che il numero di morti fu tale che ci vollero ben sette giorni per ripulire il luogo del combattimento. Dauferio e il duca Antimo erano riusciti a sfuggire alla carneficina, ma una volta rientrati all’interno delle mura trovarono le mogli dei defunti inferocite che li inseguirono con le armi in pugno reclamando i loro mariti.

    La questione si chiuse con il pagamento da parte di Antimo di ottomila aurei d’oro a Grimoaldo il quale, per dimostrare la sua supremazia, fece un gesto puramente formale ma significativo: si recò presso le mura della città e toccò con la punta della lancia Porta Capuana. Il longobardo però fece un grosso errore, e cioè rinunciare a Dauferio, che non gli fu mai consegnato e che ebbe così modo di assoldare un sicario che portò a termine il lavoro iniziato da lui presso Vietri tempo addietro.

    Alla morte del duca nell’818 si creò un serio problema relativo alla successione. Dall’epoca di Stefano

    II

    , infatti, i duchi avevano sempre designato un successore, ma Antimo non lo fece, scatenando così una vera e propria lotta che costrinse i napoletani a chiedere l’intervento del patrizio di Sicilia, che inviò un tale Teocristo col compito di ricoprire il ruolo di duca della città. Napoli tornava così sotto il controllo di Bisanzio e soprattutto sotto l’egida di uno straniero.

    Questo stato di cose però durò poco. Teocristo era stato sostituito da un tale Teodoro, anche lui straniero, e così i napoletani si resero conto di aver fatto un errore a chiedere l’aiuto dei bizantini e che piano piano stavano perdendo l’autonomia guadagnata in quegli anni. Per cui rispedirono Teodoro al mittente con armi e bagagli e scelsero un nuovo duca napoletano, Stefano

    III

    , nipote di Stefano

    II

    . Durante il ducato di quest’ultimo, che andò dall’821 all’832, i longobardi, guidati da Sicone, attaccarono più volte Napoli, tanto che il duca fu costretto a chiedere aiuto all’imperatore Ludovico.

    Durante uno dei tanti assedi, Sicone riuscì a portare via ai napoletani uno dei loro tesori più preziosi, le reliquie di san Gennaro, conservate presso le omonime catacombe. Le ossa del santo furono trasportate a Benevento, nella chiesa di Santa Maria di Gerusalemme, e successivamente presso il santuario di Montevergine, per tornare a Napoli solo nel

    XV

    secolo. Il longobardo non riuscì però a trafugare l’intero bottino; una parte delle reliquie, infatti, per la precisione il cranio e le ampolle con il sangue, rimasero a Napoli.

    Pur di mantenere la propria autonomia, Napoli dovette accordarsi con i longobardi e accettare di pagare loro un tributo, ma la quiete durò poco. I longobardi volevano Napoli e così diedero avvio a un terzo assedio³ durante il quale Sicone riuscì, con l’aiuto di un napoletano di nome Bono, a far assassinare il duca, preso alla sprovvista e colpito a morte presso la Stefania.

    Bono però, anziché consegnare la città a Sicone gli si rivoltò contro e prese il potere facendo morire di crepacuore il beffato longobardo. Il ducato di Bono e quello di suo figlio durarono poco e a loro subentrò il duca Andrea

    II

    . Intanto Sicone era stato sostituito al potere dal figlio Sicardo che riprese subito da dove aveva lasciato il padre e si piazzò alle porte di Napoli. Secondo la tradizione il duca sarebbe riuscito ad allontanare i nemici con uno stratagemma: i longobardi, dopo un certo tempo, per stabilire se proseguire o meno l’assedio, avevano deciso di mandare delle spie a Napoli con la scusa di voler parlamentare. I finti ambasciatori avrebbero dovuto tentare di capire quanto cibo ancora avevano gli assediati e quindi quanto a lungo avrebbero potuto resistere. A capo dell’ambasceria longobarda vi era un tale Roffredo il quale, passeggiando per la città in attesa di parlamentare con il duca, si trovò davanti cumuli altissimi di grano e quando chiese il perché di quella strana disposizione, gli venne detto che purtroppo, essendo i granai stracolmi, quella era l’unica soluzione possibile. Egli riferì al suo Signore quanto aveva visto e così Sicardo, avvilito, decise di ritirarsi. Intanto, all’interno delle mura, i napoletani si affannavano a recuperare quel poco di grano che era rimasto loro e che avevano disposto su alti cumuli di sabbia per ingannare i nemici.

    I longobardi però ben presto tornarono e così il duca Andrea fu costretto a chiedere aiuto agli infedeli, i saraceni, per potersi liberare di loro. L’arrivo dei mercenari saraceni però non fu risolutivo, infatti, i longobardi lasciarono Napoli giusto il tempo di aspettare il ritorno in patria dei soccorritori e poi si ripresentarono ancora alle porte della città. Gli scontri proseguirono ancora con qualche pausa, dovuta alla stipula di accordi di pace che però avevano sempre una breve durata, fino alla morte di Sicardo, che pose fine al conflitto.

    Andrea però, poco prima della morte del longobardo, preso dal timore di essere sconfitto, aveva fatto un gesto di cui si sarebbe presto pentito e cioè chiedere aiuto ai franchi. L’imperatore Lotario, alla richiesta di soccorso dei napoletani, aveva risposto inviando loro un suo messo, un tale Contardo, e il duca per tenerselo stretto gli propose la mano della figlia, peggiorando ulteriormente la sua posizione. Morto Sicardo la situazione con i longobardi si stabilizzò, ma ormai Contardo era a Napoli e così Andrea tentò di prendere tempo rinviando più volte le nozze tra sua figlia e il franco. Il duca non aveva più bisogno dell’aiuto di quest’ultimo e voleva evitare che i franchi interferissero negli affari

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