Caldo vento greco: Harmony Collezione
Di Kate Hewitt
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Kate Hewitt
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Anteprima del libro
Caldo vento greco - Kate Hewitt
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
Bound to the Greek
Harlequin Mills & Boon Modern Romance
© 2011 Kate Hewitt
Traduzione di Carla Maria De Bello
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Books S.A.
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
Harmony è un marchio registrato di proprietà
HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.
© 2012 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-5898-661-5
1
«Venga pure da questa parte, signor Zervas. Le presento Eleanor, la nostra top planner.»
Jace Zervas rallentò il passo. Eleanor. Erano dieci anni che non sentiva quel nome. Dieci anni in cui aveva impedito a se stesso di pensare a esso.
Certamente si trattava di una coincidenza. Di sicuro c’erano altre Eleanor negli Stati Uniti, a New York, oltre a quella che gli aveva spezzato il cuore.
L’assistente che l’aveva condotto attraverso l’elegante lobby si era appena fermata davanti a una porta di vetro scuro e bussato discretamente prima di entrare.
«Eleanor? Vorrei presentarle...»
Jace non sentì il resto perché, quando la donna nell’ufficio si voltò a guardarlo, la mente vacillò. Era proprio Eleanor. La sua Eleanor. Ellie.
Era sorpresa quanto lui. Se ne accorse dagli occhi sgranati, dal dischiudersi delle sue labbra. Un attimo dopo la vide drizzare le spalle e rivolgergli un professionale sorriso che lo irritò ancor più della precedente freddezza.
«Grazie, Gill. Puoi andare.»
L’assistente, ovviamente conscia della tensione che vibrava nell’aria, li osservò incuriosita.
Jace la ignorò, lo sguardo fisso su Eleanor Langley, così diversa dalla Ellie che una volta conosceva.
«Posso portarvi un caffè?»
Un’impercettibile pausa. «Certamente. Grazie.»
L’assistente lasciò la stanza, e la mente di Jace si rimise in moto.
Avrebbe dovuto aspettarsi che accadesse. Sapeva che Ellie veniva da New York e che sua madre era una top planner. Perché non avrebbe dovuto seguire la stessa strada?
Perché la Ellie che lui conosceva odiava la carriera della madre. Perché la Ellie che conosceva, o almeno che aveva creduto di conoscere, voleva aprire una pasticceria per conto suo.
Ovviamente erano accadute tante cose negli ultimi dieci anni.
«Sei cambiata.» Non avrebbe voluto dirlo, ma sarebbe stato impossibile non notarlo. La Ellie conosciuta dieci anni prima non aveva nulla in comune con la raffinata donna che ora aveva di fronte a sé.
La sua Ellie era rilassata, divertente, troppo diversa dalla donna in tailleur e con i capelli che le accarezzavano gli zigomi in un elegante caschetto castano.
Gli occhi nocciola, una volta caldi e dorati, ora sembravano più scuri, più freddi, due fessure intente a soppesarlo. E poi notò le sue scarpe: nere, tacco dodici. La sua Ellie non aveva mai indossato i tacchi. La sua Ellie non si era mai vestita di nero.
Ma poi perché continuava a pensare a quel modo? La sua Ellie non era mai stata sua.
Non se n’era accorto fino a quando non l’aveva vista l’ultima volta, fino a quando non gli aveva mentito nel peggior modo possibile.
Eleanor fece un profondo respiro. Aveva bisogno di un attimo per ritrovare il controllo. Non avrebbe mai immaginato che quel momento potesse arrivare, nonostante vi avesse fantasticato sopra molte volte. Ritrovarsi faccia a faccia con Jace Zervas. Dirgli cosa pensasse esattamente di lui e della sua fuga da codardo.
Aveva immaginato di tirargli uno schiaffo, di mandarlo all’inferno o, nei momenti più dignitosi, di congedarlo con un semplice e sdegnoso sguardo. Non si era mai immaginata potesse tremare dentro e fuori, incapace di pensare o di pronunciare una qualsiasi parola. Ma aveva lavorato troppo duramente e troppo a lungo per permettere a quel momento di distruggerla. Dopo un altro respiro, Eleanor sollevò la testa e posò il proprio gelido sguardo sull’uomo di fronte a sé.
«Certo che sono cambiata. Sono passati dieci anni.» Fece una pausa e permise ai propri occhi di scivolare su di lui. «Anche tu sei cambiato, Jace.» Era strano avere di nuovo quel nome sulle labbra. Non aveva mai parlato di lui. Fatto di tutto per non pensarlo.
I suoi capelli neri come l’inchiostro erano ora striati di grigio sulle tempie e il viso appariva più scavato. Più severo. Notò delle rughe intorno al naso e alla bocca che, stranamente, gli conferivano un’aura di dignità ed esperienza. Il corpo era ancora slanciato, agile e possente. L’abito ne avvolgeva le spalle muscolose e i fianchi stretti; lo indossava con disinvoltura ed eleganza, esattamente come aveva indossato i maglioni di cachemire e i jeans sbiaditi ai tempi del college. Appariva, riconobbe Eleanor con un leggero risentimento, in gran forma. Ma poi, rammentò a se stessa, lei lo era altrettanto. Le erano serviti tempo e fatica per assicurarsi di apparire tale; nella sua professione, un aspetto elegante e professionale era di fondamentale importanza. E adesso era grata per tutto ciò. L’ultima cosa che desiderava era trovarsi in svantaggio. Drizzò le spalle, quasi sorrise, e si scostò una ciocca di capelli dal viso con un rapido movimento.
«Così sei il mio appuntamento delle due.»
Jace sorrise a sua volta, debolmente, ma gli occhi restarono severi. Sembrava quasi arrabbiato. Eleanor non aveva idea del perché potesse esserlo; era lui quello che se n’era andato. E se c’era qualcuno che avrebbe dovuto arrabbiarsi... Scacciò quel pensiero prima che la propria mente risentita vi indugiasse troppo... lei non era arrabbiata. Era andata oltre. Non le importava più nulla di Jace Zervas.
Abbassò lo sguardo sull’agenda. «Sei qui in rappresentanza della Atrikides Holdings?» gli chiese. «Sarebbe dovuto venire Leandro Atrikides. Sono cambiati i programmi?»
«Qualcosa del genere» concordò Jace, la voce tirata. Si sedette su una delle poltrone di pelle di fronte alla scrivania e incrociò le gambe.
«Bene.» Si sforzò di sorridere e prese posto a sua volta. «Come posso aiutarti?»
Le labbra di Jace si tesero, ed Eleanor non poté non domandarsi cosa stesse accadendo.
Dieci anni di rabbia, amarezza e schiacciante dolore ridotti a una semplice frase. Come posso aiutarti? Eppure non sembrava esserci altra scelta. Non voleva rivangare il passato; sarebbe stato scomodo e doloroso. Voleva fingere che non esistesse e lo avrebbe fatto. Avrebbe trattato Jace Zervas come un normale cliente, pur non avendo alcuna voglia di aiutarlo. La scelta più ragionevole sarebbe stata quella di affidarlo a un collega e togliersi da quella che si prospettava fin da subito come una situazione esplosiva. Ma non lo avrebbe fatto. Il suo capo non ne sarebbe stato felice. E poi c’era un’altra ragione per cui avrebbe affrontato Jace nel proprio ufficio. Non voleva dargli la soddisfazione di vederla scappare. Come aveva invece fatto lui.
«Ovviamente sono qui perché ho bisogno di organizzare un evento.»
«Ovviamente» echeggiò Eleanor, e sentì il tono tagliente della sua stessa voce. «Intendo dire, di che tipo di evento stiamo parlando? Qualche dettaglio sarebbe utile.»
«Non è forse stato compilato un modulo in proposito? Sono quasi certo che la mia assistente lo abbia fatto per telefono.»
Eleanor fece scorrere il file che aveva sulla Atrikides Holdings. «Una festa di Natale» lesse dal memo di una delle segretarie. «È tutto ciò che ho.»
Ci fu un colpo alla porta e Gill entrò con un vassoio di caffè. Eleanor si alzò per prenderlo. Non voleva che l’assistente cogliesse la tensione che gravava nella stanza. Dio solo sapeva come avrebbe tentato di usarla! Gill smaniava per quella posizione dal momento in cui era arrivata, fresca di college, due anni prima.
«Grazie, Gill. Faccio da sola.»
Sorpresa, l’assistente lasciò l’ufficio.
«Prima non bevevi caffè. Ho sempre pensato che fosse molto buffo che una ragazza che voleva aprire un coffee-shop fosse la prima a non bere caffè.»
Eleanor si irrigidì. Sperava che sarebbero riusciti ad arrivare in fondo a quell’incontro senza far riferimento al passato, ma Jace sembrava avere intenzioni diverse. Parlava come se loro due avessero condiviso un’esperienza felice. Come se avessero condiviso qualcosa.
Una scintilla di rabbia le accese il corpo. Con che faccia osava comportarsi come se non fosse fuggito da lei proprio quando le cose andavano per il meglio? Come osava fingere che si fossero lasciati amichevolmente? Era andata al suo appartamento per scoprirlo vuoto. Se n’era andato. Aveva lasciato l’edificio, la città, il paese. E tutto senza dirle una parola.
Codardo!
«Adesso, invece, non posso proprio farne a meno. E il coffee-shop è diventato l’ultimo dei miei pensieri.» Gli allungò il caffè. Nero. Con due cucchiaini di zucchero. Come lo aveva sempre preso. Ricordava ancora perfettamente. Ricordava ancora di aver portato una caffettiera nel suo appartamento al college mentre lo rimpinzava con le paste e le torte che avrebbe venduto nella sua piccola pasticceria. Mentre gli raccontava i propri sogni.
Le aveva assicurato che era tutto delizioso. Ma aveva mentito su molte cose, come quando aveva affermato di amarla. Se così fosse stato, non sarebbe scappato.
Eleanor si versò il proprio caffè. Lo prendeva amaro, e ne beveva almeno tre tazze al giorno. La sua migliore amica Allie affermava che troppa caffeina non le facesse bene, ma lei aveva bisogno di una spinta. Specialmente in quel momento.
Tornò a voltarsi verso di lui. Stringeva ancora in mano la tazza, l’espressione cupa e leggermente severa. «Non era così che me lo ricordavo.»
Sconcertata, lei cercò i suoi occhi. «Come?»
«Non ti interessavano gli affari. Ricordi, Ellie?» La voce emerse in un dolce sussurro. «Volevi soltanto avere un posto in cui la gente potesse rilassarsi ed essere felice.» Lo disse con un sorriso, ed Eleanor poté solo ripensare a quando, e dove, lei stessa lo avesse detto. Nel letto di Jace, dopo aver fatto l’amore per la prima volta. Gli aveva confidato così tanti peccaminosi e patetici segreti. Regalato la propria vita, il cuore, e qualunque sogno avesse mai accarezzato. E cosa le aveva dato lui in cambio? Niente. Meno di niente.
«Sono certa che ricordiamo parecchie cose in modo diverso, Jace, e comunque ormai mi faccio chiamare Eleanor.»
«Dicevi di odiare quel nome.»
«È stato dieci anni fa, Jace. Dieci anni. Sono cambiata. Tu sei cambiato. Passaci sopra.»
Gli occhi di Jace si strinsero. «Oh, io ci sono passato sopra, Eleanor» affermò. «Sono decisamente passato oltre.»
Ma non sembrava credibile. Piuttosto appariva adirato, e questo rese Eleanor ancor più tesa nonostante tutte le intenzioni di mantenere il distacco. Non aveva alcun diritto di essere furioso. Eppure era lì, a comportarsi come se fosse stata lei a sbagliare. Ma in fondo era vero. Aveva commesso lo stupido, imperdonabile errore di rimanere accidentalmente incinta.
Jace la fissò, e sentì la rabbia invaderlo prima di deglutirla nuovamente. Arrabbiarsi non sarebbe servito a niente. Era in ritardo di dieci anni. Non voleva sentirsi adirato. Quell’emozione, adesso, lo faceva vergognare.
E tuttavia, si rese conto di voler sapere. Aveva bisogno di sapere cosa fosse successo a Eleanor negli ultimi dieci anni. Aveva tenuto il bambino? Ne aveva sposato il padre? Aveva avuto almeno un