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Il cervello affamato
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E-book470 pagine5 ore

Il cervello affamato

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Info su questo ebook

Come riconoscere i falsi stimoli del cervello e imparare a controllare la fame nervosa

Capire la nostra mente per mangiare meno

Perché mangiamo troppo? Cosa possiamo fare per sedare la nostra fame e per non rischiare di ingrassare? Il cervello affamato è il risultato di una ricerca che lo scienziato Stephan Guyenet ha compiuto a 360 gradi sul mondo dell’alimentazione e dell’obesità. Grazie a spiegazioni semplici e dirette, tabelle e grafici, il lettore entra a contatto con una materia che lo riguarda da vicino, incidendo sulla sua vita quotidiana. Nessuno, sostiene Guyenet, vuole cibarsi tanto e per tanti anni di seguito, con il rischio di incorrere in malattie cardiache, respiratorie, diabete… Il problema non è dunque una mancanza di volontà o l’ignoranza su come e cosa mangiare. Le nostre scelte alimentari sono sviate da circuiti istintivi cerebrali che seguono altre regole. Conoscerli non è impossibile, le neuroscienze ci vengono in aiuto. E per la prima volta un autore, che è anche un famoso blogger, presenta le sue tesi a un grande pubblico. Un viaggio nel corpo e nella mente umana che conquisterà tutti.

«Un libro essenziale per capire perché si mangia troppo.»
New York Times Book Review

«Un libro straordinario sui meccanismi che portano a mangiare a prescindere dallo stimolo della fame. Un testo di semplice lettura e autorevole al tempo stesso.»
Publishers Weekly
Stephan Guyenet
è un noto ricercatore americano. Ha conseguito una laurea in biochimica all’università della Virginia e un dottorato in neurobiologia all’università di Washington. Si occupa tra l’altro di obesità. Scrive per diverse riviste scientifiche e ha un suo blog di grande successo.
LinguaItaliano
Data di uscita13 feb 2017
ISBN9788822704931
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    Anteprima del libro

    Il cervello affamato - Stephan J. Guyenet

    1.

    L’uomo più grasso dell’isola

    Tarchiato ma non proprio obeso, e dotato di una notevole pancia, Yutala sarebbe stato un uomo dall’aspetto insignificante in varie zone del mondo¹. Non sarebbe spiccato per le strade di New York, Parigi, o Nairobi. Eppure su Kitava, la sua isola natale, al largo della costa della Nuova Guinea, Yutala era abbastanza insolito. Era l’uomo più grasso dell’isola².

    Nel 1990, il ricercatore Staffan Lindeberg viaggiò fino alla remota isola per studiare la dieta e la salute di una cultura a malapena toccata dall’industrializzazione. Anziché comprare il cibo nei supermercati o nei ristoranti come noi, i kitavani usavano poco più che bastoni da scavo per prendersi cura di orti che producevano yam, patate dolci, taro e tapioca. Pesce, cocco, frutta e verdure a foglia completavano la loro dieta. Ogni giorno facevano attività fisica e si alzavano con il sole. E non soffrivano di livelli rilevabili di obesità, diabete, infarto o ictus, perfino in età avanzata.

    Per quanto straordinario possa sembrare a una persona che vive in una moderna società aggredita da obesità e malattie croniche, è in realtà tipico delle società non industrializzate il vivere in modo simile a come avrebbero vissuto i nostri antenati. Queste società hanno i loro problemi di salute, come malattie infettive e incidenti, ma risultano particolarmente resistenti a quelli che nelle nazioni benestanti ci uccidono e fiaccano il nostro vigore.

    Come si è poi scoperto, Yutala non viveva a Kitava al tempo dello studio di Lindeberg; era solo in visita. Aveva lasciato l’isola quindici anni prima per diventare un uomo d’affari ad Alotau, una piccola città sull’estremità orientale di Papua Nuova Guinea. Quando Lindeberg lo esaminò, Yutala pesava quasi ventitré chili più dell’uomo medio di Kitava della sua stessa altezza e cinque chili più del secondo in graduatoria di peso³. Era straordinario anche per un altro aspetto: la sua pressione sanguigna era più alta di quella di qualunque altro kitavano esaminato da Lindeberg. Vivere in un contesto moderno aveva fatto sviluppare a Yutala un corpo moderno.

    Yutala è un segno degli effetti dell’industrializzazione sulla salute⁴. Il suo allontanamento da una dieta e da uno stile di vita tradizionali, e il conseguente aumento di peso, formano uno scenario che si è ripetuto in innumerevoli culture in tutto il mondo: inclusi la nostra cultura, le nostre famiglie e i nostri amici. Negli Stati Uniti, abbiamo un incredibile numero di informazioni sulla dieta, lo stile di vita e i cambiamenti di peso che hanno accompagnato questa transizione culturale. Questo ci fornirà indizi preziosi mentre cerchiamo di mettere insieme le ragioni per cui i nostri cervelli ci spingono a mangiare troppo, nonostante le nostre migliori intenzioni. Iniziamo esaminando come il nostro peso è cambiato nell’ultimo secolo.

    Il costo del progresso

    In Nuova Guinea, come in molti altri posti intorno al mondo, l’industrializzazione ha provocato un’esplosione di obesità e malattie croniche. Se volgiamo lo sguardo abbastanza indietro, possiamo osservare tracce dello stesso progresso avvenute negli Stati Uniti.

    Nel 1890, gli Stati Uniti erano un luogo profondamente diverso da quello che è oggi. Gli agricoltori erano il 43 per cento della forza lavoro, e più del 70 per cento dei mestieri implicavano il lavoro manuale. Frigoriferi, supermercati, cucine a gas ed elettriche, lavatrici, scale mobili e televisori non esistevano, e solo gli ingegneri e i ricchi eccentrici possedevano veicoli a motore. Ottenere e preparare del cibo richiedeva degli sforzi, e la vita stessa era un esercizio.

    Quanto era comune l’obesità fra i nostri antenati americani? Per scoprirlo, i ricercatori Lorens Helmchen e Max Henderson hanno esaminato con attenzione le cartelle cliniche di oltre dodicimila veterani bianchi della Guerra civile e hanno usato la misurazione della loro altezza e del loro peso per calcolare un numero chiamato indice di massa corporea (imc). Di base l’imc è la misura del peso corretto per l’altezza, in modo tale da poter confrontare il peso di persone di diversa statura. È una misurazione semplice usata comunemente per classificare le persone come magre, sovrappeso o obese (un imc inferiore a 25 è classificato come normopeso; da 25 a 29,9 indica sovrappeso, e da 30 in poi obesità). Quando Helmchen e Henderson hanno fatto i calcoli, hanno scoperto qualcosa di davvero notevole: prima dell’avvento del ventesimo secolo, meno di un uomo bianco di mezza età su diciassette era obeso.

    I ricercatori allora hanno calcolato l’incidenza dell’obesità nello stesso segmento di popolazione fra il 1999 e il 2000 usando dati dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (cdc) degli usa. Hanno scoperto che parte dal 24 per cento all’inizio della mezza età e sale bruscamente al 41 per cento con il raggiungimento dell’età pensionabile⁵. Un confronto diretto dei dati dal 1890 al 1900 e dal 1999 al 2000 produce un contrasto impressionante (vedi figura 1).

    Questo indica che l’obesità era molto meno comune negli Stati Uniti prima dell’inizio del ventesimo secolo, proprio come nelle società che ancora oggi vivono in modo tradizionale. Sebbene l’obesità sia esistita fra i più ricchi per migliaia di anni in tutta la storia umana – come dimostrato dalla corpulenta mummia di 3.500 anni fa della regina egizia Hatshepsut –, probabilmente non è mai stata così comune come oggi.

    Diamo un’occhiata da vicino all’ultima metà del secolo, perché quello è il momento in cui i nostri dati sono più affidabili, e durante il quale questi numeri sono cambiati in maniera davvero drammatica. Nel 1960, un adulto americano su sette era obeso. Nel 2010, quel numero era salito a uno ogni tre (vedi figura 2). L’incidenza di un’obesità estrema è aumentata in modo ancora più rilevante in quel periodo, da uno ogni 111 a uno ogni 17. Cosa inquietante, anche l’incidenza dell’obesità nei bambini è aumentata quasi cinque volte. La maggior parte di questi cambiamenti è avvenuta dopo il 1978, a una velocità vertiginosa.

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    Figura 1. Diffusione dell’obesità negli uomini bianchi americani, 1890-1900 e 1999-2000.

    Dati tratti da L.A. Helmchen R.M. Henderson, Changes in the distribution of body mass index of white us men, 1890-2000,

    in «Annals of Human Biology», vol. 31, 2004, p. 174.

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    Figura 2. Diffusione dell’obesità negli adulti americani fra i venti e settant’anni, 1960-2010. Corretto per età.

    Dati da sondaggi dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie nhes (National Health Examination Survey)

    e nhanes (National Health and Nutrition Examination Survey) dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie.

    Le istituzioni della sanità pubblica la chiamano epidemia di obesità, e sta avendo un profondo impatto sulla salute e sul benessere negli Stati Uniti e in tutto il mondo benestante. L’ultima ricerca suggerisce che potremmo stare seriamente sottostimando gli impatti dell’obesità sulla salute, dato che un terzo di tutti i decessi fra gli anziani americani è legato a un eccesso di peso. Il tasso di diabete sta avendo un’impennata, così come i problemi ortopedici causati dall’obesità. Quasi duecentomila americani ogni anno subiscono una riduzione o una deviazione chirurgica dell’apparato digerente. I vestiti sono disponibili in taglie sconcertanti, come la XXXXXXXXL.

    Perché siamo tanto più grassi di quanto non fossimo prima? La risposta si nasconde in quello che abbiamo mangiato e in come questo si relaziona al grasso che portiamo addosso, e la affronteremo a breve. Ma prima dobbiamo comprendere in che modo il cibo porta energia ai nostri corpi.

    Nascita della caloria

    Al contrario di quanto si pensi, il termine caloria non è stato inventato da SnackWell’s. In realtà, venne coniato agli inizi dell’Ottocento e fu usato dagli scienziati per misurare l’energia in tutte le sue differenti forme con lo stesso metro: sotto forma di calore, luce, movimento, o di energia potenziale contenuta nei legami chimici. Questi legami chimici si trovano nel pane, nella carne, nella birra, e nella maggior parte degli altri alimenti, che rilasciano la propria energia potenziale sotto forma di calore e luce quando bruciati, proprio come il legno o la benzina.

    Nel 1887 Wilbur Atwater, il padre della moderna scienza della nutrizione, descrisse come l’energia potenziale nel cibo sia il carburante del corpo umano:

    La stessa energia del sole è immagazzinata nelle proteine e nei grassi e nei carboidrati del cibo, e i medici oggi ci dicono come essa venga tramutata nel calore che scalda i nostri corpi e nella forza che usiamo per lavorare e per pensare.

    Riconoscendo nel potere dell’energia un modo per comprendere come funzionano i nostri corpi, il team di Atwater fu il primo a misurare in modo esaustivo il contenuto calorico dei differenti cibi bruciandoli nei suoi calorimetri misura-energia. Quando vedete un valore calorico sul lato della vostra scatola di cereali, è calcolato usando le formule che Atwater sviluppò misurando il contenuto calorico del cibo e tenendo poi conto delle complessità della digestione umana e del metabolismo⁶. (I valori in realtà sono in chilocalorie, o migliaia di calorie, il che talvolta è indicato scrivendo con l’iniziale maiuscola la parola Calorie, una convenzione iniziata da Atwater.)

    Atwater e i suoi colleghi costruirono anche un calorimetro gigante dove lavoravano per misurare la combustione del cibo da parte del corpo umano. Questo calorimetro era largo a sufficienza da fornire un discreto spazio vitale per esperimenti della durata di più giorni. Il sistema di Atwater era così efficace da riuscire a dimostrare con un’accuratezza superiore al 99 per cento che l’energia che entra in una persona di peso stabile sotto forma di cibo è uguale all’energia che rilascia il corpo. In altre parole, in una persona che non acquista né perde peso, il numero di calorie consumate è uguale al numero di calorie bruciate⁷.

    Questa affermazione può essere riformulata come l’equazione del bilancio energetico:

    variazione di energia nel corpo = energia in entrata – energia in uscita

    L’energia entra nel corpo sotto forma di cibo, e lo rilascia sotto forma di calore dopo che l’abbiamo usata per gestire il metabolismo, pompare sangue e respirare, digerire il cibo, e muovere i nostri corpi. La usiamo anche per costruire tessuti sottili, come muscoli e ossa, durante la crescita. Ogni energia rimasta in eccesso dopo che il corpo l’ha usata per quello di cui ha bisogno viene immagazzinata come grasso corporeo, chiamato tecnicamente tessuto adiposo. Il tessuto adiposo è il maggior sito d’immagazzinamento d’energia del corpo, e ha una capienza quasi illimitata. Quando mangiate più calorie di quelle che bruciate, le calorie in eccesso vengono subito spostate nel vostro tessuto adiposo. La vostra adiposità, o grasso corporeo, aumenta. È davvero semplice come sembra, sebbene – come vedremo negli ultimi capitoli – le implicazioni non siano così chiare come appaiono inizialmente.

    Atwater scoprì inoltre che l’energia chimica proveniente da diversi tipi di cibo, inclusi quelli ricchi di carboidrati, grassi, proteine e alcol, è effettivamente intercambiabile nel corpo: in parole povere, tutte le calorie sono uguali per quanto riguarda la fornace del corpo umano. Anche ricerche più recenti hanno avallato l’idea che la quantità di grassi, carboidrati e proteine negli alimenti abbia poca influenza sull’adiposità, al di là delle calorie che forniscono. Lo sappiamo perché, quando i ricercatori controllano rigorosamente l’apporto calorico totale, variando la quantità di grassi, carboidrati e proteine nella dieta, non si ha un impatto rilevante sull’adiposità: sia in un contesto di perdita di peso, che di mantenimento o aumento di peso. Questo rappresenta un colpo per il sentire comune secondo il quale alcuni nutrienti, come carboidrati e grassi, sono più ingrassanti di quanto suggerirebbe il loro contenuto calorico. In effetti, alcuni cibi sono più ingrassanti di altri, ma ciò sembra dipendere soprattutto dal fatto che ci convincono a ingerire più calorie, non perché abbiano un effetto particolare sul nostro tasso metabolico⁸.

    Tenendo questo a mente, possiamo adattare l’equazione del bilancio energetico per descrivere i cambiamenti a lungo termine nell’adiposità:

    variazione di adiposità = calorie alimentari in entrata – calorie alimentari in uscita

    Per ingrassare, dovete assumere più calorie, bruciare meno calorie, o fare entrambe le cose. Per perdere grasso, dovete assumere meno calorie, bruciare meno calorie, o fare entrambe le cose. È un concetto semplice, sebbene applicarlo alla perdita di peso possa essere sorprendentemente difficile, come molte persone sanno fin troppo bene.

    Se questo principio è vero, allora dovremmo aspettarci di vedere gli americani iniziare ad assumere più calorie, e/o bruciare meno calorie, mentre il nostro girovita si espande. Vediamo un po’.

    Calorie in entrata: come è cambiato il nostro apporto calorico

    Misurare l’apporto calorico di un intero Paese è un compito impegnativo. Eppure finora i ricercatori sono riusciti a farlo in tre modi differenti. Il primo è misurare la produzione di cibo, inserire nella somma la quantità che viene importata ed esportata, cercare di tenere conto della perdita causata dallo spreco di cibo, e vedere quante calorie sono rimaste per persona. Il secondo consiste semplicemente nel chiedere a un campione rappresentativo della popolazione cosa mangia e fare la somma delle calorie. Il terzo modo è modellare matematicamente la relazione fra peso corporeo e apporto calorico, e usare quel modello per calcolare la variazione nell’apporto calorico che dovrebbe essere necessaria per produrre l’aumento di peso che si è rilevato.

    Nella figura 3 ho disegnato un grafico con le stime dell’apporto calorico relative a tutti e tre i metodi. Come potete vedere, i metodi producono stime differenti, ma tutti concordano sul fatto che il nostro apporto calorico è aumentato sostanzialmente nell’arco di tempo in cui abbiamo acquisito peso più rapidamente (218-367 calorie in più al giorno fra il 1978 e il 2006). Il terzo metodo, messo a punto dal ricercatore dell’Istituto nazionale di sanità Kevin Hall ed evidenziato in nero nel grafico, è forse quello che più si avvicina a catturare il reale incremento dell’apporto calorico giornaliero nel corso dell’epidemia di obesità: 218 calorie. Il fatto notevole è che questo incremento è sufficiente da solo per spiegare l’epidemia di obesità che si è sviluppata nello stesso arco di tempo, senza dover invocare variazioni nell’attività fisica o in qualcos’altro.

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    Figura 3. Apporto calorico tra gli adulti americani, 1975-2006. I dati provengono da stime

    sulla disponibilità alimentare corrette con le perdite dell’Economic Research Service dell’usda,

    dai sondaggi dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie nhanes,

    e da K.D. Hall, J. Guo, M. Dore, C.C. Chow, «PLoS ONE» 4(11) (2009): e7940.

    Un ringraziamento particolare a Kevin Hall per aver fornito i dati grezzi.

    Ora potreste essere divenuti scettici. Un chilogrammo di grasso corporeo contiene circa 7.000 calorie, quindi se stiamo davvero mangiando 218 calorie in più al giorno, non dovremmo acquistare un chilo di grasso ogni sedici giorni – ventitré chili l’anno – e aver bisogno di un carrello elevatore per andare in giro dopo dieci o vent’anni? In realtà, nonostante la popolarità di questo tipo di calcoli a spanne fra i media cui si fa più comunemente riferimento, le istituzioni della sanità pubblica, i medici, e persino alcuni ricercatori, non è così che opera l’adiposità. Hall e i suoi colleghi hanno mostrato che questo modo di stimare le variazioni nell’adiposità è ben lontano dal cogliere il segno, e le conseguenze di questo errore hanno implicazioni importanti sul modo in cui pensiamo all’aumento o alla perdita di peso.

    Il problema principale di questo modo di pensare è che non tiene conto del fatto che, cambiando la corporatura, anche l’energia corporea ha bisogno di cambiare. Per illustrare il principio, pensate al vostro tessuto adiposo come a un conto in banca. Se partite con 10.000 dollari di risparmi, un reddito di 1.000 dollari al mese e spese del valore di 1.000 dollari al mese, in un anno il vostro conto conterrà ancora 10.000 dollari. Ora, immaginate di ottenere un aumento e le vostre entrate salgono a 2.000 dollari al mese. All’inizio, il vostro stile di vita resterà lo stesso e spenderete solo 1.000 dollari al mese, risparmiando gli altri 1.000. Ma gradualmente, inizierete a pensare che sarebbe carino avere quel nuovo computer o un bel paio di scarpe. Vi trasferirete in un appartamento più bello. Il vostro standard di vita salirà, e le vostre spese aumenteranno. Sei mesi dopo l’aumento, spenderete 1.500 dollari al mese, e dopo un anno tutti i 2.000 dollari. Nel corso di quest’anno, il vostro conto in banca ha accumulato denaro, ma a un tasso gradualmente lento, finché il risparmio si ferma quando le vostre spese non corrispondono alle entrate. Il vostro saldo si stabilizza sui 16.000 dollari, e vi resta fino a quando il vostro reddito o le vostre spese non cambieranno.

    Lo stesso accade con l’adiposità. Quando il vostro apporto calorico aumenta, il vostro peso corporeo aumenta, e questo tessuto extra brucia calorie⁹. In modo graduale, mentre il vostro corpo acquista volume, il vostro consumo calorico giunge a eguagliare l’apporto calorico in più, e voi raggiungete un nuovo equilibrio. Non ingerite più una quantità di calorie maggiore rispetto a quelle che bruciate: peso e adiposità si stabilizzano su un livello più alto. Lo stesso effetto avviene al contrario quando una persona riduce il proprio apporto calorico.

    Quali sono le implicazioni pratiche di questo? Una importante è che per aumentare – o perdere – peso occorre una variazione di apporto calorico maggiore di quanto le persone non immaginino. Fare piccoli cambiamenti nella propria dieta, come eliminare una fetta di pane al giorno, porterà a piccoli cambiamenti nell’adiposità che non continueranno ad accumularsi in modo indefinito. Il nuovo e dimostrato principio guida è che bisogna assumere dieci calorie in meno al giorno per ogni chilo che si vuole perdere. Eppure ci vogliono diversi anni per arrivare a un nuovo peso stabile, così molte persone preferiscono iniziare con un deficit calorico più ampio per raggiungere il loro obiettivo di perso più rapidamente e poi usare il principio guida delle dieci calorie per mantenere il minor peso raggiunto.

    Ciò offre una spiegazione parziale per la piaga che affligge ovunque chi si mette a dieta in modo coscienzioso: il temuto stallo di dimagrimento. Che avviene quando una persona riduce in modo diligente il proprio apporto calorico e riesce a perdere peso, ma il dimagrimento si ferma prima che abbia raggiunto il proprio obiettivo, anche se continua a seguire la dieta prima così fruttuosa. Questo fenomeno è reale, e la ricerca di Hall ne offre due spiegazioni. Innanzitutto, quando una persona dimagrisce, il suo corpo più piccolo ha bisogno di meno carburante, il deficit calorico si chiude in modo graduale, e la perdita di peso si blocca. In secondo luogo, il dimagrimento aumenta il suo appetito, rendendo difficile il mantenimento di quel deficit calorico (spiegherò perché ciò avviene nei prossimi capitoli). Per far ripartire il dimagrimento durante uno stallo, deve ristabilire un deficit calorico, anche se questo è più facile a dirsi che a farsi.

    Tre metodi indipendenti suggeriscono che il nostro apporto calorico sia aumentato in modo sostanziale nel corso dell’epidemia di obesità, e questo aumento è sufficiente per spiegare il peso che abbiamo acquisito. Per farla breve, siamo ingrassati perché abbiamo mangiato di più.

    Ora, facciamo un attimo un passo indietro. Ci siamo concentrati sulla storia recente perché è il lasso di tempo del quale abbiamo le informazioni più complete sull’adiposità. Ma che dire della prima metà del ventesimo secolo? Nella figura 4 ho riportato in un grafico il nostro apporto calorico nel corso dell’ultimo secolo, basato sui dati sul consumo di alimenti del Dipartimento dell’agricoltura usa (il secondo metodo per stimare l’apporto calorico). Questi dati sono grezzi, ma servono per illustrare tendenze più ampie nel tempo¹⁰.

    Come potete vedere, abbiamo mangiato più calorie nel 1909 che nel 1960. Eppure, per quanto ne sappiamo, non c’era un’epidemia di obesità nel 1909. Perché no?

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    Figura 4. Apporto calorico negli Stati Uniti per persona, al giorno, 1909-2009.

    Basato su stime dell’Economic Research Service dell’usda. Il calcolo era derivato dai dati

    della disponibilità di nutrienti sommando le calorie da proteine, carboidrati e grassi.

    I dati sono stati adeguati per lo spreco a un tasso fisso del 28,8 per cento, e a un meccanismo

    che nel 1999-2000 è stato la conseguenza di un cambiamento nel metodo di valutazione usato per gli oli liquidi.

    Calorie in uscita: come è cambiata la nostra attività fisica

    Questo ci porta al secondo fattore determinante dell’adiposità: la quantità di energia che il corpo rilascia. A prescindere dalla gestione del metabolismo, dal pompare sangue e aria, e dal digerire cibo, un’altra cosa importante che facciamo con l’energia è contrarre i nostri muscoli per poter camminare, togliere le erbacce dalle nostre coltivazioni, imballare il fieno, mungere le nostre mucche, impastare i biscotti, lavare il bucato a mano, e assemblare componenti in una fabbrica. È evidente che eravamo molto più abituati a fare queste cose un secolo fa che non oggi. In altre parole, mangiavamo tanto perché avevamo bisogno dell’energia necessaria per alimentare il nostro livello relativamente alto di attività fisica.

    Questo è un punto cruciale. Nel 1909 il nostro alto apporto calorico era appropriato per il numero di calorie necessarie. Quando il nostro stile di vita ha iniziato a meccanizzarsi sempre di più, nel corso della successiva metà del secolo, l’attività fisica si è ridotta in modo sostanziale. Pochissimi di noi lavoravano nei campi con aratri e zappe, e molti invece sedevano dietro un volante, come dimostrato dal massiccio aumento nelle registrazioni delle automobili mostrato nella figura 5. Fino al 1913, meno di un americano su cento possedeva un’auto. Oggi, ci sono otto automobili ogni dieci americani.

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    Figura 5. Registrazioni delle automobili negli Stati Uniti ogni mille persone, 1900-2010. Dati del Dipartimento dell’energia usa.

    Mentre diventavamo una nazione più sedentaria, l’apporto calorico diminuiva in modo appropriato fino a circa il 1960. Le persone avevano meno appetito, e quindi mangiavano di meno.

    Poi, intorno al 1978, qualcosa è cambiato: abbiamo iniziato ad assumere molte più calorie: e il nostro apporto calorico ha continuato ad aumentare nei vent’anni successivi, raggiungendo livelli senza precedenti nella storia. Eppure siamo rimasti sedentari. Il tasso di obesità è salito così rapidamente che le autorità della sanità pubblica non hanno compreso quello che stava accadendo fino a che non siamo stati investiti da un’epidemia.

    Una nazione senza equilibrio

    Quando il dispendio di calorie decresce e l’apporto calorico aumenta, l’equazione del bilancio energetico lascia un unico possibile risultato: un aumento di grasso. Siamo ingrassati perché abbiamo assunto più calorie di quelle di cui avevamo bisogno per restare magri, dato il nostro livello di attività fisica. In altre parole, abbiamo mangiato troppo.

    Per la maggior parte della storia umana, inclusa la maggior parte del ventesimo secolo negli Stati Uniti, quasi tutti sono stati più o meno capaci di far combaciare il loro apporto calorico con il loro fabbisogno calorico senza neppure pensarci. Eppure da allora, misteriosamente, qualcosa ha fatto sì che il nostro apporto calorico si dissociasse dalle nostre reali esigenze. Qualcosa ci ha spinto a mangiare troppo.

    Che cosa? Se riuscissimo a rispondere a questa domanda, ci metteremmo nella condizione di fare qualcosa a riguardo. Iniziamo a rispondere ponendo un’altra domanda: qual è il modo più efficace per causare la sovralimentazione?

    Uno strano trucco per far ingozzare un topo

    La ricerca sull’obesità ha una lunga, ricca storia di roditori fatti ingrassare in nome della scienza. Negli anni Settanta, gli studiosi erano alla ricerca di un metodo migliore per far ingrassare i loro ratti, così da poter studiare lo sviluppo e gli effetti dell’obesità in modo più efficiente. All’inizio, i ricercatori aggiungevano semplicemente grassi al cibo standard del roditore. Questo funzionava, ma spesso ci volevano mesi per produrre un ratto corpulento, rendendo la ricerca sull’obesità nei roditori un’impresa onerosa e che portava via molto tempo.

    Un fatidico giorno, quando Anthony Sclafani, oggi direttore del Laboratorio sul comportamento alimentare e sulla nutrizione del Brooklyn College, era un dottorando, gli accadde di mettere un ratto su un tavolo da laboratorio dove un collega aveva lasciato una ciotola di cereali Froot Loops. Il ratto si avvicinò e iniziò a mangiarli di gusto. Fu sorprendente perché è tipico dei ratti essere cauti con i cibi che non conoscono. Guardando il ratto divorare con voracità un cibo umano, a Sclafani venne in mente che gli alimenti in commercio per le persone potessero essere più ingrassanti di quelli ricchi di grasso per roditori che lui stava usando al momento.

    Per vedere se riusciva a trovare un modo più veloce ed efficace per far ingrassare i ratti, Sclafani andò al supermercato e comprò vari tipi di cibi appetitosi da supermercato densi di calorie, inclusi i Froot Loops, latte condensato dolcificato, biscotti con gocce di cioccolato, salame, formaggio, banane, marshmallows, cioccolato al latte e burro di arachidi. Quando Sclafani pose questi alimenti nelle gabbie dei ratti, insieme al mangime standard obbligatorio per roditori e all’acqua, i ratti si fiondarono immediatamente sui cibi umani, perdendo interesse per il loro noioso mangime. Con questa dieta, ingrassarono a un ritmo senza precedenti. Nel giro di poche settimane, i ratti erano obesi, e né l’esercizio né un ambiente reso più stimolante furono in grado di prevenirlo (sebbene l’esercizio attenuasse il fenomeno). Sclafani la chiamò la dieta del supermercato, anche se oggi la maggior parte degli studiosi la chiamano la dieta del self-service.

    Lo studio di Sclafani venne pubblicato nel 1976, e a oggi la dieta del self-service resta il modo più efficace per spingere un ratto o un topo di normali dimensioni a sovralimentarsi: ben più efficace delle diete semplicemente ricche di grassi e/o zuccheri.

    Ciò ci porta a una conclusione inquietante: il cibo appetitoso degli esseri umani è il modo più efficace per spingere un normale ratto a sovralimentarsi volontariamente e diventare obeso, e il suo effetto ingrassante non può essere attribuito solo al suo contenuto di grassi o zuccheri. Se ciò è vero, allora cosa fa questo tipo di alimenti agli esseri umani?

    Uno strano trucco per far ingozzare un uomo

    All’inizio degli anni Novanta Eric Ravussin, attuale direttore del Nutrition Obesity Research Center presso il Pennington Biomedical Research Center di Baton Rouge, e la sua squadra stavano cercando un modo migliore per misurare le calorie e l’assunzione di nutrienti negli esseri umani. Ciò si è rivelato un compito sorprendentemente difficile. All’epoca, diversi studi avevano riportato che gli obesi mangiavano lo stesso numero di calorie dei magri, portando alcuni ricercatori a interrogarsi sul ruolo dell’apporto calorico nell’obesità. Il tranello era che i dati erano tutti di auto-valutazione. In altre parole, i ricercatori avevano chiesto alle persone di descrivere quello che avevano mangiato e poi avevano sommato le calorie risultanti. Questo metodo ha i suoi vantaggi; in particolare, fornisce uno spaccato di quello che le persone mangiano quotidianamente.

    Ha anche degli svantaggi, diventati evidenti quando gli studiosi hanno iniziato a usare metodi più accurati per misurare l’apporto calorico. Questi esperimenti indicavano che le persone che soffrivano di obesità assumevano di regola più calorie di quelle magre, tenendo conto di altezza, genere e attività fisica svolta (come spiegato in precedenza, il fatto che dovessero assumere più calorie per mantenere il peso è dovuto alla loro massa tissutale più ampia). Ciò suggeriva che i dati di auto-valutazione dell’apporto calorico fossero sbagliati in modo molto fuorviante. Oggi sappiamo da una varietà di elementi a sostegno di tale ipotesi che questo è esattamente il caso: le persone non sono notoriamente brave a descrivere quello che mangiano, e soprattutto quanto mangiano. Ravussin sapeva di non poter usare questo metodo se voleva risultati più accurati.

    Un approccio più rigoroso consiste nel chiudere delle persone dentro una struttura di ricerca chiamata camera metabolica e alimentarle con una dieta attentamente controllata, nella quale ogni morso è quantificato con precisione dai ricercatori. Si tratta di un modo estremamente accurato di misurare l’assunzione di cibo, ma anche innaturale. La gente non sceglie cosa mangiare, quindi il cibo assunto potrebbe non riflettere le normali abitudini alimentari. I risultati di questi studi sono molto affidabili, ma potrebbero mancare di validità nel mondo reale.

    Ravussin e il suo team volevano un metodo intermedio, che avesse l’accuratezza della camera metabolica ma permettesse alle persone di selezionare la propria dieta, replicando la vita di tutti i giorni nel modo più verosimile possibile. La loro soluzione fu quella di installare enormi distributori automatici U-Select-It 3007 dentro una camera metabolica, ciascuno contente una varietà di pietanze, merendine e bibite. Gli alimenti inseriti nei distributori non erano scelti a caso – «Stavamo analizzando quello che piaceva e non piaceva alla gente», spiega Ravussin – ed erano stati inclusi solo quelli invitanti. L’offerta comprendeva cose come toast alla francese e salsicce con sciroppo, pasticcio di pollo, budini cioccolato e vaniglia Jell-O, cheesecake, nachos al formaggio Doritos, le M&M’s, la Shasta cola, e qualche mela per gli invasati della salute (niente Froot Loops, purtroppo): in altre parole, gli alimenti umani più appetitosi simili a quelli usati da Sclafani nel suo studio sui topi. Dieci volontari uomini vennero chiusi nella camera metabolica con i distributori automatici per sette giorni, con la libertà di selezionare quando e cosa mangiare. Per monitorare la loro assunzione di cibo, ognuno doveva inserire un codice identificativo per ritirare il cibo e riportare tutti gli alimenti non consumati al team di ricerca affinché li pesassero.

    L’esperimento fu un successo: la squadra di Ravussin fu in grado di misurare con accuratezza l’assunzione di cibo nelle persone che lo selezionavano da sole, facendo allo stesso tempo una serie di altre misurazioni informative sul metabolismo. Eppure nel corso dello studio, apparve chiaramente a Ravussin un elemento importante: i volontari si stavano davvero ingozzando. «Quelle persone in media stavano mangiando quasi il doppio del loro fabbisogno», ricorda. Per essere precisi, i volontari

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