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Cesare Borgia. Il principe in maschera nera
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E-book584 pagine7 ore

Cesare Borgia. Il principe in maschera nera

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Info su questo ebook

Pochi personaggi hanno impresso il loro marchio sul Rinascimento italiano quanto Cesare Borgia, detto il Valentino.
Con gli eccessi e le contraddizioni, la vivida intelligenza e la sfrenata ambizione, la mancanza di scrupoli e la sensibilità artistica e culturale che lo hanno caratterizzato, il figlio di papa Alessandro VI ha polarizzato su di sé l’attenzione dei suoi contemporanei e dei posteri, assurgendo a simbolo di un’epoca di forti contrasti. Un’epoca che ha prodotto, accanto a ricche espressioni artistiche, efferatezze di ogni sorta, guerre e saccheggi che hanno reso la penisola terra di conquista e campo di battaglia tra potenze italiche e straniere. Figlio di un pontefice, cardinale adolescente, giovane condottiero, forse assassino del fratello, smodato negli appetiti e megalomane nella visione, Cesare Borgia ha sempre offerto ampi spunti a storici e romanzieri per descrivere, attraverso la sua breve ma spettacolare carriera, un’età dalle tinte davvero forti.

L’uomo-principe che la Storia ha reso un’anima eternamente dannata 

La vita sanguinaria e dissoluta di Cesare Borgia, detto il Valentino, tra vizi, efferatezze e sfrenata ambizione

Tra i grandi momenti raccontati:

• I Borgia e le loro origini
• Il giovane cardinale col cuore di un guerriero
• L’intricata situazione politica italiana alla fine del Quattrocento
• Gli intrighi familiari dei Borgia
• Gli amori di Cesare
• Le campagne militari
• L’incontro con Niccolò Machiavelli e Leonardo da Vinci
• Il complotto dei principi e la vendetta
• La caduta e il ritorno nella terra degli avi
• Dietro la maschera e il mito
Andrea Antonioli
è un archeologo, uno storico e un museologo romagnolo, esperto di etruscologia e civiltà protostoriche. Ha condotto ricerche specifiche sul Medioevo e sul Rinascimento e ha progettato e coordinato l’allestimento del Museo Renzi, del quale è direttore, e organizza e cura mostre, convegni ed eventi culturali. Collabora con importanti istituzioni culturali ed è autore e curatore di articoli, guide e saggi, tra cui: Gli Etruschi in Romagna (2006), Alle origini della civiltà etrusca (2009), Ramberto Malatesta. Mente sublime & Anima oscura (2014), Il Museo e Biblioteca Don Francesco Renzi. Storia personaggi avvenimenti (2015), Garibaldi nelle terre del Rubicone (2016), Una rosa per Anita. Il tributo della Romagna ad Anita Garibaldi (2017), Da Palladio al Palladianesimo. Architettura d’imitazione tra Uso e Rubicone (2018). Con la Newton ha già pubblicato Il secolo d’oro del Rinascimento.
LinguaItaliano
Data di uscita5 set 2018
ISBN9788822725127
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    Anteprima del libro

    Cesare Borgia. Il principe in maschera nera - andrea antonioli

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    Prefazione

    Introduzione

    Parte prima

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    Parte seconda

    9

    10

    11

    12

    13

    14

    15

    16

    17

    18

    19

    20

    21

    Parte terza

    22

    23

    24

    25

    26

    Epilogo

    Appendici

    Genealogia di Cesare Borgia

    Le conquiste di Cesare Borgia

    Cronologia

    Bibliografia e testi di riferimento

    Illustrazioni

    Tavole fuori testo

    em

    575

    Prima edizione ebook: settembre 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2512-7

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Andrea Antonioli

    Cesare Borgia

    Il principe in maschera nera

    omino

    Newton Compton editori

    Prefazione

    «Il nome Borgia è sinonimo di tradimento, intrigo e corruzione in Vaticano, che era il centro del mondo durante il Rinascimento». Con queste parole la casa produttrice americana Netflix pubblicizzò l’uscita di una serie di successo, durata tre stagioni, che romanzava le vicende della famiglia Borgia (The Borgias, 2011-2013). Non si trattava della prima serie televisiva dedicata a questa famiglia, perché gli americani erano stati preceduti dagli inglesi trent’anni prima (I Borgia, 1981); senza dimenticare che il videogioco Assassin’s Creed ruota attorno alle vicende di questa famiglia e in particolare di Rodrigo Borgia, papa Alessandro vi.

    Tutti i componenti della famiglia Borgia, infatti, erano caratterizzati da un desiderio di primeggiare, unito a un’audacia e a una mancanza di scrupoli, che li resero speciali, se non unici, anche nel panorama delle potenti ed eccentriche famiglie aristocratiche europee del Rinascimento. Di origini aragonesi, essi si erano ambientati molto bene in Italia e in particolare a Roma, dove il cardinale Alfonso Borgia si era trasferito in seguito all’elezione al soglio pontificio, con il nome di Callisto iii, nel 1455. Nonostante l’età avanzata (fu papa per tre anni), Alfonso inaugurò una politica nepotistica e di potenza che avrebbe caratterizzato tutta la famiglia: egli nominò cardinale il proprio nipote Rodrigo, che nel 1492 fu eletto papa e prese il nome di Alessandro vi. Andrea Antonioli mostra molto bene come la triste fama di Alessandro vi, e dell’intera famiglia, debba molto a ragioni politiche e alla rivalità durissima con altre potenti dinastie come i Della Rovere. Tuttavia, la vita dissoluta di Alessandro vi, il suo interesse per il potere più che per la fede, i numerosi figli illegittimi oltre ai quattro riconosciuti con Vannozza Cattanei (tra cui Cesare e Lucrezia), contribuirono a rendere credibili le accuse di incesto, simonia, corruzione e omicidio tramite avvelenamento mosse contro il pontefice e la sua famiglia.

    Dei figli di papa Alessandro vi, Cesare e Lucrezia sono i più celebri e quelli che hanno avuto la vita più romanzesca, e romanzata. Antonioli ha scelto di studiare la famiglia Borgia incentrando la propria analisi su Cesare, detto il Valentino. Si tratta di una scelta felice per un duplice ordine di motivi. Innanzitutto, perché su di lui possediamo le informazioni storiche più precise, trasmesse da una notevole quantità di fonti. In secondo luogo, ma più importante, perché già nella sua epoca il Valentino incarnava la figura del principe nuovo, per usare l’espressione di Machiavelli, e più in generale identificava sotto molti aspetti l’uomo rinascimentale. Quell’uomo artefice del proprio destino che si situa al centro del mondo ed è unico tra le creature, per riprendere Giovanni Pico della Mirandola, in quanto ha la capacità di innalzarsi quasi all’altezza di Dio o di sprofondare nell’abisso della bestialità. Cesare Borgia fu capace di fare entrambe le cose, dimostrando straordinarie capacità come uomo politico e come condottiero ma rivelando anche una bassezza morale che sembrava inattingibile.

    L’ammirazione di Machiavelli certamente ha contribuito alla sua fama. All’epoca delle imprese del Valentino in terra di Romagna, e poi nelle Marche e in Umbria, Machiavelli era segretario della repubblica fiorentina ed ebbe modo di conoscerlo e osservarlo da vicino. Egli rimase impressionato dalla combinazione di grandezza di ideazione, efficacia nell’esecuzione, risoluzione, audacia e mancanza di scrupoli dimostrate dal Valentino. La sua figura ispirò alcune delle pagine letterariamente più raffinate del Principe, specialmente dove Machiavelli mostra la sua maestria della lingua italiana nell’affastellare aggettivi di significato opposto per descrivere la duplice e controversa personalità del Valentino. Ma non solo. Il Valentino assurge nell’opera machiavelliana a un ruolo sovra-storico, prototipico, perché simboleggia lo scontro tra le due forze che sono alla base di ogni grande evento umano – la virtù e la fortuna. Un tema, il rapporto tra virtù e fortuna, sul quale Machiavelli si è arrovellato per tutta la vita, dai giovanili Capitolo di Fortuna e Ghiribizzi al Soderino (entrambi del 1506) passando per i Discorsi (1513-1518) e l’Arte della guerra (1521) fino alle Istorie fiorentine (1525), e sul quale fatica a dire l’ultima parola. Emblematica di questa difficoltà è proprio la trattazione di Cesare Borgia nel Principe, che occupa buona parte del capitolo 7. Tutto il capitolo, intitolato De’ principati nuovi, che con forza d’altri e per fortuna si acquistano, è costellato da inconciliabili contraddizioni. Inizialmente Cesare Borgia è accostato, per contrasto, a Francesco Sforza, il quale divenne duca di Milano grazie alle proprie qualità e con grandi sforzi, ma non faticò poi a mantenere il potere acquisito. Il Valentino invece ottenne il potere facilmente grazie alla fortuna, rappresentata dal padre, ma altrettanto rapidamente lo perse: in una frase, «acquistò lo stato con la fortuna del padre, e con quella lo perdette, non ostante che per lui si usasse ogni opera, e facesse tutte quelle cose che per un prudente e virtuoso uomo si dovevano fare». Sembra chiaro che il Valentino adoperò tutta la propria virtù per consolidare quel potere ottenuto con la fortuna, ma questa lo soverchiò ugualmente: una prova del potere superiore della fortuna, che in Machiavelli rappresenta tutto ciò che è al di là del potere e del controllo dell’uomo, rispetto alla virtù umana.

    In tutto il capitolo 7 Machiavelli insiste nel suo elogio del Valentino: è lui l’esempio che ogni principe nuovo deve proporsi di imitare. E se alla fine egli fallì, questo fu dovuto a «una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna». Le imprese del Valentino vengono passate rapidamente in rassegna ed elogiate o, in ogni caso, ammirate per la loro audacia. Perfino l’uccisione del luogotenente Remirro dell’Orco, fatto trovare squartato sulla piazza di Cesena per placare la rabbia dei romagnoli verso i suoi modi inumani, viene preso come esempio di gesto teatrale che lascia i cittadini «soddisfatti e stupiti». Il Valentino esemplifica perfettamente quella commistione di bontà (politica) e cattiveria (morale) che sono necessarie al principe per creare o mantenere lo Stato secondo Machiavelli: «Ed era nel duca tanta ferocia e tanta virtù» – commenta Machiavelli in maniera volutamente ossimorica. Infatti, per fare «gran cose», il principe deve unire l’amore per il bene comune della città con la capacità di sporcarsi le mani; deve «non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato» (Principe 18). Cesare Borgia, secondo Machiavelli, aveva compreso che la politica è una cosa seria e che essa richiede all’uomo di Stato che ama la propria patria perfino il sacrificio dell’anima.

    Dopo aver passato in rassegna le gesta del Valentino, Machiavelli conclude che se egli non avesse avuto la sventura di essere gravemente malato quando il padre morì, sarebbe riuscito a mantenere il proprio Stato. Esaminando le sue azioni, quindi, non saprebbe come criticarlo; anzi, si sentirebbe di proporlo come esempio a tutti i principi nuovi. Eppure, la sconcertante conclusione di Machiavelli è che il Valentino sbagliò nel consentire che un Della Rovere, nemico giurato dei Borgia, diventasse papa: si fidò della parola di Giulio ii, dimenticando che un beneficio recente non cancella i torti del passato e che gli uomini mantengono la parola solo quando è loro conveniente: «Errò adunque lo duca in questa elezione, e fu cagione dell’ultima ruina sua» – conclude Machiavelli. La fine del Valentino e dello Stato da lui creato non fu pertanto determinata dalla (cattiva) fortuna, quanto piuttosto dal suo errore di valutazione, dalla sua scelta sbagliata. In conclusione, Cesare Borgia esemplifica perfettamente la, forse incoerente, convinzione di Machiavelli che la virtù abbia un potere superiore alla fortuna e che gli esseri umani siano in ultima analisi artefici del proprio destino, nonostante ciò che la fortuna, il parametro oscuro della storia, mette in campo.

    Andrea Antonioli ha fatto un eccellente lavoro nel presentarci un personaggio a tutto tondo, andando oltre l’icastica rappresentazione machiavelliana. Egli è in grado di trasmettere in ogni pagina il suo amore per la Storia, ci presenta sia i grandi affreschi sia i dettagli pittoreschi, segue il suo personaggio nella sua vita convulsa e indaga le motivazioni nella sua mente. Così facendo ci fa assaporare la vita nell’Italia rinascimentale e ci rivela la complessità della politica (ma anche della morale e della religione) dell’epoca. Infine, dietro al Valentino ci fa scorgere un nuovo tipo umano, l’uomo del Rinascimento, l’individuo protagonista dei successivi quattro secoli di storia europea celebrato da Burkhardt.

    Giovanni Giorgini*

    * Giovanni Giorgini è professore di Filosofia della politica all’Università di Bologna e Visiting Professor of Political Theory alla Princeton University. È Life Member del Clare Hall College, Cambridge. È stato Visiting Professor in diverse università italiane e straniere, tra cui Pittsburgh, Chicago, Columbia, Bolzano e imt-Lucca. È autore di La città e il tiranno. Il concetto di tirannide nella Grecia del vii-iv secolo a.C. (1993), Liberalismi eretici (1999) e I doni di Pandora. Filosofia, politica e storia nella Grecia antica (2002). Ha curato, con Elena Irrera, The Roots of Respect (2017). Ha pubblicato inoltre una traduzione, con note e introduzione, del Politico di Platone (2005), numerosi saggi in diverse lingue su riviste specialistiche, traduzioni e voci di enciclopedie.

    Introduzione

    L’aspirante principe

    Quella di Cesare Borgia è una figura storica che nei secoli successivi alla sua epopea ha lasciato di sé un’immagine cupa e tenebrosa, suscitando sempre grande fascino nella gente comune e negli studiosi che se ne sono di volta in volta occupati. La sua fama è legata al fatto di far parte di una famiglia ricordata per l’astuzia nel trarre benefici dal potere, ma anche per la crudeltà e la lascivia, in verità fomentate talvolta dalla leggenda e altre volte connotate da fascino e meraviglia.

    Anche i contemporanei nutrivano un’attrazione ambigua per questo personaggio, la cui vita viene considerata generalmente un esempio e un modello di azione e di condotta spregiudicata. Il duca Valentino – l’altro appellativo con cui è universalmente conosciuto – è un caso più unico che raro nella storia della cristianità: un giovane cardinale destinato alle più alte cariche di Santa Romana Chiesa che decide di abbandonare il galero rosso che un giorno forse lo condurrà al pontificato, per abbracciare la carriera delle armi e aspirare così a diventare principe e, persino, assurgere all’autorità suprema di un sovrano. Dunque è una figura dal significato ambivalente, dove il potere religioso si compenetra ambiguamente con quello secolare.

    Non è quindi un caso che l’immaginario collettivo abbia finito coll’assumere Cesare Borgia come simbolo del cinico conseguimento dei propri obiettivi politici e personali e ciò si deve in primo luogo a Niccolò Machiavelli, che in alcuni suoi testi ha voluto prendere in considerazione le esperienze politiche e militari del Valentino, per fissare nella sua opera più conosciuta il prototipo del perfetto principe e, per estensione, dell’efficiente uomo di Stato:

    Raccolte io adunque tutte le azioni del duca, non saprei riprenderlo; anzi mi pare, come ho fatto, di preporlo imitabile a tutti coloro che per fortuna e con l’arme d’altri sono ascesi allo imperio. Perché lui avendo l’animo grande, e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimenti […] Chi adunque iudica necessario nel suo principato nuovo assicurarsi de’ nimici, guadagnarsi delli amici, vincere o per forza o per fraude, farsi amare e temere da’ populi, seguire e riverire da’ soldati, spegnere quelli che ti possono o debbono offendere, innovare con nuovi modi gli ordini antichi, essere severo e grato, magnanimo e liberale, spegnere la milizia infidele, creare della nuova, mantenere l’amicizie de’ re e de’ principi, in modo che ti abbino a beneficare con grazia o offendere con respetto, non può trovare e’ più freschi esempli, che le azioni di costui (N. Machiavelli, Il Principe, Cap. vii).

    In questo brano si esaurisce in maniera sapiente e precisa il modo (o, per meglio dire, gli ingredienti) per governare uno Stato; tale assunto trova la sua giustificazione o la sua consacrazione nell’ultimo capitolo dell’opera del grande statista fiorentino quando Cesare Borgia viene precisato come lo spiraculo che induce a iudicare ch’è’ fussi ordinato da Dio per la sua redenzione, ossia la liberazione e, ancor più, l’unificazione dell’Italia.

    Pur riconoscendone limiti umani e mancanze nelle visioni di lungo corso, lo statista fiorentino riconosce in lui caratteri di grande innovazione per quel particolare periodo di grande intrigo politico attraversato dagli Stati italiani negli ultimi anni del xv secolo e nei primi del xvi, bene interpretato da Giuseppe Prezzolini quando scrisse: «L’Italia, bellissima e nuda, coperta d’un velo ricamato magnificamente, aspettava sul letto, come una cortigiana, il più forte o il più ricco che venisse a prenderla o a comprarla».

    Nonostante Machiavelli conoscesse personalmente Cesare Borgia, il suo celebre trattato non è da considerarsi una biografia a lui dedicata, anche se l’identificazione del suo principe ideale è ben chiara e risaputa:

    Non esito mai di menzionare Cesare Borgia e i meriti delle sue azioni […] Riassumendo tutte le azioni del duca, non potrei rimproverarlo; piuttosto egli mi apparve un esempio […] Il duca Valentino è un uomo, di cui azioni imiterei dappertutto, se io fossi un principe.

    È tale l’immagine di un signore che deve imporre col potere e senza troppi scrupoli i suoi fini, se vuole realizzare i propri alti ideali di politica tra gli uomini che Machiavelli comunque considerava corrotti. La fama del grande e crudele generale Cesare Borgia non è mai riuscita a liberarsi di quel concetto machiavellico tramandato attraverso la letteratura. È in questo modo che egli è divenuto esempio del machiavellismo e paradigma dell’uomo politico che si pone l’obiettivo dell’unificazione nazionale e la cui crudeltà viene legittimata dalla necessità di fondare un proprio Stato, fine ultimo di ogni sua azione da far valere su tutto.

    Efferatezza nel dare attuazione ai piani politici, velocità di esecuzione, crudele lucidità sono le prerogative attraverso le quali il duca Valentino riuscì a esprimere la modernità e la rottura con gli schemi della superata politica del pieno Quattrocento. È in questo senso che egli incarna l’essenza del Rinascimento, la caparbietà di spingersi all’estremo, in un’epoca in cui l’uomo si poneva al centro dell’universo, un cosmo tutto terreno e nel quale volontariamente si negava ogni forma di trascendenza.

    Era il momento dell’imposizione del nuovo, dell’incedere impetuoso di una rivoluzione antropocentrica, supremamente individualistica, pur non essendo sottovalutata la misteriosa forza del destino, la fortuna. Per questo motivo il Machiavelli separava la politica dalla morale; quel che contava erano soltanto i risultati conseguiti sul terreno, ossia nel concreto. Ma ciò aggravava l’egoismo, la violenza, l’ambizione più sfrenata, la gioia sconfinata. Lorenzo il Magnifico l’aveva puntualizzato nei suoi celebri versi: «Chi vuol esser lieto sia: di doman con c’è certezza!». Ecco dunque l’avvento della liberalizzazione dell’agire umano, nel bene e nel male. Davanti a Dio non bisognava rendere nulla di fronte ai diritti della vita umana che veniva al primo posto. Nessun timore verso il soprannaturale e verso l’aldilà: dunque per Cesare potevano esistere soltanto conti da regolare con altri uomini e soltanto sulla Terra.

    L’essere per sua natura un condottiero colmo di pragmatismo e il più possibile alla larga dalle illusioni lo spingeva a conquistare territori, in primo luogo per annetterli agevolmente allo Stato Pontificio grazie al fatto che suo padre Alessandro vi ne era il principe; poi per crearsi un suo regno, a prescindere dal fatto che esso dovesse chiamarsi o no Italia, anche se ciò non può che far parte dell’idea geopolitica che Cesare concepiva nel suo io, un elemento d’interesse che lascia nel dubbio se egli intendesse applicare i suoi concetti in questo senso.

    Soprattutto nel campo militare egli fu un grande innovatore, più pratico che teorico, che continuò a fare la guerra per quei motivi politici che risultavano ormai superati, a partire dalla quarantennale situazione di equilibrio inaugurata dalla lontana pace di Lodi del 1454, ovvero nel tentativo di rinvigorire e rafforzare un’Italia, quella delle signorie e dei principati, che andava inesorabilmente scomparendo. Egli fu il protagonista delle fasi iniziali delle cosiddette horrende guerre d’Italia, alle quali avrebbero preso parte a più riprese tutte le maggiori potenze europee entro un arco di tempo lunghissimo (1494-1559) e che avrebbero sancito la nascita della guerra moderna.

    Durante gli anni da capitano generale e gonfaloniere della Chiesa egli fu abile a rivelarsi un principe del mutamento: trasformò il suo esercito, inizialmente prestatogli dal re di Francia, e lo rese un precursore di quella che è stata definita rivoluzione militare che prese le mosse nel xvi secolo. Durante i pochi anni vissuti sulla breccia, Cesare dimostrò davvero di aver recepito e attuato i principali cambiamenti nell’arte della guerra dovuti alla comparsa sui campi di battaglia delle armi da fuoco, ma anche di saper mettere in atto lungimiranti e vasti piani di fortificazione anche grazie all’ausilio del più grande ingegnere del tempo: Leonardo da Vinci.

    La sua aspirazione rimase sempre quella di ritagliarsi uno Stato nell’Italia centrale e, anche quando tutto sembrava irrimediabilmente perduto, il sogno della Romagna rimase sempre vivo nella sua mente e nella sua anima e del resto gli stessi romagnoli si sentivano amati da Cesare. Secondo Machiavelli la caduta di Cesare va ascritta alla morte del padre, poiché proprio in quanto figlio di un papa, egli non ebbe alcuna possibilità di garantire il suo potere allo stesso modo degli altri principi, i quali invece ereditavano i frutti della politica dei padri attraverso la successione nobiliare. Purtroppo il suo progetto trovava dei limiti ben definiti: del resto la sua sarebbe stata una conquista sotto l’egida della Chiesa oppure una sete di conquista da parte di una famiglia straniera e, quindi, destinata in ogni caso all’insuccesso.

    Ma nonostante questi punti di debolezza, il Borgia è riuscito a impugnare lo scettro dell’immortalità, da non cogliere tuttavia nel suo vasto progetto politico, equiparabile in ogni caso a quello di un vero principe monarchico dell’Europa del tempo, bensì nella sua stessa impetuosa gioventù, spesa nel perseguire e guadagnare la gloria personale. È innegabile ravvisare nella parabola politica e militare di Cesare un’ombrosa grandezza che sfuggì a tutti i suoi contemporanei, alleati o nemici che fossero. I suoi stessi motti, come il celeberrimo Aut Caesar aut nihil, dimostrano una volontà tutta protesa all’impegno totalizzante nell’agone politico, che nell’Italia dei piccoli potentati e dei prodi condottieri sempre in cerca di nuove condotte si pone come novità in senso assoluto. Dunque il Valentino ebbe il grande merito di riuscire a detenere il primato sugli altri attori politici contemporanei e poco importa che la sua esperienza politica e militare si sarebbe consumata in appena quattro anni. È straordinario notare come nella sua figura, futuro e passato abbiano finito col fondersi mirabilmente, perché Cesare fu un politico conservatore e un militare progressista. La sua fu una meteora che, tuttavia, era destinata a lasciare un segno profondo nel panorama politico italiano, anche se la sua lezione non servì a nulla, perché nessuno fu in grado di emularne le gesta.

    Non mancano le testimonianze e le affermazioni fatte dai contemporanei di Cesare, il più delle volte obiettive, aspre e negative, anche se talvolta avvedute e positive, ma in ogni caso si tratta pur sempre di testimonianze, spaccati di un vissuto sempre sulla cresta dell’onda, che fanno comprendere tutta la forza e il carisma di un personaggio unico, uno dei pochissimi di questa epoca a rimanere freddo e determinato in ogni situazione oggettiva o contingente che la vita gli poneva innanzi, come se lo scopo fosse racchiuso in un’eterna sfida universale, nei confronti di tutto e di tutti e del destino stesso.

    Ecco allora che riuscire in qualche modo a comprendere, o anche solo a seguire i moventi e gli obiettivi del Borgia, e farlo attraverso la condotta discutibile e lo sguardo ermetico e disinteressato da protagonista qual è, assume una connotazione sorprendente e suggestiva, diversa se si vuole. L’intreccio dei fatti al cospetto della sua figura e delle sue azioni si schiude a fatica perché l’atmosfera stessa che lo avvolge e in cui agisce è insondabile e misteriosa e ciò è dovuto alla sua impenetrabile corazza psicologica; così, i personaggi che si muovono e che ruotano intorno a lui, compreso il padre pontefice, assumono la fisionomia di caricature.

    Ma proprio questo è il punto, e quando si prova a indossare le vesti degli uomini d’armi e dei protagonisti, par quasi di sentirsi osservati, di avvertire gli occhi del Valentino addosso, come se lui considerasse tutti – monarchi, statisti, principi e capitani – pezzi da gioco, non più che alfieri o torri da sacrificare; con lui primattore di una scena che sarebbe rimasta sempre e solo sua fino a quando avesse avuto il potere o la forza di muoverli a suo piacimento sullo scacchiere. Perché effettivamente fu così: da quando i suoi piani diventarono certezze, nel 1497, fino alla morte, tutto fu vissuto con una straordinaria intensità nonostante la straordinaria complicanza. Alla pari di Alessandro il Macedone, ebbe dalla sua l’eroica sorte di consumare troppo in fretta la fiammella della propria vita, nel volgere di pochi anni e anche troppo febbrilmente, una marcia violenta e ardua, comunque sia inarrestabile. Fu in questo modo che Cesare consumò la sua giovane esistenza, sempre in cavalleria, sempre lì davanti, sempre e comunque pronto all’azione.

    Così, da Machiavelli in poi, passando per Burckhardt e Nietzsche, Cesare Borgia incarna l’uomo che vive al di là del bene e del male, il politico dalla visione spietata e senza scrupoli, un principe depositario di un’etica che si impone sulla deteriore morale classica. Dunque è lui l’uomo del cambiamento, nella vita dei suoi contemporanei, protagonista dirompente del suo tempo, emblema del desiderio di gloria; non è più l’immobile icona del passato, bensì un uomo proiettato verso il futuro, pronto a ogni azione che possa condurre al perseguimento di un obiettivo nobile e concreto. In lui tutto sembra echeggiare ante litteram il Manifesto dei Futuristi di Filippo Tommaso Marinetti.

    Di recente Patrick Boucheron ha espresso che «Leonardo da Vinci aveva avuto ragione a dipingere il Valentino in movimento. Non di fronte, non di profilo, non di tre quarti, ma girandogli attorno senza fissare l’inafferrabile, lasciando aperto il flusso, in un’immagine che si avvicina e si allontana», proprio come avrebbe fatto nel ritrarre Monna Lisa. Cesare risulta dunque «troppo diverso e troppo rapido per restare nel campo», continua il Boucheron usando il gergo cinematografico, «devia il corso della storia e fuoriesce dalla cornice che la rende intelligibile e prevedibile».

    Questo è il punto di vista dell’artista e dello scienziato, che riflesso in un’idea e, concettualmente, nel pensiero machiavellico, si pone né come un modello né come una minaccia; è prima di tutto un fatto da concepire, un’esperienza travolgente che crea una rottura e fa clamore, e finisce coll’insinuare il timore. L’opera di Cesare è dunque l’aver creato un solco profondo nella Storia, come Leonardo lo fece nell’Arte e il Machiavelli nel Pensiero, per giungere al punto del non ritorno. Ecco allora, è per questo motivo che si avverte l’esigenza di indagare nelle vicende che lo videro protagonista con la veste ecclesiastica e da cardinale, come lo si desidera per quelle che lo contraddistinsero come condottiero e principe.

    Sarà dunque interessante sapere cosa di lui dicevano o scrivevano gli amici e i nemici, in virtù dei suoi spostamenti, delle sue scelte, dei suoi amori, dei suoi eccessi, delle lotte coi tori in piazza o delle feste di carnevale o nei palazzi, quando improvvisamente entrava con la sua maschera per stupire, per ammaliare, per inquietare i suoi ammiratori e far innamorare le dame delle corti di mezza Europa; lui di sangue misto italiano e spagnolo, lui pupillo del re di Francia, lui figlio del papa ed esponente di punta della sua famiglia.

    Il fatto è che i Borgia – e non bisogna dimenticarlo – erano una gens, ossia un vero e proprio gruppo parentale e per loro la famiglia veniva prima di tutto! A Roma li chiamavano i catalani ed erano odiati perché stranieri e per i loro complotti e il loro sfrenato nepotismo, a partire da Callisto iii (Alfonso Borgia) fino ad arrivare ad Alessandro vi (Rodrigo Borgia). Con loro si faceva spazio pericolosamente un modo del tutto personale di intendere la fede e la morale: non più una visione teocratica, ma laica e spregiudicata.

    La storia di Cesare si lega inscindibilmente alla cerchia familiare di cui faceva parte. Le lettere, le cronache, gli scritti del periodo del potere borgiano, da qualunque parte si vogliano leggere, vanno interpretati con grande cautela in quanto dettati da sentimenti opposti: da una parte odio, paura e rancori; dall’altra sentimenti di adulazione e di esaltazione cortigianesca.

    Bisogna infine sottolineare come i Borgia da ormai cinquecento anni occupino un posto importante non solo nella storia, ma altresì nella letteratura europea, anche se a questo proposito occorre fare una distinzione: in Italia e Spagna, cioè nei due paesi che li riguardano più da vicino, esiste una quantità notevole di letteratura storico-scientifica che riguarda il loro rapporto con la Chiesa e con la politica, mentre nei paesi del Nord Europa viene dato più spazio a opere di carattere letterario, che riguardano l’aspetto didascalico e leggendario che caratterizza questa famiglia; il che lascia trasparire anche l’alone di mistero attorno alla figura di Cesare. Certamente la sua epopea è molto considerata sotto entrambi i punti di vista: si pensi all’importanza politica e militare, alla sua posizione di ambiguità rispetto alla Chiesa che in accostamento al padre gli conferisce un aspetto demoniaco, e poi il fascino dell’aspetto legato all’erotismo che lo pone accanto alla sorella Lucrezia come un vero e proprio strumento sensuale che risulti tornare sempre e in qualsiasi modo utile alla famiglia, alla gens insomma.

    Parte prima

    I. Un futuro da pontefice

    ill-001

    1

    Alle origini dei Borgia

    Quando Cesare nacque, nell’anno 1475, la sua famiglia, proveniente dalla Spagna, aveva già attecchito saldamente in Italia. Le origini dei Borgia vanno infatti ricercate nelle terre sconfinate della penisola iberica, ancor prima che la sua discendenza trovasse un’immensa fortuna, che vestisse gli abiti di un’immortale celebrità, lasciando di sé un’impronta profonda e indelebile nella storia e nella memoria delle genti italiane come in quelle dell’intera Europa.

    I progenitori di Cesare, per parte di padre, erano originari di Játiva presso Valencia, una piccola città abitata da gente di sangue misto spagnolo e arabo che sorge all’incrocio delle vallate fertili della Vega e del Bixquert, su un colle pietroso e caratterizzato da case basse e bianche, piccole piazze e la vecchia collegiata basilica di Santa Maria, piena di ricordi e di doni di Callisto iii, il primo papa della stirpe borgiana, che qui aprì gli occhi; e intorno all’abitato si dispiegano la mole cupa del castello moresco e il grande massiccio del Bernisa di pietra fulva.

    Borja è un nome che appare diffuso già nella prima metà del xii secolo nel territorio di Valencia, un cognome espresso in molteplici forme ortografiche in vari documenti, anche della Catalogna, una terra da sempre pervasa da una fiera autonomia del proprio spirito e della propria identità. Valencia nel xv secolo era una delle più floride città commerciali della penisola iberica, forse ancor più che Barcellona. Durante l’età dei Borja registrò un grande progresso economico e politico ponendosi al centro delle rotte internazionali tra Mediterraneo e Atlantico, tra Nord Europa e Maghreb; quindi diventò il cardine di un’intensa attività mercantile e assunse sempre più un carattere cosmopolita con i suoi settantamila abitanti tra cui italiani, francesi, castigliani, granadini, nordafricani, orientali, tedeschi e portoghesi.

    La maggior parte degli esponenti dei Borja, che appartenevano alla piccola nobiltà o alla classe dei cavalieri, era però originaria dell’Aragona e faceva riferimento in particolar modo alla cittadina di Borja. In origine si trattava di Bursao, un’antica città romana degli Iberi, e furono i saraceni a conquistarla e a fortificarla, cambiandole il nome.

    Così, il cognome dei Borja, come quello di tanti altri conquistatori, doveva corrispondere al toponimo del luogo di nascita o di provenienza della maggior parte delle famiglie che lo possedevano. In lingua araba Borja sta a significare letteralmente torre del castello, anche se la traduzione in valenciano corrisponde ai nomi bo (bove) e orja (orzo). In ogni caso il significato arabo costituisce una prova indiretta della scelta dello stemma di cui molti Borja si fregiavano come emblema o blasone del loro rango che avevano tratto proprio dalla cittadina aragonese: uno stemma con un castello a tre torri sulla sinistra, probabilmente ispirato al termine arabo borg, cioè torre e, sulla destra, un bue passante verso sinistra in oro con sonaglio d’argento su campo verde. E il toro rosso contornato di verde su campo d’oro sarebbe stato il simbolo araldico adottato dalla nobiltà valenciana dei Borja.

    Attorno al 1500, fu elaborata una genealogia che presentava i Borgia papali discendenti del conte Pedro de Atarés (Petrus Taresa nei documenti del xii secolo), cui Alfonso i d’Aragona detto il Battagliero nel 1121 aveva concesso in feudo la cittadina di Borja, dopo averla strappata ai musulmani. Si affermava che don Pedro fosse pretendente al trono d’Aragona dopo la morte di Alfonso, quale procedente per via illegittima da re Ramiro i.

    Ma l’assonanza tra questa stirpe e quella di Cesare pare non avere alcuna corrispondenza se si presta fede agli ultimi sviluppi degli studi, poiché è stato dimostrato che il celeberrimo don Pedro Taresa morì senza successione. Nel Cinquecento inoltrato si tentò pure di fare riferimento a un Fortuny de Borja, il cui nome risultava registrato in documenti di Játiva negli anni 1277-1278, discendente diretto di un Fortun de Borja, aragonese, supposto discendente di don Pedro, che le ricerche hanno invece meglio identificato come Fortun de Vega.

    Assai nota è pure la saga degli otto Borja, che nel 1238 al servizio di Giacomo i d’Aragona detto el Conquistador rivestirono un ruolo di primo piano nel liberare il regno di Valencia e la Catalogna dai mori infedeli. Erano una vera squadra, assai compatta, capeggiata da un certo Estebán; l’appellativo col quale venivano chiamati prima dell’arrivo a Játiva andò disperso. Come premio la munificenza regale volle inscrivere questi Borja nell’ordine dei Cavalieri del Conquisto e assegnare loro altre terre in dono e l’ampio territorio circostante. A Estebán toccò Játiva o Xàtiva, la romana Sae Tibis, dove egli prese dimora e dove nacquero e si plasmarono quasi tutti i figli e la discendenza della famiglia sino a Rodrigo.

    Fu da quel momento che i Borja adottarono come stemma il bue pascolante, poi sostituito con un toro aureolato da otto covoni, emblema – come scrissero Ludwig Pastor e alcuni altri – «della forza, della sensualità e della perfidia di questa famiglia». Alla loro casata era intitolata la piazza della città dove si ergeva l’edificio nel quale abitavano e che tutti chiamavano palazzo Borja. Se non altro ciò dimostra che già nel xii secolo tale toponimo era diventato patronimico nell’alta vallata aragonese del fiume Ebro e che in seguito si sarebbe esteso ad altre regioni di quel regno e del vicino regno di Navarra.

    Ai Borja piacque sempre, soprattutto ai membri italianizzati della famiglia, credersi di sangue romano, derivati dallo stesso Giulio Cesare quando fu questore della penisola iberica. Ma si può affermare con relativa certezza che più che sangue romano era sangue arabo e catalano quello che scorreva nelle vene di tutti i Borgia, «un sangue ardente sognante ed amaro», lo definì il Gurrieri, «come il sole il cielo ed il mare di quel golfo del Leone in cui si protende quasi con voluttà inesprimibile Valencia e Játiva».

    Nel corso dei secoli questa famiglia dal sangue caliente generò uomini di guerra e di governo, che assunsero una posizione di spicco come autorevoli personaggi provinciali assai stimati nelle corti di Castiglia e d’Aragona. Erano assai attivi e vivaci, legati fra di loro da vincoli che solo le tribù familiari rette dagli antichi patres familias potevano avere. Si sposavano spesso tra parenti, quando non si imparentavano nobilmente, per dare splendore al proprio nome come avevano fatto aprendo la loro casa a Sibila de Oms di sangue d’Aragona.

    Nel xv secolo Valencia e Játiva erano le città spagnole dove più frequentemente ci si poteva imbattere in esponenti dei Borja, fossero essi cavalieri o milites oppure commercianti, locandieri o tintori e addirittura proprietari di bordelli. Cercando nei registri non è per niente facile risalire al ramo della famiglia dei papi Callisto iii (Alfonso) e Alessandro vi (Rodrigo), rispettivamente zio e padre di Cesare Borgia, la stessa del toro pascente che campeggia negli stemmi scolpiti su tanti monumenti di Roma, che sono riusciti a porsi come il simbolo della forza e della sensualità e con un vigore tale da riuscire a consegnare alla storia un santo, due papi, nove cardinali, otto duchi e Lucrezia, una donna tra le più celebri del Rinascimento e della storia.

    I documenti attestanti i primi punti fermi dei numerosi alberi genealogici dei Borja, che consentono di risalire con certezza alle famiglie dei pontefici, sono stati rinvenuti effettivamente a Játiva in Domingo, che fu contadino, e Francina de Borja, genitori di un solo figlio maschio, Alfonso, che, come si vedrà, fu il vero artefice della vasta fortuna della propria schiatta. Assai frequente è il nome di Rodrigo, come anche quello di Gonçalo, molto diffusi fra la nobiltà aragonese e in verità assai rari in Catalogna; ciò che fa ritenere che i Borja di Játiva provenissero – come si è detto – dal regno di Aragona.

    Con Alfonso, alcuni decenni prima della nascita di Cesare (1475) e del pontificato del padre di questi, Rodrigo (1492-1503), i Borja posero le fondamenta della scalata; la loro fu una vita drammaticamente e intensamente vissuta tra Valencia e Roma, tra la Spagna e l’Italia, un’esistenza condotta sempre a ridosso del confine tra la storia e la leggenda, tra la limpidezza della religione e l’oscurità delle passioni e dell’avidità, della sete di potere.

    Alfonso Borgia – nome italianizzato di Alfons de Borja y Cabanilles – era nato a Játiva il 31 dicembre 1378, dopo quattro femmine (Isabel, Juana, Catalina e Francesca), tra le quali la prima sarebbe stata la madre di Rodrigo e, quindi, la nonna di Cesare. Alfonso aveva seguito subito la vocazione ecclesiastica, scegliendo lo studio della giurisprudenza e appassionandosi alle sottili formule del diritto canonico ed ecclesiastico di cui fu ottimo interprete acquistando una notevole fama. Non godeva però di una buona salute e aveva pochi amici ma anche pochi nemici e non fu mai coinvolto in scandali. Alla corte del re Alfonso v d’Aragona, di cui era stato segretario e consigliere, fu in grado di risolvere spinose controversie secolari ed ecclesiastiche. Fu proprio lui a convincere l’antipapa Clemente viii a rinunciare alla tiara, guadagnandosi così il vescovado di Valencia nel 1429.

    Quando il re si stabilì a Napoli nel 1442, il Borgia venne incaricato di riorganizzare il sistema giudiziario del regno e divenne anche presidente del Consiglio Regio dal 1442 al 1444, anno in cui fu creato cardinale presbitero nel concistoro del 2 maggio, facendo il proprio ingresso formale a Roma il 12 luglio di quello stesso anno; contestualmente ricevette il titolo cardinalizio dei Santi Quattro Coronati. Quindi prese residenza stabile nell’Urbe, in un palazzo presso il Colosseo, preferendo abbandonare i propri incarichi alla corte aragonese per porsi al servizio della Chiesa.

    Alfonso condusse così una vita austera e assai morigerata fino all’elezione al soglio pontificio, avvenuta in età molto avanzata, a settantasette anni suonati, l’8 aprile 1455. A dir la verità il nuovo pontefice, che assunse il nome di Callisto iii, fu scelto come candidato di compromesso, dal momento che il cardinale favorito, Giorgio Bessarione, era greco, mentre l’altro era legato ai Colonna, famiglia rivale degli agguerriti Orsini; inoltre l’età avanzata del Borgia faceva pensare a un pontificato di breve durata e comunque di transizione, in attesa di nuovi giochi di alleanze nell’ambito del Sacro Collegio.

    Tuttavia la sua elezione non piacque né ai romani, né agli italiani che temevano un’altra Avignone, anche se stavolta in terra spagnola. Callisto si guardò bene dal trasferire fuori dei suoi naturali confini la sede del papato, limitandosi a spalancare le porte del Vaticano ai propri connazionali che a migliaia sciamarono a Roma dalla Catalogna. Fu un’invasione senza precedenti, che rese il vecchio pontefice assai impopolare. I nuovi venuti si impadronirono di tutte, o quasi, le leve del potere e, finché visse il loro grande protettore, fecero il buono e il cattivo tempo.

    I più favoriti furono i suoi parenti e, fra costoro, i due nipoti maschi, figli di due sorelle che in giovane età passarono sotto la sua diretta tutela: Luigi Giovanni de Mila, vescovo di Segorbe, e Rodrigo Borgia. Appena eletto, Callisto spedì il primo a governare Bologna, dove già risiedeva il secondo che vi stava compiendo gli studi; poi, l’anno successivo, li insignì entrambi del galero. Nel 1457 nominò Rodrigo vicecancelliere, la seconda carica dopo quella pontificia e, in aggiunta, capo dell’esercito, scelte che fecero gridare allo scandalo da parte del cardinale Domenico Capranica; ma il papa non si scompose affatto, tant’è vero che molti dubitarono che egli potesse ubbidire alla vera fede in Dio.

    Il sogno di Callisto era però quello di riconquistare Costantinopoli attraverso una crociata, cacciare i turchi dall’Europa e liberare il Levante dalle loro flotte. Per compiere l’impresa egli stanziò seicentomila ducati, lasciati da Niccolò v, e duecentomila attinti dal suo patrimonio personale appellandosi al re di Francia e all’imperatore affinché unissero le loro armi alle sue; l’indugiare di questi ultimi lo indusse a provarci da solo ma capì di non poter raggiungere l’impresa di sconfiggere un nemico come quello ottomano senza l’aiuto, promesso e mai concesso, dei principi cristiani.

    Ancor meno felice fu la sua politica interna. Il tentativo di spodestare il nuovo re di Napoli Ferrante d’Aragona, cui aveva negato ogni legittimità, e di sostituirlo col nipote Pietro Luigi era destinato a fallire. La bolla con cui il pontefice tentò di annettersi il regno di Napoli fu vanificata da Francesco Sforza e Cosimo de’ Medici, che riconobbero la sovranità aragonese.

    A indebolire la posizione di Callisto iii furono anche gli innumerevoli acciacchi, i quali l’affliggevano al punto che più di una volta si sparse la notizia della sua morte, voce che i catalani si affrettavano a smentire per paura di rappresaglie. Quando, la sera del 6 agosto 1458, essa risultò fondata, l’Urbe piombò nel caos. I nemici del Borgia, capeggiati dagli Orsini, si lanciarono alla caccia degli spagnoli e quelli che non riuscirono a fuggire furono trucidati. Pietro Luigi morì solo un mese e mezzo dopo la morte di Callisto, mentre fuggiva dalla furia dei romani contro i catalani per rifugiarsi a Valencia.

    Fu allora che cominciò a emergere la figura del giovane Rodrigo, nipote del papa appena scomparso, che fu coinvolto in prima persona in quell’ambiente già così tanto ostile alla sua famiglia e ai suoi conterranei, ma soprattutto a lui che in Vaticano, agli occhi di tutti, appariva come il prodotto di un nepotismo ostentato e corrotto. Ma il giovane Borgia era un combattente per natura, moderato e al tempo stesso autorevole, brillante e portato al ragionamento che lo rendeva affabile e ben considerato e rispettato dai suoi colleghi.

    Rodrigo era figlio di Goffredo (Jofré Llançol i Escrivà) e della moglie aragonese e lontana cugina Isabel de Borja y Cavanilles; era valenciano anche se aveva aperto gli occhi per la prima volta a Játiva, proprio

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