L'offerta del milionario: Harmony Collezione
Di Helen Brooks
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Info su questo ebook
Dalla Grecia agli Stati Uniti, dall'Italia all'Inghilterra, innamorarsi di un milionario non è poi così difficile. Ma riuscire a rapirne il cuore non è un'impresa da tutti.
Marianne Carr ha appena scoperto non solo che l'unica cosa che erediterà dal padre è la dimora di famiglia, ma anche che, a causa dei debiti contratti dal genitore, sarà comunque necessario venderla. Uno spiraglio di luce arriva dalla proposta di Rafe Steed, ricco e sexy imprenditore alberghiero. Trasformare la sua amata casa in un albergo non è certo ciò che Marianne sognava, ma sa di non essere nelle condizioni di poter scegliere. Nemmeno di fronte al dubbio che la proposta di Rafe nasconda un doppio fine.
Helen Brooks
Helen è nata e cresciuta in Nuova Zelanda. Amante della lettura e dotata di grande fantasia, ha iniziato a scrivere storie sin dall'adolescenza. A ventun anni, insieme a un'amica, partì in nave per un lungo viaggio in Australia, che da Auckland l'avrebbe condotta a Melbourne.
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Anteprima del libro
L'offerta del milionario - Helen Brooks
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
Ruthless Tycoon, Innocent Wife
Harlequin Mills & Boon Modern Romance
© 2008 Helen Brooks
Traduzione di Fabio Pacini
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Enterprises II B.V. / S.à.r.l Luxembourg.
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
Harmony è un marchio registrato di proprietà
Harlequin Mondadori S.p.A. All Rights Reserved.
© 2009 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-5891-279-9
www.eHarmony.it
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1
Ancora qualche ora e se ne sarebbero andati via tutti. Poteva farcela. Doveva farcela. Era ciò che i suoi genitori si sarebbero aspettati da lei. Le sembrava quasi di sentire la voce di sua madre - calda, dolce, incoraggiante - che diceva: «Forza, Annie, tesoro, tieni duro». Erano quelle le parole che di solito usava per esortarla, quando cercava di eludere un compito sgradevole.
Marianne Carr trasse un profondo respiro e raddrizzò le spalle. Guardandosi nello specchio della camera da letto, si accertò che l’ultima crisi di pianto non avesse lasciato tracce prima di uscire nel corridoio. Mentre scendeva l’ampia scalinata, vide alcune persone ferme nell’atrio, ma la maggior parte degli ospiti era radunata nel salotto. Data l’occasione, tutti parlavano in tono sommesso.
Crystal, la vecchia governante di sua madre che era con la famiglia da sempre, le venne incontro ai piedi della scale. Aveva gli occhi rossi e la voce tremula quando le chiese: «Devo invitarli a trasferirsi in sala da pranzo? È tutto pronto».
Marianne annuì, ma prima che l’altra si allontanasse l’abbracciò, mormorando: «Grazie, Crystal, non sarei mai riuscita ad affrontare questa giornata senza il tuo aiuto».
La donna si morse le labbra, sforzandosi di mantenere il controllo delle emozioni. «Come avrei potuto aiutarti? Una parte di me è ancora convinta che rientreranno da un momento all’altro.»
«Ti capisco. Anch’io non riesco a capacitarmi che sia successo davvero.» Era stata Crystal ad aprire la porta ai poliziotti venuti ad annunciare che i suoi genitori erano rimasti coinvolti in un incidente stradale. Le aveva telefonato subito, e lei si era messa in viaggio nel giro di cinque minuti. Aveva guidato da Londra alla Cornovaglia in stato di shock, pregando di non arrivare troppo tardi. Crystal le aveva detto che suo padre era deceduto sul colpo, ma che la madre lottava ancora tra la vita e la morte.
Quando era arrivata all’ospedale, sua madre era riuscita a dire che suo padre era collassato sul volante e che la macchina era andata fuori strada, schiantandosi contro un albero. Marianne aveva avuto solo pochi, preziosi istanti con la madre, che era stata anche la sua migliore amica e confidente. Pochi, preziosi istanti che dovevano bastarle per il resto dei suoi giorni.
L’autopsia aveva rivelato che suo padre era rimasto vittima di un infarto fulminante, il che significava che probabilmente era morto prima dell’impatto con l’albero. Era stata proprio una sfortuna che si fosse trovato alla guida, in quel momento.
Riscuotendosi dai ricordi, Marianne si accorse che l’anziana governante si stava asciugando gli occhi con il fazzoletto. «Rimani qui. Farò io l’annuncio.»
«No, no. Spetta a me» protestò Crystal, tirando su col naso. «Se tu riesci a tenere la schiena diritta, devo farlo anch’io.»
Le due donne si guardarono, traendo forza dall’immenso dolore che le accomunava, e dopo una manciata di secondi Crystal si allontanò.
Marianne lanciò un’occhiata all’orologio che i suoi genitori le avevano regalato sei anni prima, nel giorno del suo ventunesimo compleanno. L’una e venti. A Dio piacendo, l’assemblea di parenti e amici si sarebbe sciolta entro le quattro. Mentre si avvicinava alle porte del salotto, udì la voce di Tom Blackthorn e lo cercò con lo sguardo. L’avvocato, grande amico di suo padre, era intento a parlare con un uomo alto e prestante, lo stesso al quale si era accompagnato durante il servizio funebre in chiesa. Tom le aveva chiesto il permesso di fermarsi dopo la partenza degli altri, in modo da poterle leggere il testamento dei suoi genitori. Lei aveva acconsentito, pur sapendo che non si sarebbe limitato a quello. Tom si sarebbe sentito in dovere di farle notare che una proprietà grande e complessa come Seacrest era troppo impegnativa da gestire per una persona della sua età, ragione per cui sarebbe stato più saggio venderla.
Lei non gli avrebbe dato retta. Al pari di suo padre e suo nonno, aveva Seacrest nel sangue. Erano passati centocinquant’anni da quando il nonno di suo nonno aveva costruito l’imponente casa di pietra sulla cima della scogliera, e da allora c’era sempre stato un Carr ad abitarla. Forse Marianne l’aveva ereditata troppo presto, ma questo non le avrebbe impedito di fare quanto era in suo potere per conservarla. Era parte integrante della sua identità.
«Ah, Annie.» Tom la conosceva sin da bambina e, quando le mise un braccio sulle spalle, attirandola a sé, lei fu costretta a serrare la mascella per non scoppiare a piangere. «Lascia che ti presenti il figlio di un amico di tuo padre. Rafe Steed, Marianne Carr.»
La battaglia interiore che aveva combattuto per tenere a bada il dolore durante il funerale aveva reso Marianne indifferente a tutto ciò che la circondava. Ora, per la prima volta in quel giorno, osservò l’uomo che era rimasto accanto a Tom sia in chiesa sia al cimitero, vedendolo come una persona, e non come una sagoma vestita di nero in mezzo a tante altre uguali.
Il cortese lieta di conoscerla, che le affiorò sulle labbra non venne mai pronunciato. Lui era alto - molto alto - e largo in proporzione. Non sorrideva. Non che quello fosse il momento adatto per sorridere, però qualcosa nei suoi penetranti occhi azzurri la mise in guardia. Dopo quella che le parve un’eternità, il signor Steed disse: «Le porgo le condoglianze da parte di mio padre, signorina Carr. Vive negli Stati Uniti e la cattiva salute gli ha impedito di affrontare le fatiche del viaggio, però ci teneva a tributare il suo omaggio ai defunti».
La sua voce scivolò sui nervi scoperti di Marianne come acqua gelata. Sebbene liquida e profonda, aveva la durezza dell’acciaio.
Ipnotizzata più dalla sua freddezza che dalla sua prestanza fisica o dal ruvido fascino virile dei suoi lineamenti, Marianne mormorò un debole: «Grazie».
Non ricordava che i suoi genitori le avessero mai parlato di qualcuno che rispondeva al nome di Steed. Come mai quel vecchio amico che viveva sull’altra sponda dell’oceano aveva sentito la necessità di farsi rappresentare dal figlio? Le sembrava un po’ strano. «Mio padre era amico del suo?» chiese con una certa cautela. «Scusi se glielo domando, ma il nome non mi dice niente.»
«Non occorre che si scusi. È normale che sia così, date le circostanze.» Nonostante l’apparenza rilassata, il corpo di quell’uomo emanava un’energia che impressionò Marianne. «I nostri padri sono cresciuti insieme, finché, verso i vent’anni, il mio non è emigrato in America» confermò.
Parlava con il tipico accento americano che stregava le platee dei cinema di mezzo mondo, e lei ne subì il fascino, anche se era chiaro che, per qualche oscura ragione, quello sconosciuto la detestava. L’ostilità era evidente nei suoi modi, nell’inespressività del suo visto, nel gelo dei suoi occhi.
«Capisco.» In realtà era una bugia, ma non aveva importanza, perché il dolore che l’opprimeva aveva il sopravvento su tutto. «Ringrazi suo padre da parte mia. Mi auguro che si rimetta presto.»
«Mio padre sta morendo, signorina Carr» replicò lui. «A poco a poco, ma ormai non gli resta molto da vivere.»
Lo disse senza tradire la benché minima emozione, e Marianne lo fissò senza sapere come reagire. Per fortuna Tom Blackthorn andò in suo soccorso. «Sono molto dispiaciuto di apprenderlo, Rafe. Perché non me l’hai detto prima? Da giovani abbiamo trascorso tanti bei momenti insieme... tuo padre, quello di Annie, e io. Ci chiamavano I Tre Moschettieri.»
Ci fu una pausa durante la quale Rafe Steed continuò a fissare Marianne come se avesse intenzione di ignorare l’intervento di Tom. Poi, infine, con grande sollievo dell’interessata, si voltò dalla sua parte.
«Sì, l’ho sentito raccontare» replicò in tono accuratamente neutro.
Che individuo detestabile! Marianne non riusciva a credere che qualcuno potesse intervenire a un funerale e trattare con tanta scortesia la figlia dei defunti. Ergendosi in tutto il suo metro e sessantacinque di altezza - il che disgraziatamente la lasciava ancora una trentina di centimetri più in basso del suo interlocutore - e cercando di imitare la sua freddezza, dichiarò: «La prego di scusarmi, signor Steed, ma adesso devo dedicarmi agli altri ospiti». I quali, al contrario di lui, erano delle brave persone, gentili, normali. «Ci vediamo dopo, zio Tom.»
Lo chiamava così perché Tom e Gillian, sua moglie, erano stati come degli zii per lei, e i loro figli, due maschi e due femmine, come i cugini che altrimenti non avrebbe mai potuto avere, dal momento che suo padre e sua madre erano stati entrambi figli unici. L’amicizia nata fra di loro da bambini perdurava ancora, anche se le professioni che si erano scelti li avevano dispersi ai quattro angoli del paese.
Mentre si muoveva attraverso la sala, spostandosi da un gruppo all’altro, Marianne rimase acutamente consapevole della pressione di due penetranti occhi azzurri che sembravano voler studiare ogni suo gesto. Molte persone si erano recate in sala da pranzo a riempirsi il piatto con il delizioso buffet preparato da Crystal, ma Rafe Steed restò al suo posto, continuando a fissarla anche quando Tom decise di seguire l’esempio degli altri.
«Chi è il bel tenebroso che ha monopolizzato l’attenzione di papà?» chiese Victoria, la figlia più giovane di Tom e Gillian - l’unica ancora non sposata o fidanzata - non appena Marianne raggiunse il capannello formato da lei, sua madre e i suoi fratelli, accompagnati dai relativi partner. «È nuovo sulla scena, mi pare?»
«Victoria!»
Rimproverata dalla madre, Victoria reagì. «Cosa ho fatto? Dai, sei curiosa di saperlo anche tu, ammettilo.» E, tornando a rivolgersi a Marianne, aggiunse: «Papà mi ha detto solo che è un vecchio amico di famiglia, ma la mamma non lo ha mai visto, e lei conosce tutti gli amici di papà».
Marianne sorrise. Victoria era la mangiatrice d’uomini delle sorelle Blackthorn. Single per vocazione, con una fantastica carriera negli uffici del governo, aveva annunciato molto presto che il matrimonio e i figli non facevano al caso suo, come del resto le relazioni permanenti. I suoi fratelli si divertivano a tenere il conto degli uomini di cui si disfaceva dopo averli ridotti a brandelli e, dal momento che era una rossa voluttuosa con tutte le curve al posto giusto e due occhi da camera da letto, gli sventurati facevano la fila per avere il privilegio di farsi spezzare il cuore da lei. Se adesso Victoria aveva preso di mira Rafe Steed, aveva la sua completa approvazione.
«Il vecchio amico di famiglia è suo padre, non lui» spiegò Marianne in tono leggero. «A