Ieri è già domani: Harmony Collezione
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Apprendere che il marito che ha cercato di dimenticare con tutta se stessa è ingiustamente incarcerato in Brasile da un anno, e chiede di poterla vedere, è l'ultima cosa che Meg Hamilton vorrebbe sentire. La cosa però potrebbe anche giocare a suo favore: in cambio di questa visita, lui avrebbe dovuto apporre la sua firma sulle carte per il loro divorzio. Quello di cui Meg non ha tenuto conto è la loro irresistibile e reciproca attrazione, che se in passato l'ha portata a un frettoloso matrimonio a Las Vegas ora rischia di legarla a lui per sempre.
Carol Marinelli
Nata e cresciuta in Inghilterra, ha conosciuto il marito durante una vacanza in Australia.
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Anteprima del libro
Ieri è già domani - Carol Marinelli
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
Playing the Dutiful Wife
Harlequin Mills & Boon Modern Romance
© 2013 Carol Marinelli
Traduzione di Paola Mion
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Books S.A..
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
Harmony è un marchio registrato di proprietà
HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.
© 2014 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-3051-232-0
1
«Devo andare ora» disse Meg alla madre. «Hanno terminato l’imbarco e devo spegnere il telefono.»
«Oh, puoi stare ancora un poco» insistette Ruth Hamilton. «Dimmi, hai concluso le pratiche per l’acquisto Evans?»
«Sì.» Meg cercò di mantenere la voce tranquilla. Voleva davvero spegnere il telefono e rilassarsi. Detestava volare – be’, quanto meno la parte del decollo – e desiderava chiudere gli occhi e ascoltare della musica respirando a fondo prima che l’aereo lasciasse l’aeroporto di Sydney; invece sua madre, come al solito, voleva parlare di lavoro. «Come ho detto» riprese con voce controllata, poiché se avesse fatto trapelare il nervosismo sua madre le avrebbe rivolto altre domande, «è tutto nei tempi.»
«Bene» rispose Ruth, ma senza dare segno di voler chiudere la telefonata.
Meg si attorcigliò una ciocca di capelli rossi intorno a un dito, come faceva sempre quando era tesa o concentrata.
«Cerca di dormire durante il viaggio, Meg, perché quando arriverai dovrai subito darti da fare. Tu non puoi immaginare quante persone ci sono qui. Avremo così tante opportunità...»
Meg chiuse gli occhi ed emise un sospiro mentre sua madre continuava a parlare della conferenza e dei dettagli del viaggio. Un’auto sarebbe stata ad attenderla a Los Angeles per condurla dritta all’hotel dove si teneva la conferenza. E sapeva che aveva circa mezz’ora per cambiarsi. I genitori di Meg operavano nel mercato immobiliare di Sydney e in quel momento stavano cercando nuove opportunità di investimento per i loro clienti. Erano partiti il venerdì precedente per Los Angeles, mentre Meg aveva finito di stilare alcuni documenti prima di raggiungerli.
Sapeva che avrebbe dovuto sentirsi maggiormente eccitata per quel viaggio. Di solito le piaceva visitare nuovi posti, e in cuor suo sapeva di non avere nulla di cui lamentarsi: viaggiava in business class, e avrebbe alloggiato nel sontuoso hotel in cui si svolgeva la conferenza. Avrebbe giocato la parte della donna di successo, così come i suoi genitori. Anche se, al momento, gli affari di famiglia non stavano andando tanto bene. I suoi genitori erano sempre pronti a buttarsi in una nuova ricca opportunità, mentre Meg, più cauta, aveva suggerito che solo uno di loro partisse per quella avventura; o meglio ancora, che restassero invece a concentrarsi sulle trattative già in corso. Ma ovviamente i suoi genitori non l’avevano ascoltata. Quella era la loro grande occasione.
Meg ne dubitava. Tuttavia non era questo a causare il suo disappunto. Aveva sperato che i genitori avrebbero mandato solo lei a Los Angeles, date le sue competenze legali. Una settimana lontana da tutto non era un lusso per lei, quanto piuttosto una necessità. E non a causa di un bell’albergo – poteva anche stare in una tenda se necessario – ma soltanto per avere un po’ di tempo tutto per sé, per riflettere con calma. Aveva l’impressione che i suoi genitori la stessero soffocando, non lasciandole neppure il tempo per pensare. Era sempre stato così, fin da quando poteva ricordare, e a volte le sembrava che la sua intera vita fosse stata pianificata da loro fin dal principio.
E probabilmente era così.
Non che avesse molto di cui lamentarsi. Possedeva il proprio appartamento a Bondi ma, dato che lavorava venti ore al giorno, non aveva molte occasioni di goderselo. C’era sempre qualcosa da fare in ufficio anche durante il weekend, un contratto da leggere o qualcosa da firmare. Sembrava non avere mai fine.
«Bene, noi andremo a vedere un paio di proprietà questo pomeriggio...» continuò Ruth mentre nel corridoio accanto a Meg sembrava esserci una improvvisa attività.
«Be’, non prendete nessun accordo prima del mio arrivo» disse alla madre. «Sul serio.» Guardando in su, vide due assistenti di volo che si scusavano e aiutavano un passeggero, in parte nascosto alla sua vista, ma che a tutta prima non sembrava aver bisogno di assistenza. Era alto e prestante, più che in grado di infilare da solo il suo laptop nella cappelliera, tuttavia le assistenti lo attorniavano offrendo scuse ossequiose mentre lui andava a sedersi accanto a Meg. Finalmente lo vide in volto. Era meraviglioso, con i folti capelli scuri, giusto un pochino troppo lunghi, che gli ricadevano sulla fronte. Il naso era dritto e romano, gli zigomi alti. Aveva davvero un aspetto sbalorditivo, ma fu la bocca ad attirare maggiormente la sua attenzione: disegnata in modo perfetto, sembrava un tratto rosso scuro contro lo sfondo della mascella non rasata, e anche se mostrava una piega dura era comunque bellissima.
Lui le fece un breve cenno di saluto e si mise a sedere. Decisamente, sembrava contrariato. Meg colse il suo profumo, un misto di costosa colonia e di virilità, e sebbene stesse ancora ascoltando la madre, dedicò la sua attenzione alla conversazione tra l’assistente di volo e l’uomo. Questi, a quanto pareva, non apprezzava tutta quella premura.
«No» stava dicendo infatti. «Non sarò soddisfatto fino a quando non decolleremo.»
Aveva una voce profonda e ricca, con un accento che Meg non identificò bene, forse spagnolo, ma non ne era sicura. Ciò di cui fu sicura, invece, era che lui stava richiamando la sua attenzione.
Non consciamente, certo: continuava a parlare con la madre e ad arrotolarsi i capelli sulle dita, però non riusciva a smettere di ascoltare l’uomo.
«Una volta ancora» disse l’assistente di volo, «ci scusiamo per l’inconveniente, signor Dos Santos.» Quindi si girò verso Meg e, in tono gentile ma molto meno ossequioso, la avvertì che doveva spegnere il telefono.
«Devo proprio chiudere, mamma» si affrettò a dire lei. «Ci vediamo presto.» E con un sospiro di sollievo spense l’apparecchio. «La parte migliore del viaggio...» mormorò tra sé.
«Non c’è niente di buono nel volare» fu il brusco commento di lui mentre il velivolo cominciava a rullare sulla pista. Poi, vedendo che lei sollevava le sopracciglia, addolcì un poco le sue parole. «Almeno, non oggi.»
Lei gli rivolse un piccolo sorriso di scusa, poi si mise a fissare davanti a sé. Forse quell’uomo era nel bel mezzo di un’emergenza famigliare e aveva fretta di arrivare da qualche parte. Potevano esserci molte ragioni per quei suoi modi bruschi, e non era affar suo. Si sorprese quando lo udì parlare di nuovo.
«Di solito mi piace volare, e lo faccio fin troppo spesso, ma oggi non c’erano posti in prima classe.»
Niklas Dos Santos la vide sbattere le palpebre. Aveva occhi incredibilmente verdi, e lo stava guardando dritto in viso. «Povero!» commentò con un sorriso. «Sbattuto qui dietro in business class.»
«Come ho detto, viaggio molto, e dato che lavoro anche quando sono in volo, ho bisogno di dormire, cosa che sarà difficile fare qui. Ammetto di aver cambiato programma solo questa mattina, ma...» Non continuò. Pensava di avere giustificato a sufficienza il suo comportamento brusco, e ora desiderava starsene in pace.
«Davvero una terribile mancanza di considerazione da parte loro» ribatté invece lei, «non tenere un posto libero nel caso lei cambiasse i suoi programmi.» Sorrise e lui capì che stava scherzando, o almeno gli parve.
Non era una delle persone con cui aveva a che fare di solito. In genere lo gente lo riveriva o, se si trattava di una donna affascinante, come lei poteva forse essere, lo adorava.
Era abituato alle donne more della sua terra, e per contrasto gli piacevano le bionde, come lei era, o quasi. Per la verità i suoi capelli erano d’un biondo rosso. E, a differenza delle donne che frequentava di solito, non vi era nulla di ostentato in lei. Vestiva in modo elegante, con pantaloni color navy e una camicetta crema molto attraente, anche se era abbottonata sobriamente, e non portava trucco. Le guardò le mani, le cui dita non avevano smalto, e, sì, controllò se portasse un anello.
Se i motori non fossero saliti di giri in quel momento lei avrebbe anche potuto notare lo sguardo, e avrebbe anche avuto la subitanea visione di uno dei suoi molto rari sorrisi. Sembrava che fosse rimasta impressionata da lui e Niklas decise che, dopotutto, poteva anche essere inserita tra le possibili donne affascinanti.
Ma parlava troppo. E lui voleva lavorare. Decise di ignorarla. Non voleva essere interrotto ogni cinque minuti dai suoi pensieri erranti. Non era un gran conversatore, o quanto meno non gli interessava parlare di cose futili, e di certo non era interessato ai suoi commenti ironici. Voleva solo arrivare a Los Angeles lavorando e dormendo il più possibile. Chiuse gli occhi mentre il velivolo si preparava al decollo e decise che si sarebbe appisolato finché non avesse potuto prendere il laptop.
Poi la udì respirare. Forte. E poi ancora più forte.
Serrò i denti quando la sentì gemere piano mentre l’aereo staccava, e le lanciò un’occhiataccia, ma vide che aveva gli occhi chiusi. Restò a guardarla, come affascinato. Aveva il naso piccolo, le labbra piene e le ciglia d’un biondo rosso, come i capelli. Sembrava tesa e respirava in un modo profondo e forte che lo disturbava. Non poteva sopportarla così per le prossime dodici ore, e decise che avrebbe parlato di nuovo con l’assistente di volo. Qualcuno della prima classe doveva lasciargli il posto.
Non poteva restare lì!
Meg inalò dal naso ed espirò dalla bocca cercando di controllare i muscoli dello stomaco, come le avevano insegnato al corso per superare l’ansia, e continuò ad arrotolarsi i capelli, incapace di stare ferma mentre il frastuono cresceva a livelli paurosi. Quella era la parte peggiore, non riusciva a controllarsi fino a quando l’aereo non fosse stato in quota e il segnale delle cinture non si fosse spento.
L’aereo si inclinò un po’ a sinistra e lei serrò di più gli occhi, lasciandosi sfuggire un altro gemito. Niklas notò che non solo era impallidita, ma che anche le sue labbra erano livide. Quando il segnale si fosse spento avrebbe chiamato la hostess, non gli importava se anche avessero ospitato la famiglia reale in prima classe, qualcuno doveva lasciargli il posto! Sapendo che l’avrebbe avuta vinta, come sempre accadeva, si disse che poteva anche permettersi di essere gentile per qualche momento. Quella donna sembrava davvero terrorizzata.
«Lo sa che questo è il mezzo di trasporto più sicuro, vero?» le domandò.
«Certo che sì» rispose lei, gli occhi ancora chiusi. «È solo che non sembra molto sicuro in questo momento.»
«Bene, lo è invece.»
«Diceva che lei viaggia molto?» Voleva che le dicesse che viaggiava ogni singolo giorno, e che il rumore terrificante dietro di loro era normale, nulla di cui preoccuparsi, o meglio ancora, che lui in realtà era un pilota e che andava tutto benissimo.
«Continuamente» le rispose infatti lui.
«E... questo rumore?»
«Quale rumore?» lui si mise in ascolto. «È il carrello che rientra.»
«No, quell’altro.»
A lui sembrava del tutto normale, ma Niklas comprese che probabilmente era lei a non essere normale e continuò a parlare. «Oggi sto andando a Los Angeles, come lei, e tra due giorni