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La migliore offerta: Harmony Destiny
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E-book178 pagine2 ore

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Info su questo ebook

Quando uno scandalo travolge la casa d'aste che da tempo immemore appartiene alla sua famiglia, il milionario Vance Waverly inizia a nutrire dei sospetti su ogni collaboratore. E neppure la sua assistente personale, Charlotte Potter, sfugge a quell'indagine spietata. Anzi, dietro quel viso d'angelo potrebbe nascondersi la principale indiziata. L'unico modo che Vance ha di scoprire la verità è ricattarla... o sedurla. La possibilità di trascorrere una notte con quell'uomo che in segreto ama da anni è per Charlotte un'offerta impossibile da rifiutare.
LinguaItaliano
Data di uscita10 apr 2019
ISBN9788858996003
La migliore offerta: Harmony Destiny
Autore

Maureen Child

Maureen Child ha al suo attivo più di novanta tra romanzi e racconti d'amore. È un'autrice molto amata non solo dal pubblico ma anche dalla critica, infatti è stata nominata per ben cinque volte come migliore autrice per il prestigioso premio Rita.

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    Anteprima del libro

    La migliore offerta - Maureen Child

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    Gilded Secrets

    Harlequin Desire

    © 2012 Harlequin Books S.A.

    Traduzione di Rita Pierangeli

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    Harmony è un marchio registrato di proprietà

    HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.

    © 2013 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5899-600-3

    1

    Fuori dalla casa d’aste che portava il suo nome, Vance Waverly ne fissava l’imponente facciata. Il vecchio edificio aveva subito uno o due lifting negli ultimi 150 anni, ma il suo cuore era rimasto intatto.

    Sorrise tra sé lasciando vagare lo sguardo lungo i sette fortunati piani. I vetri delle finestre scintillavano alla luce di quell’inizio d’estate. Una ringhiera in ferro battuto correva lungo il balcone del secondo piano. La pietra grigia dava allo stabile un’aura di dignità e sopra l’ampia finestra ad arco, che sormontava il portone d’ingresso, era incisa un’unica parola: Waverly.

    Vance provò un moto d’orgoglio mentre osservava il mondo creato dal suo prozio, Windham Waverly. Morto ormai da tempo, si era garantito la sua personale versione dell’immortalità lasciando in eredità una casa d’aste rinomata in tutto il mondo.

    E Vance era uno degli ultimi Waverly rimasti. Perciò era nel suo interesse assicurarsi che la casa d’aste continuasse a dominare il mercato. Come socio senior del consiglio di amministrazione, si assicurava di partecipare a tutto, dalla stesura del catalogo alla caccia ai pezzi che meritavano di essere messi all’incanto. Si sentiva più a casa sua lì che non nel lussuoso appartamento con vista sull’Hudson River, dove si limitava a dormire.

    «Salve, amico!» gridò una voce alle sue spalle. «Ha intenzione di passare lì tutta la giornata?»

    Voltandosi, Vance vide un fattorino della FedEx che aspettava impaziente. Si spostò per lasciarlo passare.

    Prima di entrare, il fattorino borbottò: «La gente si crede padrona dei marciapiedi».

    «Impossibile non amare New York» mugugnò Vance.

    «‘Giorno.»

    Guardando alla sua sinistra, Vance vide il fratellastro che si stava avvicinando. Di rado a New York, Roark era arrivato in aereo per una riunione con alcuni dei suoi contatti. Alto quanto Vance, oltre un metro e ottantacinque, aveva capelli castani e occhi verdi, ma la somiglianza non andava oltre. D’altronde, avevano in comune soltanto un padre. E fino a cinque anni prima, quando il loro padre, Edward Waverly era morto, Vance ignorava perfino che Roark esistesse.

    In quei cinque anni, avevano stretto una solida amicizia, e Vance ne era grato, anche se Roark insisteva per tenere segreto il loro legame familiare. Roark non era ancora convinto che Edward Waverly fosse veramente suo padre. Non esisteva nessuna prova, a parte la lettera che Edward aveva lasciato con il suo testamento. Per Vance era sufficiente, ma rispettava i desideri del fratello.

    «Grazie per essere venuto.»

    «Meglio che sia importante» replicò Roark, affiancandolo mentre si dirigevano al bar all’angolo. «Ieri sera ho fatto tardi e, ufficialmente, non sono ancora sveglio.»

    Indossava occhiali scuri, un consunto giubbotto di pelle, T-shirt, jeans e stivali. Per un secondo, Vance invidiò il fratello. Anche lui avrebbe preferito indossare jeans, ma alla Waverly’s giacca e cravatta erano di rigore.

    «Già» disse mentre si sedevano a un tavolo all’aperto. «È importante. O potrebbe esserlo.»

    «Intrigante.» Roark aspettò che la cameriera riempisse le loro tazze di caffè prima di parlare di nuovo. «Raccontami.»

    Vance studiò per un minuto il contenuto della sua tazza raccogliendo i pensieri. Di solito non prestava attenzione ai pettegolezzi, ma quando riguardavano la Waverly’s, non poteva correre rischi.

    «Hai sentito le voci su Ann?»

    «Ann Richardson?» chiese Roark. «La nostra direttrice?»

    «Sì, quella Ann» borbottò Vance. Quante Ann conoscevano?

    Roark si tolse gli occhiali da sole e diede una rapida occhiata in giro, per assicurarsi che nessuno li stesse ascoltando. «Che genere di voci?»

    «Su di lei e Dalton Rothschild. Sai, il capo della casa d’aste Rothschild? Il nostro principale concorrente?»

    Roark lo fissò per un paio di secondi, quindi scosse la testa. «Impossibile.»

    «Anch’io mi rifiuto di crederlo.»

    La direttrice della Waverly’s, Ann Richardson, era intelligente e svolgeva il suo lavoro in modo brillante. Aveva iniziato dal basso e aveva fatto carriera fino ad arrivare a dirigere una delle più prestigiose case d’aste.

    «Che genere di voci hai udito?»

    «Tracy mi ha chiamato ieri sera per avvertirmi a proposito di un articolo che apparirà sul Post di oggi.»

    «Tracy.» Roark si accigliò. «Tracy Bennet. La reporter che frequentavi l’anno scorso.»

    «Già. Dice che la storia diventerà di dominio pubblico oggi.»

    «Quale storia?»

    «Quella secondo la quale Ann ha avuto una relazione con Dalton.»

    «Ann è troppo intelligente per lasciarsi incantare dalle scemate di Dalton» disse Roark, liquidando come assurda l’idea.

    Vance avrebbe voluto fare altrettanto se non fosse stato che sapeva, per esperienza, che la gente aveva la tendenza a prendere decisioni stupide. Di solito davano la colpa all’amore, ma era soltanto una scusa per sentirsi liberi di fare quello che volevano.

    «Sono d’accordo, tuttavia, se c’è qualcosa tra loro due...»

    «Cosa potremmo fare?»

    «Non molto. Parlerò con Ann, per avvertirla dell’articolo che verrà pubblicato.»

    «E?»

    «Voglio che tu tenga occhi e orecchie aperti. Mi fido di Ann, ma non di Dalton. Lui vuole sbarazzarsi della Waverly’s da sempre. Se non riesce a rilevare le quote, cercherà di farci fallire.» Vance socchiuse gli occhi. «Non permetteremo che succeda.»

    «Buongiorno, signor Waverly. Ecco il suo caffè e gli appuntamenti della settimana. Oh! Ieri, dopo che lei se n’era andato, un fattorino ha consegnato l’invito al garden party del senatore Crane.»

    Vance si fermò sulla porta dell’ufficio e fissò la sua nuova assistente. Charlotte Potter aveva una figura minuta ma con le curve nei punti giusti. I lunghi capelli biondi erano raccolti in una coda di cavallo. Aveva occhi azzurri, labbra piene e una bocca che era sempre in movimento.

    Vance l’aveva assunta per fare un favore a un membro del consiglio di amministrazione andato in pensione, che si era affezionato a lei quando gli aveva fatto da assistente. Era ormai da una settimana che Charlotte lavorava per lui, e Vance sapeva che non avrebbe funzionato.

    Lei era troppo giovane, troppo bella e troppo... Charlotte si voltò e si curvò per aprire il cassetto in basso dello schedario, Vance scrollò il capo mentre fissava le curve del suo posteriore negli aderenti calzoni neri. Charlotte era troppo di tutto.

    Quando si raddrizzò, stringendo in mano un’elegante busta, lui si disse che l’unica soluzione era di spostarla presso qualche altro ufficio della società. Non poteva licenziarla soltanto perché rappresentava una distrazione.

    Che fosse o no politicamente scorretto, Vance preferiva che i suoi assistenti fossero o del tipo matronale o maschi.

    La sua precedente assistente era andata in pensione a sessantacinque anni. Era un tipo freddo, non si agitava mai e sulla sua scrivania regnava sempre un ordine perfetto.

    Charlotte, invece... Vance si accigliò guardando il ficus nell’angolo, le felci sulla mensola vicino alla finestra e il vaso di violette sulla sua scrivania, ingombra anche di diverse foto incorniciate.

    Teneva penne e matite in un boccale a forma di casco dei New York Jets, e c’era una confezione di M&M’s accanto al telefono. Era chiaro che non avrebbe mai dovuto fare quel favore. Nessuna buona azione resta impunita, era solito dire suo padre.

    Vance non voleva distrazioni in ufficio neanche quando filava tutto liscio. Perciò le voleva ancora meno adesso che all’orizzonte si profilavano guai con Rothschild... e pazienza se faceva la figura dello sciovinista.

    In quanto uno degli ultimi Waverly legato alla casa d’aste, a Vance piaceva dedicarsi al lavoro durante l’orario d’ufficio. E una bella donna non favoriva la concentrazione.

    «Grazie, Charlotte» disse, dirigendosi al suo ufficio. «Non mi passi chiamate fino alla fine della riunione.»

    «Sarà fatto. Oh, e mi chiami Charlie» replicò lei con vivacità.

    Vance si fermò, la guardò al di sopra delle spalle e fu quasi accecato dal suo sorriso, tanto era luminoso. Lei tornò alla propria scrivania e cominciò a smistare la posta. I capelli le scesero su una spalla, fino a sfiorarle la curva del seno. Un senso di disagio si agitò dentro di lui. Detestava ammetterlo, perfino con se stesso, ma era impossibile ignorare quella donna.

    Contrariato, si appoggiò allo stipite e sorseggiò il caffè che lei gli aveva dato. Osservandola, si accorse che stava canticchiando, come aveva fatto per tutta la settimana. Stonando. Del tutto priva di orecchio musicale.

    Scrollò il capo. Doveva telefonare all’ufficio di Londra per controllare le aste in programma. Un angolo della sua mente stava ancora meditando sulle voci a proposito di Ann. E non aveva nessuna voglia di partecipare alla riunione di quel pomeriggio.

    Charlotte alzò la testa e trasalì, battendosi una mano sul petto come per impedire al cuore di schizzare fuori. Subito dopo scoppiò in una risatina. «Mi ha spaventato. Credevo che fosse andato nel suo ufficio.»

    Avrebbe dovuto. Invece, si era distratto. Male. Accigliandosi, Vance chiese: «Ha già trascritto l’ordine del giorno per la riunione di oggi? Voglio aggiungervi alcuni appunti».

    «Certo.» Charlotte andò alla sua scrivania, prese una cartelletta e gliela consegnò. «Insieme con l’ordine del giorno, ho stampato l’elenco che lei ha fatto delle collezioni private, quelle che saranno messe all’asta le prossime settimane.»

    Vance aprì la cartelletta, notando l’accuratezza con cui era stato stilato il documento. Alla prima pagina ne seguivano altre, che sfogliò distrattamente, soffermandosi sull’ultima. «Cos’è questo?»

    «Oh.» Lei sorrise. «L’impaginazione del prossimo catalogo mi sembrava un po’ confusa, così ho modificato un paio di foto e...»

    Lui esaminò il lavoro che aveva fatto e dovette ammettere che era migliore del precedente. Adesso i vasi della dinastia Ming risaltavano in tutta la loro bellezza.

    «So che non avrei dovuto, ma...»

    «Ha fatto un buon lavoro» la interruppe Vance, chiudendo la cartelletta e guardandola nei suoi dolci occhi azzurri.

    «Davvero?» Lei gli rivolse un sorriso luminoso. «Grazie. Ero un po’ nervosa per aver preso l’iniziativa. Questo lavoro è molto importante per me, e voglio svolgerlo bene.»

    Vance provò un inconsueto senso di colpa davanti all’entusiasmo che le lesse nello sguardo. Era evidente che fremeva di eccitazione per il suo nuovo impiego. Il che contribuì a farlo sentire ancora peggio per essersi pentito di averla assunta.

    Forse le avrebbe dato una possibilità. Non doveva fare altro che smettere di vedere Charlotte come donna.

    Ma una rapida occhiata alla sua figura bloccò quell’idea sul nascere.

    Il telefono squillò e lei rispose. «Ufficio di Vance Waverly.»

    La sua voce era bassa e seducente, o forse era soltanto una sua impressione, si redarguì Vance.

    «La prego, resti in linea» disse lei, premendo un pulsante. Quindi, rivolta a lui: «È Derek Stone, che chiama dall’ufficio di Londra».

    «Oh, bene.» Grato per avere la scusa di lasciare Charlotte e rimettersi al lavoro, Vance entrò nel suo ufficio. «Me lo passi, per favore, Charlotte. Dopo questa chiamata, trattenga tutte le altre.»

    «Senz’altro, signor Waverly.»

    Vance chiuse la porta e si diresse alla scrivania. Dipinti di artisti sconosciuti erano appesi alle pareti color avorio, insieme con un paio di capolavori di vecchi maestri. Contro una parete c’era un divano, con davanti un basso tavolino e due poltrone. Dietro la scrivania, una grande vetrata si affacciava su Madison Avenue e il quartiere di Manhattan.

    Lasciandosi cadere sulla sua poltrona, Vance alzò la cornetta e disse: «Derek. Che piacere sentirti».

    Con un sospiro di sollievo, Charlie si trascinò fino alla scrivania. Il suo sorriso, allegro e radioso, minacciava di sgretolarsi e lei si augurava che Vance Waverly non avesse intuito fino a che punto era nervosa.

    «Deve proprio avere un così buon profumo?» borbottò, piantando i gomiti sulla scrivania. Prendendosi il volto tra le mani, si impose di controllarsi.

    I suoi ormoni non l’ascoltarono, purtroppo, e proseguirono nella loro piccola danza eccitata. Succedeva ogni volta che si trovava vicino a Vance Waverly, ed era umiliante. Come era possibile che fosse attratta da un capo che terrorizzava la metà delle persone presenti in quell’edificio?

    Purtroppo, era così. Lui era alto, con spalle larghe e capelli castano scuro che sembravano sempre un po’ arruffati. Negli occhi marroni c’erano pagliuzze dorate e la sua bocca si curvava raramente in un sorriso. Pensava esclusivamente al lavoro e lei aveva la netta sensazione che la tenesse d’occhio, cercando una scusa per licenziarla.

    Ma lei non avrebbe permesso che succedesse.

    Al momento, quel lavoro era la cosa più importante che le fosse capitata. Be’,

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