L amnesia del greco: Harmony Collezione
Di Jane Porter
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Jane Porter
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Anteprima del libro
L amnesia del greco - Jane Porter
successivo.
Prologo
Il principe Alexander Julius Alberici sapeva che presto sarebbe cambiato tutto. Il suo matrimonio con la principessa Danielle era stato fissato per il 27 giugno, ed entro quella data avrebbe dovuto far ritorno nel suo regno, Argovia, tra le isole del Mediterraneo. Dopo la cerimonia era stata programmata una luna di miele di due settimane e solo a quel punto sarebbe stato finalmente libero di tornare con la sposa a Parigi, dove dirigeva un gruppo ambientalista internazionale focalizzato sulla sostenibilità degli ecosistemi fragili.
Quel lavoro era la sua passione, ma in ogni caso sarebbero tornati in Argovia non appena Alexander fosse salito al trono.
Quel giorno tuttavia sembrava lontanissimo, dato che suo padre era un uomo forte e atletico e un re vigoroso e potente. Questo almeno fino a quando un raffreddore invernale non era peggiorato, aggravato da una tosse fastidiosa che non era guarita nemmeno con gli antibiotici. A metà aprile gli era stato diagnosticato un tumore ai polmoni. Al re Bruno Titus Alberici erano rimasti pochi mesi di vita. Mesi.
Era impensabile, inimmaginabile. Alexander non aveva mai avuto un rapporto stretto con suo padre: re Bruno poteva anche essere amato dal popolo, ma nella vita privata era freddo e spietato. Eppure Alexander non riusciva a immaginare il mondo senza di lui. Aveva persino deciso di organizzare la propria morte esattamente come aveva fatto con la propria vita, senza emozioni o debolezze. A tal fine, non ci sarebbero stati cambiamenti nella vita del palazzo o nel protocollo.
Il matrimonio di Alexander a fine giugno non sarebbe stato rimandato né la malattia di Bruno resa pubblica. Non avrebbe allarmato il suo popolo, almeno sino all'annuncio ufficiale. Sua madre, la regina, era stata d'accordo con quel piano perché aveva sempre sostenuto suo marito. Quello era stato il suo ruolo fin dal primo giorno di matrimonio e si era sempre attenuta alle sue responsabilità. Ora era tempo che anche Alexander si assumesse le proprie, sposandosi e avendo un erede affinché la monarchia potesse sopravvivere.
Alexander si irrigidì, sentendosi intrappolato nella sua cabina, nonostante fosse la più grande della nave. Spalancò la porta e uscì sul ponte superiore, appoggiandosi alla balaustra per fissare il mare.
Quel viaggio avrebbe dovuto essere l'ultima avventura prima che i preparativi per il matrimonio entrassero nel vivo. I reali non potevano fare addii al celibato quindi il suo migliore amico, Gerard, aveva organizzato una crociera di una settimana nel Mar Egeo. Preoccupato dal rapido declino di suo padre, Alexander aveva permesso che fossero i suoi amici a organizzare il viaggio, sapendo che erano molto più eccitati di lui per quell'ultima avventura, ma ora si era pentito di non aver preso parte alla pianificazione, almeno per quanto riguardava la lista degli invitati.
Lo yacht era grande, nuovo e lussuoso, ma si trattava pur sempre di una barca ed erano tutti intrappolati lì dentro. Non sarebbe stato un problema se tutti fossero stati in buoni rapporti, ma inspiegabilmente Gerard aveva permesso al cugino di Alexander, Damian Anton Alberici, di portare anche la sua fidanzata Claudia.
Quest'ultima era anche l'ex fidanzata di Alexander e la loro rottura, sei mesi prima, era stata furiosa, per usare un eufemismo. Era rimasto sbalordito quando aveva scoperto che Damian frequentava Claudia, ma ora l'aveva addirittura invitata in crociera. Perché mettere tutti quanti in imbarazzo?
Serrò la mascella, fissando la bianca isola rocciosa davanti a sé, così simile alle precedenti. La tensione sullo yacht gli aveva fatto sentire nostalgia di casa, nonostante anche lì la situazione non fosse esattamente piacevole.
Sua madre faticava ad accettare la diagnosi infausta del marito. In un paio di settimane la salute del padre era andata a rotoli ed era sempre più fragile.
A palazzo nessuno si azzardava a parlare di cosa stesse accadendo. Nella sua famiglia, dopotutto, non si discuteva mai di faccende personali. Non esisteva alcuna condivisione di sentimenti ed emozioni. Esisteva solo il dovere, come lui sapeva fin troppo bene.
Prima si fosse concluso il matrimonio, meglio sarebbe stato. La principessa Danielle Roulet sarebbe stata una buona moglie. Non era un'unione d'amore, ma sarebbe stato comunque un legame solido perché entrambi conoscevano i loro doveri e le loro responsabilità. Inoltre quel matrimonio avrebbe regalato al popolo un'occasione per festeggiare, cosa di cui ci sarebbe stato molto bisogno quando la corona fosse passata sul capo del principe.
Se solo fosse potuto tornare a casa! Non c'era nulla di piacevole in quell'ultima avventura da scapolo.
1
Josephine desiderava solo che quello yacht se ne andasse. Il Mar Mediterraneo era enorme. La Grecia aveva centinaia di isole. Quella barca non poteva andarsene da qualche altra parte?
Era ancorata nella baia della piccola isola di Khronos da due giorni. Dopo quarantotto ore di feste infinite, musica a tutto volume e risate fragorose, ne aveva abbastanza. Gli ospiti dello yacht erano addirittura sbarcati sull'isola quel giorno stesso, con un gommone. Jo si era nascosta dietro la scogliera, osservando i nuovi intrusi.
Le ragazze erano stupende, abbronzate e magre nei loro bikini striminziti, mentre i ragazzi erano muscolosi e belli. Erano lì solo per festeggiare e avevano portato con loro alcol e cibarie. Solo uno di loro non beveva, non fumava e non aveva fatto l'amore sulla spiaggia. A volte si sedeva da solo, più spesso era circondato dagli altri. Era chiaramente il capo del gruppo, il sole intorno al quale tutti gli altri orbitavano.
Aveva osservato a lungo quei ragazzi, ordinando a se stessa di non giudicarli, nonostante quegli intrusi godessero chiaramente di uno stile di vita lussuoso. Suo padre le diceva sempre che criticava quel tipo di persone solo perché non sarebbe mai stata una di loro, e forse aveva ragione. A lei tuttavia piaceva usare il proprio cervello e amava lavorare come assistente di suo padre, che era uno dei vulcanologi più importanti al mondo, motivo per cui vivevano nel mezzo del Mar Egeo per studiare l'attività vulcanica in Grecia. Parte del suo lavoro consisteva nel registrare le scoperte del padre e con il trascorrere del tempo era diventata indispensabile per la sua attività di ricerca. Lui stesso aveva ammesso che non sarebbe stato in grado di gestire quell'enorme mole di lavoro senza il suo aiuto. A fine giornata, tuttavia, ritornava alle proprie passioni: disegnare, fare schizzi, dipingere. Aveva finito carta e tela, ma suo padre sarebbe tornato presto, con nuove forniture.
Quel pomeriggio aveva portato con sé il suo blocco da disegno sugli scogli che si affacciavano sulla baia perché voleva disegnare la scena sotto di lei... be', non tutti quanti, bensì l'unico maschio che aveva catturato la sua attenzione. Sembrava divino con i suoi folti capelli neri e gli occhi chiari. Anche da lontano i lineamenti del suo viso attiravano il suo lato artistico: la mascella squadrata, gli zigomi alti, la bocca carnosa. Il suo carboncino si muoveva sulla pagina mentre studiava quel viso. I suoi lineamenti erano troppo perfetti. Desiderava solo essere più vicina per poter individuare il colore dei suoi occhi. Ancora più intrigante era il modo in cui era seduto sulla sua sedia, le spalle larghe, il mento sollevato, il corpo immobile, che trasudava potere e controllo.
Josephine alzò lo sguardo dal disegno per confrontare lo schizzo con l'originale. Sì, era riuscita a catturare il fisico muscoloso e anche i tratti decisi del viso, ma la sua espressione non era del tutto corretta. Era proprio quell'espressione che la incuriosiva e le faceva venir voglia di continuare a osservarlo, tentando di decifrarlo.
Era annoiato o infelice?
Era un mistero e la intrigava. All'improvviso però si alzò, insieme agli altri. Raccolsero le loro cose e si diressero al gommone.
Bene, disse a se stessa mentre chiudeva il blocco, nonostante non potesse fare a meno di provare una fitta di delusione quando il gommone portò il suo misterioso uomo affascinante di nuovo sull'enorme yacht ancorato nella baia.
Quella sera Josephine stava tornando dal suo ultimo controllo dell'attrezzatura nel capanno quando sentì delle urla che provenivano dalla baia, come se qualcuno stesse litigando. Si diresse verso la spiaggia, tendendo l'orecchio, ma non sentì più nulla, tranne il rombo del motore dello yacht. Era finalmente ripartito? Era illuminato da mille luci. Sul ponte superiore vedeva delle coppie che bevevano. Ce n'erano altre su quello inferiore e altre ancora a poppa, nell'ombra. L'imbarcazione si stava muovendo. Era dispiaciuta alla prospettiva di non poter più vedere il suo uomo misterioso, ma al contempo era felice che quella nave stesse lasciando la baia.
Era ancora lì in piedi quando sentì un grido soffocato e poi vide qualcuno finire in mare. Si precipitò subito verso la riva, fissando il punto dove la persona era sparita nell'acqua, ma nessuno riemerse. In preda al panico, Josephine temeva che stesse annegando. Non poteva restare immobile mentre qualcuno stava rischiando di morire. Si tolse quindi l'abito e si tuffò tra le onde, nuotando fino a dove lo yacht era stato ancorato negli ultimi due giorni. Immergendosi sotto la superficie dell'acqua, si sforzò di vedere nell'oscurità, ma tutto era terribilmente buio.
Continuava a nuotare, cercando, muovendosi, i polmoni che bruciavano, ormai senza fiato. Proprio quando stava per tornare in superficie percepì un lembo di stoffa. Del calore umano. Un petto. Spalle grandi e forti. Quelle di un uomo.
Pregò che qualcuno accorresse in loro aiuto mentre lo afferrava, sperando in una forza divina perché in quel momento aveva davvero bisogno di superpoteri, con i suoi stessi polmoni soffocati dalla mancanza d'aria. Con un gemito si mosse e lui la seguì. Il suo grande corpo era pesante ma lei non aveva mai nuotato con tale forza d'animo. Era cresciuta nel mare. Aveva trascorso la propria vita a nuotare e anche se sentiva le forze mancare, disse a se stessa che ce l'avrebbe fatta, che non era da sola. Credeva che fosse un segno del destino il fatto di essersi trovata sulla spiaggia quando quel corpo era caduto in mare. L'aveva trovato e ora doveva salvarlo.
E ci riuscì.
Emerse senza fiato e lo trascinò a riva, adagiandolo sulla sabbia umida. Lo fece quindi rotolare su un fianco, permettendo all'acqua di uscire dalla bocca e dal naso, prima di farlo sdraiare sulla schiena. Fu solo allora che si rese conto che era proprio lui. Il bellissimo ragazzo riflessivo. Quello che a malapena sembrava tollerare gli altri. Non aveva mai rianimato nessuno prima di allora. Fece la respirazione bocca a bocca ed effettuò trenta compressioni toraciche. Poi mise l'orecchio vicino alla bocca e ascoltò. Niente. Non sentì nulla. Ripeté tutto quanto. Dopo ogni ciclo ascoltava e guardava il suo petto, cercando segni di vita. Non si arrese.
Respira, respira, respira, ripeteva a se stessa, pregando.
E proprio quando fu certa che ogni sforzo fosse ormai vano, il suo petto si sollevò debolmente, ma abbastanza per darle speranza.
Determinata, Jo espirò forte nella sua bocca e sentì finalmente l'aria esalare dalle sue labbra e un leggero movimento del torace. Il suo respiro era roco e affannato, ma era un respiro. Non se lo stava immaginando. Era vivo. I suoi occhi si riempirono di lacrime. Si portò i lunghi capelli bagnati dietro le orecchie con le mani tremanti, sopraffatta ed esausta. Scossa, si sedette sui talloni, rilassando le spalle. Lo aveva salvato. E adesso? Cosa doveva fare di lui?
L'adrenalina svanì e Jo cominciò a tremare in tutto il corpo. Aveva bisogno di assistenza sanitaria, ma non poteva chiamare aiuto. La sua ricetrasmittente era rotta. Suo padre ne avrebbe portata una nuova al suo ritorno, che però