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Piacevole visione: Harmony Collezione
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E-book252 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Belli, ricchi e impossibili. Un loro semplice sguardo è sufficiente a sbaragliare le difese di qualsiasi donna: sono gli uomini che chiunque vorrebbe avere al proprio fianco.

Risvegliatasi da un incidente, Emelia non riconosce l'uomo che le sta di fronte: sguardo impenetrabile, occhi dal taglio sottile... in poche parole, bello da togliere il fiato. Eppure, qualcosa dentro di lei sembra essere scosso da quella sensuale presenza.

Quando Javier Mélendez viene a sapere che sua moglie è stata coinvolta in un incidente, accorre immediatamente da lei. Il dubbio che la sua amnesia sia una finzione, però, è forte: e se Emelia volesse solo riconquistare tutto ciò che aveva prima di fuggire da lui?

LinguaItaliano
Data di uscita16 mag 2011
ISBN9788861837638
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Autore

Melanie Milburne

Tra le autrici più amate e lette dal pubblico italiano.

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    Anteprima del libro

    Piacevole visione - Melanie Milburne

    1

    Emelia capì di essere in ospedale ben prima di aprire gli occhi. La sua mente confusa sentiva in lontananza il rumore di passi sul linoleum lucido, il frusciare delle tende e due voci, di un uomo e una donna, che parlavano in tono sommesso.

    Cercò di aprire gli occhi, subito feriti dalla luce troppo forte, e li richiuse per qualche istante prima di guardare l’infermiera che, ai piedi del letto, leggeva la sua cartella clinica.

    «Che... cosa è successo?» chiese cercando di mettersi a sedere. «Cosa ci faccio qui?»

    L’infermiera le si avvicinò, posandole delicatamente una mano sulla spalla per impedirle di alzarsi. «Signora Mélendez, la prego non si agiti. È in ospedale. Ha avuto un incidente automobilistico una settimana fa. Da allora è stata in coma.»

    Emelia sentì il cuore sobbalzarle nel petto. Si accigliò, cosa che le procurò una terribile fitta alla testa. Si portò allora una mano alla fronte, trovandovi uno spesso bendaggio. Ospedale? Incidente? Coma?

    Quelle parole le suonavano strane, ma più di tutto strideva il nome usato dalla donna. «Come mi ha chiamato, scusi?» chiese con il cuore impazzito.

    L’infermiera si guardò alle spalle, quasi a cercare supporto. «Ehm... credo sia meglio chiamare il dottore, le spiegherà tutto lui» rispose uscendo.

    Emelia aveva la sensazione di essersi persa in mezzo a una fitta nebbia. Incidente? Quale incidente? Abbassò lo sguardo sul letto. Pur sentendo dolore ovunque, le pareva di essere tutta intera. Non vedeva ingessature, quindi non si era rotta nulla. Il dolore maggiore era in testa, e sentiva una nausea terribile, ma forse era dovuta agli antidolorifici. Una flebo usciva dal dorso della mano sinistra, stesa lungo il corpo. Distolse subito lo sguardo.

    Come l’aveva chiamata l’infermiera? Signora Mel...? Il cuore le sobbalzò di nuovo. Sposata? No, non era sposata! Doveva esserci un errore, uno scambio di cartelle o qualcosa del genere. Il suo nome era Emelia Louise Shelverton. Era arrivata dall’Australia da un paio di mesi. Viveva a Notting Hill, Londra. Lavorava come cantante al The Silver Room, a un paio di isolati da Mayfair, dove sperava di trovare lavoro come insegnante di musica.

    Sposata? Ridicolo. Non usciva con nessuno.

    «Finalmente si è risvegliata.» Un medico, forse il primario, chiuse le tende intorno al letto di Emelia. «È davvero un’ottima notizia. Eravamo molto preoccupati per lei, signora.»

    Emelia cercò di leggere il cartellino con il nome dell’uomo. «Dottor... Pratchett? Che cosa ci faccio in ospedale? Non capisco. Credo ci sia stato un errore. L’infermiera mi ha chiamata signora qualcosa, ma io non sono sposata.»

    Il dottore la guardò con un sorriso rassicurante. «Ha preso un colpo alla testa, Emelia» le disse. «E questo deve aver provocato una perdita di memoria. Non sapremo di quale entità fino a che non faremo ulteriori analisi. Fra poco la farò parlare con lo psicologo, poi le faremo un’altra risonanza magnetica.»

    Emelia si portò la mano alla fronte, accigliandosi. «Ho... perso la memoria?»

    L’uomo annuì. «Pare di sì. Sa che giorno è oggi?»

    Emelia pensò per un istante: «Venerdì?».

    «È lunedì» disse il medico. «Dieci settembre.»

    Emelia trattenne il fiato. «Di che anno?» chiese in un sussurro spaventato.

    All’udire la risposta chiuse gli occhi inorridita. «Non può essere» disse. «Non posso aver dimenticato due anni della mia vita. È assurdo!»

    Il medico le prese la mano che stringeva nervosa le lenzuola. «Cerchi di stare calma, Emelia» disse in tono rassicurante. «Questo è un momento molto confuso per lei. È rimasta in coma per alcuni giorni, è normale che le sembri tutto molto strano. Ma col tempo dovrebbe ricordare ogni cosa. Non deve avere fretta. Piccoli passi, mia cara.»

    Emelia sfilò la mano da quella del dottore, sollevandola per fargliela vedere. «Guardi» disse quasi in tono di sfida. «Niente anello. Mi creda, ci deve essere stato uno scambio di identità. Io non sono sposata.»

    «Lei è senza dubbio la signora Emelia Louise Mélendez» le assicurò il medico con autorevolezza. «È il nome che c’era scritto sulla sua patente di guida. Suo marito è qui fuori che aspetta di vederla. È volato dalla Spagna non appena ha saputo dell’incidente, e l’ha riconosciuta come sua moglie. Praticamente è rimasto incollato al suo letto per tutto il tempo. Ora è uscito un istante per rispondere al telefono.»

    La bocca di Emelia si spalancò al punto che il mento quasi le cadeva sul petto. Il suo cuore pareva in procinto di esplodere.

    Suo marito? Spagnolo?

    Non aveva nemmeno idea di come si chiamasse. Come aveva potuto dimenticare una cosa così importante? Dove si erano conosciuti? Quando si erano sposati? L’avevano fatto? Quante volte...?

    Lo stomaco le vibrò in modo strano. Non era possibile... Come aveva potuto vivere e amare un uomo, ed essersene dimenticata? Iniziò a sudare, sentendo le mani calde e umide per l’incertezza e la paura. Doveva essere un brutto sogno.

    Pensa. Pensa. Pensa.

    Cos’era l’ultima cosa che ricordava? Chiuse gli occhi, cercando di concentrarsi, ma la testa le pulsava troppo nel tentativo di ricordare gli ultimi giorni. Era tutto confuso, una nebbia fitta e indistinta che sembrava non avere alcun senso.

    Quando riaprì gli occhi, il dottore era già uscito e, poco dopo, le tende si aprirono di nuovo, con un rumore troppo forte per le sue orecchie.

    Sentì il fiato spezzarsi in gola.

    Uno sconosciuto alto, dai capelli corvini e gli occhi profondi e neri come il carbone era ai piedi del letto. Nulla in lui era nemmeno vagamente familiare. Studiò quel volto per alcuni lunghissimi istanti, sforzandosi di collocarlo da qualche parte nella sua mente. Non riconosceva quei lineamenti classici e bellissimi, né la fronte abbronzata, le folte ciglia scure sopra quegli occhi apparentemente senza fondo, o quei capelli un po’ spettinati, come ci avesse appena passato le dita. Non riconosceva quel naso prominente, né quel mento squadrato e inflessibile, e tanto meno quella bocca... Sentì di nuovo un movimento involontario allo stomaco, come di un topolino che scivola su un pavimento appena incerato. Quella bocca pareva scolpita; il labbro superiore si sarebbe potuto definire leggermente crudele, non fosse stato per la sensuale pienezza di quello inferiore. Quella era una bocca che sapeva come baciare, e baciare per conquistare, pensò Emelia mentre lo stomaco continuava a ballare. Si inumidì le labbra con la lingua. Era forse stata conquistata da quella bocca? Perché non riusciva a ricordarlo?

    «Emelia.»

    Il modo in cui quello sconosciuto pronunciò il suo nome le provocò un brivido lungo la schiena. L’accento spagnolo dava alle sillabe un’aura esotica, accendendo ogni cellula del suo corpo... Se solo avesse saputo chi diavolo era.

    «Uhm... Ciao...» Cos’altro doveva dire? Ciao caro, che bello rivederti? Si schiarì la gola, stringendo fra le dita l’orlo del lenzuolo. «Mi dispiace... sono molto confusa in questo momento...»

    «Tranquilla.» Le fu al fianco in due passi, e le parve piuttosto minaccioso, così alto e con quegli occhi così imperscrutabili.

    Emelia colse un’ondata del suo dopobarba. Non era forte, ma forse non si faceva la barba da un paio di giorni. L’aspetto decisamente mascolino di quell’accenno di barba brizzolata portò il suo pensiero alla quantità di ormoni che quell’uomo doveva avere in corpo. Tremando inspirò un’altra ondata di dopobarba. La lieve fragranza aveva una sfumatura di agrumi vagamente familiare. La fronte le si arricciò nel tentativo di concentrarsi... Limoni... al sole... lime? Citronella?

    «I dottori dicono che posso portarti a casa non appena sarai in grado di viaggiare» disse lui.

    Al suono di quella voce, Emelia sentì di nuovo i brividi. Aveva un timbro così sexy, profondo, basso e terribilmente sensuale. Se lo immaginò parlare nella propria lingua materna; le cadenze musicali dello spagnolo l’avevano sempre estasiata. Ma c’era qualcosa nei suoi modi che le provocava una certa tensione. Qualcosa nell’irraggiungibile profondità dei suoi occhi. Qualcosa legato al fatto che lui non l’aveva ancora toccata. Non che lei lo desiderasse... o sì?

    Guardò le sue lunghe mani abbronzate, sciolte lungo i fianchi – o forse aveva appena smesso di stringerle a pugno? Poi alzò lentamente gli occhi per incontrare quelli di lui. Il petto le si chiuse, bloccandole il respiro. Era forse rabbia quella che intravedeva nel flebile pulsare di un angolo della bocca? No, non poteva essere rabbia. Lui era sconvolto, ecco tutto. Scioccato nel vederla così. Quale marito non lo sarebbe se sua moglie non lo riconoscesse?

    Si inumidì di nuovo le labbra, cercando di trovare il modo per uscire dal confuso labirinto che era la sua mente. «Mi dispiace... Penserai che sono terribile... ma non so nemmeno... voglio dire... io... non ricordo nemmeno il tuo nome...»

    L’uomo fece una smorfia che somigliava a un sorriso ironico, ma qualcosa le disse che non lo era. «Non penso tu sia terribile, Emelia» commentò. «Hai un’amnesia, ? Sono molte le cose che non ricordi, ma speriamo che con il tempo ti torni la memoria. I dottori ritengono non sia una cosa permanente.»

    Emelia deglutì. E se lo fosse? Aveva letto la storia di una giovane donna che aveva perso la memoria dopo una terribile aggressione. Da quel momento la sua vita era completamente cambiata. Non aveva riconosciuto nemmeno i genitori e il resto della famiglia.

    «Forse dovrei presentarmi» aggiunse lui, interrompendo quei terribili pensieri. «Mi chiamo Javier Mélendez. Sono tuo marito, da quasi due anni.»

    Emelia avvertì nuovamente il battito cacofonico del proprio cuore. Era come se il petto fosse sul punto di scoppiarle. Si sforzò di rimanere composta, stringendo la presa sulle lenzuola. «D-due anni?» chiese quasi soffocando. «Davvero? Non è uno scherzo? Siamo legalmente sposati?»

    Lui annuì. «Il nostro anniversario è alla fine del prossimo mese.»

    Le era impossibile nascondere lo shock. Aprì e chiuse la bocca, cercando di trovare la voce. La sua mente spaziava in ogni direzione, confusa, persa, spaventata. Come poteva essere vero? Come poteva quell’uomo essere suo marito? Come poteva la sua mente cedere a quel modo? Come poteva aver dimenticato persino il giorno del matrimonio? Quale beffardo gioco del destino l’aveva cancellato dalla sua memoria? Emise un sospiro che le graffiò i polmoni. «Ma... dove ci siamo conosciuti?» chiese.

    «Al The Silver Room, qui a Londra» disse lui. «Stavi suonando una delle mie canzoni preferite quando sono entrato.»

    Emelia si passò di nuovo la lingua sul labbro, mentre parte della nebbia sembrava diradarsi. «Io... ricordo il locale...» si portò una mano agli occhi doloranti. «Riesco a vederlo. I lampadari... il pianoforte...»

    «Ricordi il tuo capo?» chiese Javier.

    Emelia alzò lo sguardo, ma gli occhi di lui erano come diamanti: duri e impenetrabili.

    «Peter Marshall...» disse dopo un istante, subito sollevata per essere riuscita a ricordare qualcosa. Per lo meno non aveva cancellato proprio tutto il passato, pensò con un cauto sollievo. «Dirige l’albergo. Anche lui è australiano, ci conosciamo da sempre. Mi ha dato lui il lavoro al piano bar, e mi sta aiutando a trovare un lavoro come insegnante di musica...»

    Qualcosa gli balenò nello sguardo, una specie di lampo che lei non riuscì a definire. «Ricordi perché sei venuta a Londra la prima volta?» le chiese con voce atona, non mostrando alcuna emozione.

    Emelia si guardò le mani per un istante. «Sì...» disse tornando ad alzare gli occhi. «Ho litigato con mio padre, pesantemente. Abbiamo un rapporto molto difficile, soprattutto da quando mia madre è morta. Lui si è risposato solo due mesi dopo la sua scomparsa. E la sua nuova moglie... l’ultima... Non andiamo d’accordo. A dire il vero, non andavo d’accordo con nessuna delle sue mogli. Ne ha avute quattro fino a ora...» Abbassò lo sguardo sospirando. «È complicato...»

    «Sì» disse lui. «Lo è sempre.»

    Emelia tornò a guardarlo, cercando di capire la sua espressione. «Immagino di avertene già parlato, se siamo sposati. Ti avrò detto quanto sia testardo.»

    «Sì, l’hai fatto. Parecchie volte.»

    Emelia si strinse le tempie con le dita. «Perché non mi ricordo di te?» chiese. «Dovrei riuscire a ricordarti.» Devo riuscirci, altrimenti vivrò con un estraneo, pensò sempre più spaventata.

    Gli occhi scuri di lui non dissero nulla. «Il dottore dice che non devi avere fretta, querida» commentò. «Ricorderai tutto al momento giusto. Possono volerci pochi giorni, o forse qualche settimana.»

    Emelia deglutì il nodo che aveva in gola. «E se non succede?» chiese in un sussurro. «Se non riesco a ricordare gli ultimi due anni della mia vita?»

    Lui alzò una spalla, quasi incurante, ma non era certo quello il suo sentimento. «Non pensare alle cose che non puoi controllare» le disse. «Magari quando sarai di nuovo a casa, nella mia villa a Siviglia, inizierai a ricordare qualcosa.»

    Attese un attimo prima di continuare. «La villa ti piaceva molto. La prima volta che ti ci ho portato hai detto che era il luogo più bello che avessi mai visto.»

    Emelia cercò di immaginarsela, ma invano. «Che cosa ci facevo a Londra?» chiese. «Tu non eri in macchina con me, giusto?»

    Di nuovo il lampo nello sguardo di lui, rapido, come la mano di un illusionista che fa sparire un oggetto prima che il pubblico capisca il trucco. «No» disse. «Eri con il tuo» si interruppe un istante, «... con Peter Marshall.»

    Emelia sentì come una mano afferrarle lo stomaco e torcerglielo con forza. «Peter?» Il cuore le balzò in gola. «È rimasto ferito? Sta bene? Posso vederlo? Dov’è? Come sta?»

    Il silenzio che seguì la mitragliata di domande terrorizzate parve contenere un cupo rimbombo, un ritmo lento e in costante crescita, portando Emelia a dei suoni disarmonici che non voleva sentire.

    «Mi dispiace doverti dare questa notizia, ma Marshall non è sopravvissuto all’incidente» disse Javier, sempre senza alcuna traccia di emozione.

    Emelia rimase come pietrificata. Peter era morto? La sua mente non riusciva a elaborare l’informazione. Sembrava sfuggire, come un cane bastonato che cerca di evitare il prossimo colpo. «No...» disse con una voce roca che quasi non riconobbe come propria. «No, non ci credo. Non può essere morto. Non... Avevamo dei progetti...»

    L’espressione di Javier rimase immutata. Nemmeno un minimo muscolo del volto a rivelare ciò che stava provando. Era come se stesse leggendo da un copione una parte che non aveva alcuna intenzione di recitare. Le sue parole erano di ghiaccio. «È morto, Emelia. Non sono riusciti a salvarlo.»

    Emelia sentì lacrime calde di fuoco sgorgarle dagli occhi e correrle lungo le guance. «Gli volevo così bene...» La sua voce si sentiva a malapena. «Ci conoscevamo da anni. Siamo cresciuti nello stesso quartiere. C’era sempre quando avevo bisogno di lui...» Un pensiero la colpì come un pugno, e spalancò gli occhi inorridita. «Oddio...» esclamò. «Chi guidava? L’ho ucciso? Oddio... l’ho ucciso...»

    Allora Javier la toccò per la prima volta. Le prese la mano proprio come aveva fatto il dottore poco prima, ma il suo tocco non era certo come quello freddo e professionale del medico. Al contrario, fu come un marchio a fuoco, un calore penetrante che le bruciò la carne fino alle fragili ossa della mano. «No, non l’hai ucciso» disse sempre in tono piatto. «Era lui che guidava. E andava veloce.»

    Il sollievo che Emelia provò fu una magra consolazione vista la perdita di quel caro amico. Peter era morto? Quelle parole le girarono nella testa senza tregua. Forse stava solo sognando. Forse era solo un terribile incubo dal quale si sarebbe presto svegliata, ritrovandosi nel suo appartamentino a Notting Hill, in attesa di incontrare Peter per discutere il programma della serata, proprio come facevano ogni sera.

    Emelia si guardò la mano, sotto a quella abbronzata di Javier Mélendez. Quel contatto scatenava in lei qualcosa di profondo. Evidentemente il suo sangue lo riconosceva bene. Lo sentiva ribollire nelle vene, accelerandole i battiti e facendole sobbalzare il cuore al pensiero che la toccasse in altre parti del corpo. L’aveva già toccata? Be’ certo... erano sposati...

    Provò a scuotere la testa, ma era come piena di sassi. Gemette, portandosi la mano libera alla tempia, in preda a confusione, disperazione, dolore e incredulità.

    Javier le strinse la mano con una pressione delicata, ma la forza latente non le sfuggì. «Mi rendo conto che questo è uno shock terribile per te. Non c’era un modo migliore per dirtelo.»

    Emelia cercò di scacciare le lacrime, sentendo la gola così secca da riuscire a malapena a deglutire. Quasi le avesse letto nel pensiero, lui le lasciò la mano per versarle un po’ d’acqua.

    «Ecco» le disse, tenendole il bicchiere come fosse una bambina. «Bevi. Ti sentirai meglio.»

    Ma lei era convinta che nulla l’avrebbe più fatta sentire meglio. Un sorso d’acqua non avrebbe riportato in vita il suo amico. Si accigliò, allontanando il bicchiere. «Non capisco...» Alzò gli occhi verso quelli color inchiostro di lui. «Perché ero a Londra se sono sposata e vivo con te a... Siviglia, hai detto?»

    Lui distolse lo sguardo. «Siviglia, sì» rispose. «Appena fuori città. È lì che io... che viviamo.»

    Emelia si chiese se quella correzione avesse un significato. Gli guardò la mano sinistra, notando la fede nuziale brillare sulle dita abbronzate. E sentì un’altra giostra nello stomaco ma, sforzandosi di ignorarla, tornò a guardarlo negli occhi. «Se siamo sposati come dici, dove sono i miei anelli?»

    Subito lui estrasse due anelli dalla tasca dei pantaloni. Lei trattenne il respiro mentre le prendeva la mano, infilandoglieli con facilità. Guardò la brillantezza del diamante perfetto, incastonato nell’anello di fidanzamento, e la fede nuziale abbinata, con la sua fascia di piccoli diamanti tutti attorno. Una cosa così bella e così incredibilmente costosa doveva per forza risvegliare qualcosa nella sua mente.

    Nulla.

    Nada.

    Emelia tornò a guardarlo negli occhi. «Quindi... ero a Londra... da sola?»

    I suoi occhi erano due finestre chiuse. «Io ero a Mosca per lavoro» rispose. «Sono via molto spesso. E tu eri qui per... fare shopping.»

    Eccola di nuovo, pensò lei. Una brevissima pausa prima di finire la frase. «E perché non sono venuta a Mosca con te?» chiese accigliandosi.

    Javier esitò un istante prima di rispondere, dandole la sensazione che le stesse nascondendo qualcosa, qualcosa di importante.

    «Non sempre vieni con me nei miei viaggi, soprattutto all’estero» rispose infine. «Preferisci stare a casa o venire a Londra. Qui i negozi ti sembrano più familiari, e non hai il problema della lingua.»

    Emelia si morse un labbro, stringendo le lenzuola. «Strano... Io odio fare shopping. Non trovo mai la taglia giusta e non mi piace essere pressata dalle commesse.»

    Lui non rispose. Rimase a guardarla col suo volto inespressivo, provocandole la sensazione di essere entrata nella vita di qualcun altro. Se lo avesse amato davvero sarebbe andata con lui, no? Che razza di moglie era se andava a fare shopping – cosa che lei detestava – addirittura in un altro paese, anziché stare al fianco del marito? Non pareva molto devota. Oltretutto, sembrava una cosa che avrebbe fatto sua madre, quando era in vita.

    Dopo un lungo istante, si sforzò di guardarlo di nuovo. «Ehm... so che ti sembrerà una domanda strana ma...» disse, inumidendosi le labbra in cerca del coraggio per continuare, «eravamo felicemente sposati?»

    La domanda rimase a lungo

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